Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Pataria – vol. I


Autore: Belluomini Flavio

Il movimento che prese il nome “Pataria” – sul significato del termine che di fatto rimane oscuro ci soffermeremo alla fine – ebbe origine con la predicazione del diacono Arialdo da Cuggiago (1010 ca- 1066), tra la fine del 1056 e gli inizi dell’anno seguente. Egli, rivolgendosi ai chierici della zona di Varese, criticava lo stile di vita opulento e mondano del clero e chiedeva per i chierici degli ordini maggiori la rinuncia alla pratica sessuale e alla vita matrimoniale. Fallito il tentativo di sensibilizzare quei chierici, nella primavera del 1057, Arialdo si rivolse al clero della città di Milano che, complessivamente, ebbe un atteggiamento di rifiuto verso le sue proposte, anche se non mancarono alcune adesioni. Tra queste, quella di Landolfo, notaio della cattedrale e proveniente da una famiglia capitaneale, che una fonte tardiva indica in quella dei Cotta, il quale strinse con Arialdo un giuramento e divenne con lui guida del movimento, contribuendone all’espansione grazie alle sue capacità oratorie.

Coloro che aderirono alle proposte di Arialdo erano prevalentemente laici sensibili alle tematiche inerenti alla riforma della Chiesa. La composizione del movimento risultava eterogenea. Infatti, se la povertà evangelica richiesta per il clero era gradita alle classi umili, la critica rivolta ad una gerarchia ecclesiastica legata all’alta feudalità interessava anche i ceti medi. Questi, esclusi da un’alleanza realizzatasi intorno all’arcivescovo Guido da Velate tra il clero cittadino, l’aristocrazia e altri pochi cives benestanti, nutrivano il desiderio di emergere nella vita cittadina. La loro presenza nel movimento è testimoniata dalle fonti che ricordano, tra i primi aderenti alla pataria, il monetiere Nazario. Sono altresì attestate, comunque, adesioni da parte di nobili, tra i quali il già menzionato Landolfo e il fratello di questi Erlembaldo. Da tali testimonianze deduciamo che sarebbe un errore identificare il movimento patarino con la classe popolare o interpretarlo puramente come un fatto di rivincita sociale. Inoltre, sebbene risentisse dei mutamenti sociali dell’XI secolo e della realtà socio economica milanese, esso affondava le sue radici in una dimensione religiosa. Dobbiamo considerare che i secoli X e XI, se conobbero ampi mutamenti socio-culturali, in pari tempo furono pervasi da un’esigenza spirituale nuova che si diffuse nei differenti ceti della societas christiana. Tale esigenza si declinò nei vari movimenti religiosi tendenti ad una riforma della Chiesa e questi ultimi, a loro volta, contribuirono ad alimentala. Arialdo risentiva di questa esigenza. Egli, proveniente da una famiglia di possessori del contado, grazie alle risorse familiari, non solo aveva studiato, ma aveva avuto modo di viaggiare, probabilmente entrando in contatto con le correnti spirituali riformatrici d’oltralpe. La pataria va collocata in tale contesto religioso-riformatore; essa riuscì a far breccia perché interpretava in una modalità propria l’anelito spirituale diffuso in Occidente, che auspicava un rinnovamento della Chiesa e della vita ecclesiastica.

La predicazione di Arialdo e di Landolfo, anche se non prevedeva un approfondimento di tematiche teologiche, si basava su una dimensione cristologica: Cristo aveva portato la luce della verità che sola poteva sottrarre l’uomo dalle tenebre dell’errore e condurlo alla vita eterna. Su questo fondamento Arialdo costruiva la sua ecclesiologia. Per il diacono, come ricorda la Vita Sancti Arialdi di Andrea di Strumi, affinché la «lux veritatis» continuasse a splendere, Cristo aveva lasciato «verbum scilicet Dei et doctorum vita».

