Religiosità popolare – vol. II

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    Autore: Pietro Zovatto

     

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    Solo di recente la storiografia ha fatto oggetto di ricerca la religiosità popolare, faticando non poco ad individuare un suo spazio di attenzione accanto alla religione ufficiale. Incerta nel trovare il suo metodo di procedere, di volta in volta con una andatura vicino alla sociologia, alla antropologia, alla filosofia e, magari, avvicinandosi alla teologia cristiana, o ad una filosofia della religione “laica”, mutuata dall’idealismo materialistico o dal razionalismo agnostico.

    In Italia uno dei primi studiosi della religione popolare è stato Antonio Gramsci, secondo cui la religione si stratifica al suo interno, anche se tutte le religioni non sono che “folklore” in rapporto al “pensiero moderno”. In particolare questa distinzione vale per la “la religione del popolo”, che è molto diversa da quella degli intellettuali. È difficile ridurre la religiosità popolare a folklore, se essa rivendica un culto il cui destino detiene una intenzionalità trascendente

    Dello storicismo ideologico gramsciano uno dei più coerenti discepoli fu certamente Ernesto De Martino, particolarmente con le due opere Sud e magia (1959) e Il mondo magico (1967) con una nuova impostazione della scienza etnologica, con cui esplora la sopravvivenza delle più rozze pratiche di magia cerimoniale in terra lucana (Basilicata). La chiave di interpretazione è data dalla alternativa tra “magia” capillarmente diffusa nel mondo contadino, di fronte alla “razionalità”. Il pensiero meridionale si adagiò a questa temperie senza optare in maniera determinante alla razionalità illuministica.

    Alfonso di Nola dopo la lezione di Ernesto de Martino, inserisce la sua premessa marxisteggiante nella antropologia delle forme religiose popolari. Ha tuttavia il merito di recepire l’istanza empirica nello studiare le feste e i culti popolari delle regioni meridionali, negli anni Settanta, con la ricerca: Gli aspetti magicoreligiosi di una cultura subalterna italiana (1976).Egli si presenta con un’ opera significativa sotto il profilo storico-antropologico sulle forme della “cultura subalterna” in Italia. Sono infatti presentati i risultati di due ricerche effettuate sul territorio in terre abruzzesi, di antica civiltà rurale in riferimento ai culti riguardanti san Domenico a Cucullo e di san Antonio Abate nella Marsica, nonché di san Zopito. E indica il ricupero di questo materiale indigeno e ancestrale da parte della religione ufficiale, che si mostra così egemone su una cultura che deve restare subordinata rispetto a quella dominante e canonica.

    Questa doppia interpretazione degli stessi dati, una “subalterna” del popolo e una “ufficiale”, avanzata dal Di Nola, richiede il passaggio dall’esegesi antropologica di carattere puramente “culturale” su un fatto di natura ostile all’uomo (il serpente) in una società di pastori e di cacciatori. Nonostante il passaggio alla industrializzazione del sistema capitalistico, la persistenza storica di diversi riti locali abruzzesi può essere considerata come resistenza delle culture locali subordinate ai modelli unificanti.

    L’intervento di Carlo Ginsburg: Folklore, magia, religione (in Storia d’Italia, I, 1972) per certi aspetti risente l’influenza di Gramsci avvicinando la religione popolare al “folklore” sacrale, o al magismo, dal momento che per Gramsci la religione è folklore. Prendendo il filo dall’Umanesimo non dà che un giudizio negativo su tutto il Rinascimento fino ad arrivare ad un indistinto coacervo di scongiuri e di giaculatorie espresso da l’Alfabeto dei villani (del Seicento), secondo Ginsburg. In questo particolare momento storico si avverte lo spostamento della strategia della presenza storica controriformista dalla città alla campagna, che diventa il centro della conservazione del patrimonio religioso. Anche i gesuiti, gli strateghi moderni dopo il Concilio di Trento, seguono questo indirizzo e adattano il loro messaggio con le immagini per il loro valore emotivo e di immediata percezione. Di qui il diffondersi di preghiere, di vite di santi, di narrazioni di miracoli, di litanie e almanacchi e cantari con diffusione capillare di questo “opuscolame devozionale”.