I doctores, lo si comprende dal prosieguo del testo dell’agiografo, sono i ministri della Chiesa che, dice Arialdo ai laici, hanno ricevuto il loro ufficio «ut eorum vita esset vestra lectio, qui litteras nescitis». Nella concezione patarina i ministri della Chiesa attingono la lux veritatis dal testo sacro, il popolo invece la riceve dalla vita dei ministri. La vita dei chierici, particolarmente quella dei preti, non è però automaticamente lectio, lo diventa solo se essi sono irreprensibilmente conformi a Cristo. A fronte di questo alto compito, i patarini constatano che i chierici vivono mondanamente, comprano le cariche ecclesiastiche, conducono una vita dissoluta con concubine. Ciò fa sì che essi non solo siano di cattivo esempio, ma diventino una barriera alla luce. Inoltre, per i patarini è inaccettabile che i preti si sposino. Arialdo, in linea con la mentalità medievale, pensa la società suddivisa in ordines. Per lui la Chiesa si compone di tre ordini ben distinti: dei predicatori, dei continenti e dei coniugati. Il diacono riformatore esige una vita moralmente corretta, non solo dai chierici (ordo praedicatorum), ma anche dai laici (ordo coniugatorum) e dai monaci (ordo continentium), ognuno in fedeltà all’ordo di appartenenza. Proprio per tale fedeltà, Arialdo sostiene che, se i preti si sposano, vivono come i laici, cioè come i membri di un altro ordine. Egli tende ad esasperare la divisione tra gli ordines e prevede l’identificazione del ministero ecclesiastico con lo stato di vita del clero. Così facendo, giunge a dire che il prete che si sposa non adempie il proprio ufficio. A ciò va aggiunto che Arialdo, come altri riformatori del suo tempo, ha in mente per i chierici la vita canonicale; inoltre, il suo pensiero potrebbe aver ricevuto influssi da idee dualistiche coeve che esaltavano la verginità e tendevano a svalutare il matrimonio.

La preoccupazione di avere preclusa la via che conduce alla salvezza eterna, a causa di un clero indegno, condusse molti laici ed anche alcuni chierici ad aderire alle proposte di Arialdo e di Landolfo. Coloro che le accolsero, inizialmente, cominciarono a disertare le celebrazioni officiate dai preti da essi ritenuti indegni.

Il 10 maggio del 1057, giorno della festa della traslazione del corpo di S. Nazaro, dopo uno scontro oratorio che Arialdo e Landolfo ebbero con alcuni preti, una folla numerosa, influenzata dai suddetti capi patarini, entrò nella cattedrale di Milano e cacciò dal coro i chierici ordinari perché stimati indegni del loro ufficio. Questo fatto appare come l’inizio della fase cruenta, quando i patarini, unitisi con giuramento, iniziarono a fare uso della forza contro i preti e i chierici considerati indegni. In particolare, presero di mira i preti sposati e concubinari, imponendo loro di lasciare le donne, fossero anche le mogli o, in caso contrario, proibendo ad essi di accedere all’altare. È probabile comunque che anche prima di quella data ci siano state azioni violente.

Prima di considerare meglio cosa accadde in quel 10 maggio 1057, vogliamo cercar di capire perché il clero facesse fatica ad accogliere le proposte di Arialdo. Alla base c’è una concezione della Chiesa e della stessa Tradizione diversa da quella che avevano maturato i patarini. Innanzitutto, la questione del celibato obbligatorio non trovava accoglienza perché, secondo la tradizione ambrosiana e non solo, i preti potevano sposarsi; il fatto che i patarini ponessero sullo stesso piano matrimonio e concubinato, proibendo entrambi, era inconcepibile per i chierici ambrosiani. Anche a proposito della gestione dei beni e dell’assegnamento delle cariche ecclesiastiche, le posizioni erano differenti. Fin dall’epoca carolingia, la Chiesa milanese non solo era stata dotata di ricchezze ma anche di diritti feudali; ciò aveva creato un legame tra la gerarchia ecclesiastica e l’alta feudalità che appariva naturale e sembrava una garanzia di stabilità. Gli uffici ecclesiastici, però, con i loro relativi beneficia erano appetibili e, col passare del tempo, cominciarono ad essere elargiti sulla base di un tariffario. Quella prassi veniva sempre più ad essere criticata come simoniaca e i patarini si fecero interpreti del malcontento. Il clero di Milano non era comunque un clero corrotto, esso presentava sicuramente casi di indegnità sia nella sfera sessuale che patrimoniale ma, se si escludevano questi, lo stile di vita del clero ambrosiano era adeguato ai canoni della Chiesa del tempo. I patarini, invece, non solo stigmatizzavano gli eccessi, ma esigevano un cambiamento o, se vogliamo, uno stravolgimento della vita ecclesiastica. Per loro infatti la lux veritatis stava oltre la tradizione fissata dai canoni della Chiesa. Ciò era particolarmente significativo riguardo al matrimonio dei preti: i padri della Chiesa lo avevano consentito, lo stesso San Paolo non lo proibiva ma, a coloro che ricordavano ai patarini queste alte testimonianze, essi dicevano che ormai la situazione richiedeva altro. L’agiografo Andrea nella Vita Sancti Ariladi faceva dire ad Arialdo parole inequivocabili a tale proposito: “Vetera transierunt, et facta sunt omnia nova. Quod olim in primitiva ecclesia a Patribus sanctis concessum est, modo indubitanter prohibetur”».

Di fatto, in occasione del tumulto del 10 maggio, i patarini presero il sopravvento e costrinsero il clero degli ordini maggiori a sottoscrivere, sotto giuramento, il Phytacium de castitate servanda, ossia un documento che prevedeva l’impegno del clero di mantenersi casto e costringeva i chierici degli ordini maggiori al celibato. Tale documento pare facesse riferimento ad un sinodo celebrato in Pavia, nel 1022, con la presenza di Benedetto VIII e dell’imperatore Enrico II. Gli atti sinodali venivano aperti dal papa che citava arbitrariamente una legge giustinianea, la quale minacciava di gravi sanzioni i suddiaconi, i diaconi e i preti che avessero contratto matrimonio. L’arbitrio stava nel fatto che Benedetto VIII non ricordava che tale legislazione era riferita ai chierici, i quali si fossero sposati “dopo l’ordinazione”. Il phytacium comportò ricadute giuridico-patrimoniali sulla vita del clero, in quanto la presunta indegnità del chierico faceva sì che egli, con l’ufficio, perdesse il beneficio. A ciò seguirono, sia in città che nel contando, separazioni forzate dalle famiglie e allontanamenti dalle chiese di preti ritenuti indegni, inoltre, non mancarono saccheggi e incendi ai beni dei preti e di altri chierici. In questa agitazione, i motivi religiosi e quelli economico-sociali si venivano a mischiare; non mancarono, sotto il pretesto del phytacium, azioni che nascevano dal risentimento personale. Quello che apparve come un fatto sovversivo era che il giudizio sul clero venisse dato a prescindere dalla gerarchia ecclesiastica e, soprattutto, che laici si facessero giudici dei chierici. La Sede Apostolica, come vedremo, cercherà sempre di proibire o, perlomeno, di gestire questa azione laicale. In ogni modo, i patarini non volevano una Chiesa senza clero, anzi, era proprio l’immenso valore che essi davano ai ministri dell’altare che li faceva agire, anche con la forza, per un rinnovamento della vita ecclesiastica.

Davanti a tale situazione che si protraeva e coinvolgeva tutta la città, il clero e la nobiltà si rivolsero prima ai suffraganei dell’arcivescovo di Milano Guido da Velate (assente perché in visita presso la corte tedesca) e poi inviarono dei rappresentati a Stefano IX, che dal 2 agosto sedeva sulla cattedra di Pietro. Stefano IX con una lettera invitò i milanesi a placare gli animi e, trattandosi di una questione locale, chiese all’arcivescovo di riunire un sinodo provinciale per trattare i problemi sollevati dai patarini. Guido convocò in sinodo i suoi suffraganei nel monastero di Fontaneto nel novarese, pare tra la fine di ottobre o i primi di novembre, e invitò anche Arialdo e Landolfo, i quali, però, non si presentarono. Essi consideravano Guido indegno e simoniaco e sapevano che i vescovi presenti li avrebbero giudicati secondo i canoni vigenti che consentivano il matrimonio dei preti, proibivano di sciogliere i matrimoni religionis causa e vietavano l’abbandono della partecipazione alle celebrazioni dei preti coniugati. Nell’assise, comunque, non si condannarono le idee dei patarini ma, poiché Arialdo e Landolfo non si erano presentati, essi furono condannati per contumacia che, nel caso di un sinodo, prevedeva la scomunica. Il fossato tra i patarini e la gerarchia locale era ormai scavato.

A seguito della condanna, i patarini inviarono Landolfo da Stefano IX, ma il fidato collaboratore di Arialdo venne aggredito e gravemente ferito nei pressi di Piacenza. Fu Arialdo, allora, intorno alla prima metà di novembre, ad andare a Roma.

Stefano IX, sensibile alle tematiche inerenti alla riforma della Chiesa, non sconfessò il capo patarino, ma neppure prese posizione contro Guido. Chiese poi a Ildebrando di Soana e al milanese Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, diretti per suo conto presso la corte tedesca, di sostare in Milano per una missione esplorativa e per placare gli animi.