    Anche altre opere di nomi prestigiosi del Settecento – secondo le ricerche di Ginsburg come sant’Alfonso, oppure del Pastorini e del Muzzarelli esprimevano una religiosità minore “idilliaca e dolciastra”, sia con le sentimentali canzoncine mariane, sia con la devozione a Gesù Bambino, dal carattere ingenuamente carammelloso. E i parroci nelle loro omelie non predicano certo “né il Dio corrucciato del Vecchio Testamento, né il Cristo giudice, ma il Cristo zuccheroso ed effeminato delle immaginette sacre”. Immaginette che sono, tuttavia, state studiate come una mediazione dimessa ed immediata che partendo da un supporto cartaceo discutibile sotto il profilo artistico, possiedono la virtualità di sollecitare esigenze elementari del popolo verso le sublimi verità del dogma cristiano, fino ad attingere la Trinità, con un sentire autenticamente religioso (P. Zovatto, Il santinio tra metafisica e religiosità, 1988 ).

    Un indirizzo tutto nuovo ha impresso a questo genere di ricerche Gabriele De Rosa che in vario modo ha assimilato la lezione della pietà di don Giuseppe De Luca, di Gabriel Le Bras e di Lucien Febvre. Si tratta della pietà delucana quale presenza di Dio amato per consuetudine d’amore. Per una ricostruzione storica della complessa situazione meridionale, egli ha fatto lungo ricorso al materiale documentario ecclesiastico proveniente dalle relazioni delle visite pastorali dei vescovi, dalle relazioni “ad limina” degli episcopati, dalle pastorali e dai sinodi. Compulsando infatti gli archivi della Calabria e della Basilicata (Lucania), ha potuto esordire con un saggio Nicola Monterisi (1867-1944): “Pensieri e appunti”. Magia popolo nelle esperienze di un vescovo meridionale (“Archivio Italiano per la Storia delle Pietà” 1970, VI, 403-491). Oltre che alla mediazione di “pietas” delucana si avvale dell’apporto sociologico delle “Annales” e “mostra come quelle due regioni del Sud, la religiosità popolare, trovava in continuazione un vigilante controllo dei vescovi per mantenerla ancorata alla ortodossia cattolica secondo i canoni della Controriforma. Parte quindi con una metodologia meno ideologizzata di un Gramsci e muovendo dall’interno della istituzione ecclesiastica con i suoi organi di governo (vescovi, sinodi, pastorali, visite “ad limina”), sistematicamente sottoposte ad analisi. E la magia viene colta nei suoi aspetti sociali quando diventa spia d’una condizione sociale e delle aspirazioni delle popolazioni rurali onde “garantirsi dall’ignoto”, assumendo sì un aspetto irrazionale, ma per sfuggire da una crisi economica senza sbocchi.

    Al De Martino De Rosa replica che allargando la ricerca sulla vita interna della chiesa controriformista, in cui si scopre che la storia religiosa del Sud Italia fu anche storia di sinodi e di visite pastorali, atti ufficiali delle curie vescovili che non vanno sottovalutati. Questi fenomeni di ibridismo magico-religioso rimasero, tuttavia, sempre fenomeni circoscritti e ben individuati da parte della gerarchia. Il vescovo Angelo Anzani nella Basilicata infatti deplorava nel suo clero il compromesso con le pratiche magiche e distingueva un esorcismo extracanonico, stigmatizzato, da un esorcismo previsto dal diritto canonico. E richiamava il senso agostiniano del peccato ( che magari poteva avere smagliature gianseniste) e la volontà di spezzare ogni nesso tra religione e magia. Per Gabriele De Rosa “c’è insomma una storia del sincretismo pagano-cattolico del Sud, che appartiene al folklore, e una storia istituzionale della pietà”, che muove da una concezione religiosa e cristiana dell’uomo, che è “storia di liberazione dalla magia” (Vescovi, popolo e magia nel Sud, 1971).