Al ritorno di Arialdo da Roma le fonti mettono in evidenza, come prima conseguenza, un cambiamento nella sua predicazione che si spostò decisamente contro il clero simoniaco. Anche se i patarini resteranno convinti della necessità di un clero celibe, in questo periodo, cade in secondo piano la presa di posizione contro i chierici uxorati. Possiamo supporre che il papa abbia ricordato ad Arialdo la distinzione tra matrimonio e concubinato presente nei canoni della Chiesa. Del resto, un riformatore del taglio di Leone IX, nel 1049, in un sinodo, aveva preso provvedimenti severi contro i chierici concubinari, ma non aveva imposto ai preti sposati di lasciare le mogli. La questione simoniaca, poi, era piuttosto intensa nel dibattito teologico del tempo. In alcuni ambiti si pensava che i sacramenti celebrati dai simoniaci fossero opera di un’anti-chiesa e quindi invalidi. C’era, inoltre, chi percepiva la simonia come un morbo contagioso, per cui anche il chierico ordinato gratuitamente da un simoniaco o chi intratteneva rapporti con i simoniaci risultava contaminato. I patarini erano portatori di queste istanze. L’insistenza sulla simonia, nel momento contingente, era poi negli interessi dei patarini, in quanto era considerata un’eresia contro lo Spirito Santo. Arialdo e Landolfo reputavano simoniaci Guido e i suoi suffraganei e tali volevano che apparissero. Che valore aveva allora la condanna inflitta ai capi patarini al sinodo di Fontaneto se quel sinodo era stato un’assise di eretici?

L’istituzione di una canonica, probabilmente già dalla seconda metà del 1057, (Fonseca, Arialdo, p. 137) dove Arialdo risiedeva con altri chierici, pare una risposta concreta alla simonia, al fine di avere un clero idoneo per celebrare i sacramenti. I chierici ivi residenti erano chiamati alla vita comune con povertà individuale e liturgia oraria. Le strutture architettoniche della chiesa, tra queste l’erezione dello jubé, rimandavano allo stile della riforma canonicale.

L’altra conseguenza del viaggio di Arialdo presso Stefano IX fu il rapporto decisivo che venne ad instaurarsi con il vescovo di Roma. Il papa diventava il referente del movimento: la veritas di cui i patarini erano i difensori era ora interpretata dall’auctoritas romana. È chiaro che questo allontanava i patarini dal rischio di derive ereticali e da conseguenti condanne, ma, nello stesso tempo, faceva crescere ancor più verso di loro l’animosità da parte dei difensori delle prerogative ambrosiane. Intanto, il 29 marzo 1058, Stefano IX moriva. Niccolò II, eletto nel dicembre dello stesso anno, inviò, pare su richiesta degli stessi patarini, una nuova legazione, nell’inverno 1059/1060, composta da Anselmo da Baggio e da Pier Damiani. I legati faticarono a farsi accettare dai milanesi, sobillati contro di loro sulla base delle prerogative ambrosiane. La conclusione della legazione condusse alla decisa condanna di ogni forma di simonia e, soprattutto per l’intervento di Pier Damiani che come altri contemporanei riteneva il celibato utile per una riforma del clero, portò ad una sorta di abbinamento tra concubinato e matrimonio del clero. Giudo, infine, accettò tali disposizioni ed emanò un documento di condanna della simonia e del nicolaismo, sottoscritto dagli ordinari della cattedrale. Seguì un giuramento contro la simonia, una penitenza e una cerimonia riconciliatoria per i chierici pentiti; infine tutto il popolo giurò contro la simonia e il nicolaismo. Le conclusioni della legazione, immediatamente, davano ai patarini motivo di soddisfazione, ma il fatto che i legati, in linea con l’atteggiamento romano, ponessero come custodi della nuova impostazione l’arcivescovo e la gerarchia locale, non li lasciava sereni. Arialdo allora si recò a Roma per presentare l’accusa di simonia contro Guido. Niccolò II convocò un sinodo che si svolse nell’aprile 1060, ma Guido ne risultò assolto.

Le cose tornarono a modificarsi con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1061, di Anselmo da Baggio che prese il nome di Alessandro II. Il papa milanese, che conosceva il movimento e capiva come esso potesse contribuire alla riforma della Chiesa concepita in termini romani, incrementò i rapporti di Roma con i patarini. Alessandro, intorno al 1064, concesse il Vexillum Sancti Petri a Erlembaldo: ciò creò un legame di tipo feudale tra il pontefice e il movimento, finalizzato alla repressione degli eccessi di coloro che erano ritenuti i nemici di Dio. (Violante, I Laici nel movimento patarino, p. 201. I patarini, sotto la guida di Erlembaldo che, come laico, poteva dedicarsi alle armi, avrebbero combattuto una vera battaglia armata contro gli avversari della riforma in obbedienza al vescovo di Roma. A partire dalla fine del 1063, gli scontri tra i patarini e i loro avversari furono aspri. Arialdo contestò l’elezione di alcuni abati che avevano assunto la carica senza passare da una regolare vita monastica. Sempre a quel periodo pare che possiamo ascrivere una lettera pontificia che chiedeva ad Arialdo di non riammettere nel loro ufficio i chierici recidivi. Un motivo di scontro acceso fu la critica che Arialdo mosse ad alcune usanze liturgiche di Milano. Egli non concepiva come la liturgia ambrosiana potesse imporre il digiuno nel periodo delle rogazioni che prendevano luogo nella settimana dopo l’Ascensione. Il capo patarino, che non mancava certo di fare digiuni, non voleva che, nel tempo gioioso della pasqua, i cristiani assumessero uno stile penitente. La sua predicazione contro quell’usanza fece sì che sorgesse un tumulto che portò al saccheggio della canonica di Arialdo, liberata dall’intervento di Erlembaldo.

L’anno seguente, a seguito della proibizione imposta da Guido ad alcuni preti della canonica di Arialdo di officiare, intervenne Alessandro II riammettendoli nell’ufficio. La tensione era alta e ormai Alessandro II si era schierato apertamente contro Guido. Un ulteriore momento di tensione avvenne quando due preti monzesi aderenti alla pataria vennero imprigionati per ordine dell’arcivescovo, al fine di impedirne l’attività di predicazione e furono liberati con le armi dai patarini.

Alessandro II, infine, scomunicò Guido perché accusato di non essere fedele agli impegni presi, consegnando ad Erlembaldo la bolla di scomunica da presentare a Milano. L’arcivescovo allora radunò i milanesi in cattedrale il 4 giugno 1066, domenica di Pentecoste e, facendo ancora leva sul sentimento ambrosiano, presentò la bolla come un’ingerenza romana. Scoppiò un tumulto, nel quale lo stesso Arialdo rimase ferito; dopo essersi nascosto, fu tradito da un prete e rintracciato dai soldati dell’arcivescovo fu da questi ucciso: era il 28 giugno 1066. Con la sua morte, la pataria subì una crisi, ma il 3 maggio dell’anno seguente il ritrovamento del suo corpo, portato solennemente in Sant’Ambrogio, rinvigorì il movimento.

In questa nuova situazione il capo della pataria appare sempre più Erlembaldo, anche se la guida spirituale è assunta da un prete, Liprando.

Intanto il papa, nell’estate del 1067, inviava i cardinali Giovanni Minuto e Mainardo di Silva Candida per una terza legazione.  Il primo agosto i legati emanarono le Constitutiones che ribadirono le decisioni della legazione precedente: i simoniaci e nicolaiti erano condannati, ma altresì la gerarchia ecclesiastica locale era ristabilita per guidare la riforma morale e disciplinare del clero. I legati, facendo presente che i patarini avevano ecceduto nella violenza contro i chierici, chiarivano che ciò era da stigmatizzare; inoltre, veniva espressamente proibito ai laici di giudicare i membri del clero «quia cuncta ecclesiastica officia in status sui dignitate consistere volumus», questo imponevano le Constitutiones. Roma, che con Alessandro II vedeva crescere la sua influenza assumendo sempre più i caratteri di una “monarchia papale”, si faceva garante dell’ordinamento canonico. Il papa, al vertice della gerarchia – e questo nella parte introduttiva del testo delle Constitutiones era messo in chiaro – sarebbe potuto intervenire, anche passando oltre l’arcivescovo, nelle questioni disciplinari del clero e controllare i laici perché non cadessero in derive ereticali o in eccessi di comportamento.

I patarini, dovendo accettare le disposizioni romane, pensarono di intervenire a monte, con la sostituzione di Guido. È piuttosto probabile che Alessandro II condividesse le proposte dei patarini a tale proposito. In questo frangente, siamo nel 1068, la pataria conobbe una crescita, al punto che Guido, non più in grado di contrastare la sua azione, decise di restituire le insegne episcopali al re di Germania Enrico IV. I patarini erano finalmente riusciti a far dimettere Guido dalla cattedra ambrosiana, ma non era facile assicurargli un successore che rispondesse alle loro attese.

Fu inviata da Milano una terna ad Enrico IV, ma egli, di arbitrio, designò arcivescovo Gotofredo da Castiglione, suddiacono del clero ordinario. Lo scontento generale per la modalità di tale nomina che non considerava le richieste locali, oltre a compattare i patarini, li unì, in un accordo momentaneo, con altri settori della città. Fino al 1071 l’influenza della pataria in città fu forte. Dopo la morte di Guido, avvenuta il 23 agosto 1071, Erlembaldo, che non considerava valida la nomina di Gotofredo, riuscì ad imporre Attone, un giovane chierico ordinario. Gli aristocratici e altri settori cittadini si ribellarono e, dopo aver attaccato il palazzo arcivescovile, costrinsero Attone a rinunciare all’ufficio. A seguito di questi fatti, la pataria cominciò a perdere consensi.

Gregorio VII, divenuto papa nell’aprile del 1073, fin dall’inizio del suo pontificato, guardò con attenzione alla situazione di Milano e ribadì il rifiuto di Roma a Gotofredo, mentre Enrico IV ne confermava l’appoggio. Siamo ormai nel tempo della lotta per le investiture.

In questa situazione istituzionale opaca, Erlembaldo fece dei passi falsi che crearono ulteriore sdegno nei suoi confronti. In occasione della pasqua del 1074, proibì al clero della cattedrale di amministrare i battesimi, in mancanza di un crisma consacrato da un vescovo considerato degno. Nella pasqua dell’anno seguente, fece amministrare i battesimi a Liprando, in sostituzione del clero della cattedrale. Nella primavera del 1075, poi, circolarono voci che i patarini avevano calpestato il crisma consacrato dai suffraganei e, per questo, vennero ritenuti da molti colpevoli dell’incendio che aveva colpito Milano, interpretato come una punizione divina. Dopo la pasqua del 1075, mentre il dissenso contro i patarini cresceva, Erlembaldo fu ucciso in uno scontro armato. Pochi patarini restavano a Milano, la maggior parte si ritirava nelle più sicure Cremona e Piacenza.

Enrico IV, messo da parte Gotofredo, intervenne di nuovo d’autorità e affidò l’episcopato a Tedaldo, un chierico della sua cappella, consacrato il 4 febbraio 1076 contro la volontà di Gregorio VII e da questi scomunicato. In tale frangente, come testimoniano le lettere inviate dal pontefice al prete Liprando e ad alcuni laici, il papa cercò di promuovere la riorganizzazione dei patarini per portare avanti la riforma e contrastare Tedaldo. Intanto, nei primi mesi del 1077, una delegazione di milanesi, contrari alle ultime decisioni di Enrico IV, incontrò il pontefice a Canossa e chiese il perdono per i rapporti intrattenuti con Tedaldo.  Gregorio allora, nell’aprile del 1077, inviò a Milano Gerardo di Ostia e Anselmo da Baggio, quest’ultimo era l’omonimo nipote di Alessandro II e suo successore a Lucca, i quali vi rimasero tre giorni in segno di riconciliazione.

Negli anni seguenti, con il declino dell’influenza di Enrico IV in Italia, i milanesi dimostrarono la loro avversione a Tedaldo che, per questo, non poté risiedere a Milano. Egli morì il 25 maggio 1085. Lo stesso giorno lasciava questo mondo Gregorio VII in esilio a Salerno.

Gregorio, che ancor più dei suoi predecessori aveva cercato di porre i movimenti riformatori sotto la tutela papale, aveva comunque dato ai patarini un margine di movimento, in quanto essi, in quel frangente, erano una risorsa nella sua lotta contro l’imperatore a proposito delle investiture. Dopo la sua morte le cose cambiarono per il mutato contesto politico ed ecclesiale. Urbano II, divenuto papa nel 1088, a seguito di Vittore III, mietendo i frutti dell’opera dei suoi predecessori, proponeva il papato come suprema autorità e garante della riforma della Chiesa. Il papa poteva intervenire nella vita delle chiese locali e altresì interpretare e moderare i canoni. Su questa base di legame e fedeltà a Roma, Urbano II voleva altresì che la riforma fosse assunta dai vescovi nelle rispettive chiese locali.

Egli intervenne nei confronti di Anselmo III da Rho, nominato arcivescovo di Milano dal re di Germania e imperatore Enrico IV e consacrato il 10 luglio 1086 contro il volere del papa. Dopo che l’influenza dell’imperatore sulla città era cessata, Anselmo era stato deposto. Urbano II, derogando ai canoni, lo richiamò alla guida dell’arcidiocesi in cambio della sua fedeltà, sancita con la consegna del pallio. Le scelte dal papa sarebbero andate però contro le idee dei patarini. Non solo Urbano reintegrava nell’ufficio gli antichi avversari della pataria, come Anselmo III, ma abbandonava anche l’idea che la validità dei sacramenti dipendesse dalla degnità dell’officiante. I patarini che volevano rimanere fedeli alla loro originaria identità dimostrarono disappunto. Si era così infranto quel legame tra Roma e i patarini; essi, a questo punto, non riuscivano più a vedere nel papa l’auctoritas garante della veritas. La linea tracciata da Urbano sarebbe continuata: la riforma della Chiesa, concepita in termini romani, doveva essere portata avanti a livello locale e i vescovi avevano in ciò un alto compito.

Le visite di Urbano II a Milano, nel maggio 1095 e nel settembre/ottobre 1096, suggellarono il legame tra Roma e Milano. Soprattutto, con la solenne tumulazione del corpo di Erlembaldo in un nuovo sepolcro nel monastero di S. Dionigi, compiuta congiuntamente da Urbano II e Arnolfo III (succeduto alla fine del 1093 ad Anselmo da Rho), l’autorità/istituzione veniva ad appropriarsi del carisma della pataria, facendo sì, definitivamente, che la gerarchia locale, in unione ormai con Roma, si ponesse alla guida della riforma contro le pretese dei patarini intransigenti. La pataria, anche se lasciava i suoi segni nella diocesi di Milano, entrava in un lungo processo di declino. I patarini rimasti, infatti, si dovevano adeguare alla nuova situazione, altrimenti sarebbero stati visti come disobbedienti a Roma, nemici dell’auctoritas che sola poteva portare avanti la riforma della Chiesa e dei costumi del clero.

A questo punto, ci soffermiamo sull’uso e sul significato del termine “pataria” e, di conseguenza, “patarino”. Non è casuale farlo dopo l’excursus storico e l’analisi di alcune tematiche decisive per il movimento religioso, perché detti termini hanno conosciuto varie interpretazioni e subito mutamenti semantici lungo la storia.

Dagli scritti coevi emerge piuttosto chiaramente l’uso originario del termine, mentre resta incerto il suo significato. Andrea di Strumi, discepolo di Arialdo, nella Vita Sancti Arialdi, scritta nel 1075, chiama fideles e non patarini coloro che avevano aderito al movimento di cui lui stesso era stato membro. Dei termini pataria e patarino non c’è traccia nelle Lettere del prete Siro, che troviamo accluse alla suddetta opera di Andrea, né nelle fonti ufficiali, come le lettere papali e i documenti delle legazioni romane. Nei Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium, opera conclusasi nel 1077, Arnolfo, membro dell’alta feudalità e nemico dei patarini, nel III libro sostiene che il temine veniva usato hyronice dagli avversari dei seguaci di Arialdo. Il termine poi, egli chiarisce nel libro IV, non sarebbe nato da una volontà specifica, ma spontaneamente. Ma che significato aveva il lemma pataria? Arnolfo, ancora nel IV libro, dice di aver trovato in un libro di etimologie che esso deriva dal greco pathos, corrispondente al latino perturbatio. Di conseguenza, pataria significa agitazione, disordine e patarino sobillatore. È interessante osservare come, quasi nello stesso periodo, l’agiografo Andrea e il cronista Arnolfo, in base alla loro esperienza e alla loro ideologia, presentino i discepoli di Arialdo come fedeli (alla verità) o perturbatori dell’ordine costituito.

Bonizone di Sutri, ferreo gregoriano e sostenitore del movimento, nel Liber ad Amicum, scritto nella seconda metà degli anni Ottanta, riportava che i simoniaci, «improperantes paupertatem» ai discepoli di Arialdo, «paterinos, id est pannosos vocabant». I simoniaci, dunque, biasimandone la povertà, li chiamavano patarini e ciò significava appellarli “straccioni”. Anche Bonizone, dopo la suddetta definizione, cerca di interpretare il termine. Egli sostiene che la traduzione del latino pannus in greco è rachos che, a sua volta, ha un’assonanza con l’aramaico racha, epiteto ingiurioso che Gesù proibisce nel vangelo: «qui autem dixerit fratri suo: “Racha”, reus erit concilio» (Mt 5,22). Di conseguenza, chi chiama “patarino” qualcuno lo ingiuria dandogli del “racha” e merita la condanna indicata dal vangelo; nello stesso tempo, chi riceve questa offesa, poiché la subisce in quanto fedele a Cristo, risulta meritevole davanti a Dio. È sulla base di tale ragionamento che Bonizone può parlare di «gloriosum genus Paterinorum». A dieci anni dagli scritti di Andrea e Arnolfo, la situazione era mutata e il termine, precedentemente usato dagli avversari, poteva ora essere utilizzato come un vanto da parte dei sostenitori del movimento (Lucioni, Gli altri protagonisti, p. 283). Non mancarono, tuttavia, coloro che indicavano i patarini come esseri negativi e addirittura demoniaci, come Benzone d’Alba che nel suo Ad Heinricum IV imperatorem parla di «nova monstra, patarini, famuli perfidię», i quali come altri eretici «ab inferno prodierunt».

Landolfo Seniore, difensore delle prerogative ambrosiane e del clero uxorato contro i patarini, nella sua Historia Mediolanensis, scritta nei primi anni del XII secolo, parla di patalia e dice che tale termine significa placitum Dei, cioè giudizio di Dio. I patarini, per Landolfo, si sentivano i portatori del placitum Dei, emanando sentenze «super sacerdotes», ma il loro agire era arbitrario e pretestuoso per cui giungevano ad un «placitum sine vero».

Le suggestive interpretazioni prese in esame sono fatte a posteriori, in uno spirito polemico, e si connotano come un artificio retorico, è quindi impossibile giungere ad un’etimologia condivisa attraverso di esse. Anche le connotazioni che il lemma giunge ad assumere lungo i secoli non ci aiutano in questo, visto che esse mutano in base ai contesti, fino a quando nel concilio Lateranense III il termine diviene sinonimo di eretico, molto probabilmente ciò trova la sua genesi nei fatti accaduti dopo il 1088.

Quello che sembra interessante da un punto di vista etimologico è comunque la testimonianza di Bonizone. Il vescovo di Sutri, sostenendo in prima battuta (cioè prima di entrare nell’interpretazione), che patarino significa straccione, pare voler offrire, lui lombardo che scrive a chi non è di quell’area linguistica, una traduzione del termine. Il lemma patarino potrebbe allora avere a che fare con un’espressione dialettale la cui radice è pattée, da cui deriva anche il termine “pattaro”, straccivendolo (questa era la strada percorsa nel Settecento dal Muratori che peraltro non conosceva l’opera di Bonizone). Se accogliamo la possibilità che i patarini siano coloro che erano appellati “straccioni”, da quanto abbiamo detto precedentemente sulla composizione del movimento, non possiamo pensare che quegli “straccioni” possano essere identificati con una massa di miserabili. Si torna quindi nell’interpretazione e si aprono alcune possibilità. Il termine potrebbe aver indicato genericamente le masse popolari che oscillavano tra la sequela dei capi patarini o della parte avversa (Violante, La Pataria milanese, p. 198). Tale termine potrebbe invece essere stato rivolto a quei ceti emergenti di cui abbiamo detto che, attraverso il sostegno economico al movimento, esprimevano la loro affermazione. I nobili, sprezzantemente, avrebbero diffuso il termine per bollare come straccioni questi nuovi ricchi che pretendevano di cambiare la società milanese (Golinelli, La Pataria, p. 57). Se invece respingiamo completamente la lettura che vede nei patarini una realtà sociale – in questo caso sarebbe opportuno mettere l’attenzione sulla stessa interpretazione di Bonizone – straccione potrebbe significare umile, in opposizione a quella Chiesa ambrosiana che, ricca di sé, non accettava la guida di Roma, cosa che facevano invece gli umili patarini, per questo trattati da pannosi, straccioni (Cracco, Pataria: opus e nomen, p. 377-378).

Il significato del temine resta comunque incerto e a livello storiografico la questione rimane aperta.

Bibliografia

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Studi:

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