    Sotto questo aspetto si profila la tesi di Gramsci secondo cui la religione è “la più grande utopia”, cioè la più “gigantesca metafisica” apparsa nella storia. Essa infatti si configura come il tentativo di conciliare le contraddizioni della mitologia della religione popolare con la vita reale della storia, ed è questa la religione del popolo; quella degli intellettuali (gesuiti), invece, è tutt’altra cosa. E lo sforzo di questi è stato sempre quello di unire le due religioni in una unità superiore per sottrarre quella popolare dal frammentarismo e dalla superstizione per portarla ad un grado di maggiore organicità e coerenza unitaria. Ma quello che per Gramsci costituisce un’esigenza ideologica, per De Rosa diventa dato storico, poiché i sinodi, le visite pastorali dei vescovi dell’Italia meridionali sono intervenuti per riportare quelle credenze ambigue ad un livello di consapevolezza dottrinale di ortodossia, secondo le direttive del Concilio di Trento. Del resto, rileva De Rosa, la scarsa stima di Gramsci nei riguardi della cultura popolare, “la religione dei semplici”, corredo della classe subalterna, mostra una pregiudiziale diffidenza verso il popolino che dovrebbe diventare, alleato della classe operaia, protagonista della dialettica marxista per raggiungere il potere.

    Con il Concilio Vaticano II “i pii esercizi”, “gli esercizi di pietà” (Sacrosanctum Concilium 13; Optatam Totius, 89) e le devozioni antiche acquistano la loro dignità essendo aperto ad essi uno spazio para-liturgico, ma pur percorso da una devozione più elevata ­non ancora liturgia con cui la chiesa offre a Dio, per il tramite di Gesù Cristo, il culto ufficiale adeguato­. Il più recente Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti (2002) sospinge la ritualità delle credenze popolari di lunga tradizione (la Madonna, i santi, i pellegrinaggi, le novene) verso la purificazione dei contenuti, accostati con una strategia pastorale più congrua al credo cattolico.

    Anche se quella religiosità popolare è “alternativa o parallela” alla liturgia, non sempre nata da “l’ispirazione liturgica”, riporta “forme di sensibilità naturalistica di credenze e pratiche popolari paleocristiane”. Questo “excursus” dei maggiori studi della critica sulla religiosità popolare mostra la tendenza ad accentuare il lato irrazionale, magico, primitivo della religione popolare e dall’altro lato se ne sottolinea l’arcaicità che assicura gli elementi di lunga durata, nonostante gli interventi dell’autorità ecclesiastica. Pur evidenziando gli aspetti di sincretismo tra sacro e profano – spesso interpretati con una metodologia ideologizzata ­– si rintracciano sì bisogni primordiali di sicurezza psicologica e materiale, ma solo pochi hanno sottolineato gli interventi vigilanti dell’autorità ecclesiastica per convogliare questo fenomeno complesso e debordante del vissuto popolare alle fonti dell’intuizione cristiana. Tendenza del sentire religioso diffuso che pur brillava nella compassata e giuridica chiesa controriformista.

    Ancora ­ha notato Philippe Ariès (Religion populaire et réforme religieuse, (“Maison Dieu” (1975/ 122) in questa storiografia “laica” si rileva nei riguardi della religiosità popolare un atteggiamento di critica non dissimile a quella del XVII e XVIII secolo illuministico, quasi fossero questi intellettuali detentori di un cristianesimo puro delle origini (posizione giansenizzante). Egli rileva che anche in quei secoli la religione popolare e quella delle élites credenti non erano in contraddizione. La collettività e l’intelligenza cattolica avevano in comune (e tuttora hanno), l’apprezzamento positivo per la pratica dei sacramenti e delle devozioni popolari

    Se confrontiamo la religiosità del sud Italia con quella del nord, essa non sembra assumere connotazioni di differenziazione specifica; possiedono ambedue una uniformità di fondo abbastanza simile. Si diversificano piuttosto nella fenomenologia della espressione esteriore. Più vistosa, più mossa al sud, ma insieme anche più corale e totalizzante e più esteriormente sacrale. Tutte le classi sociali vi sono coinvolte, da quelle pubbliche (autorità civili) a quelle borghesi con il popolo minuto. È festa di tutti nella visibilità di una civiltà mediterranea anche nella esternazione del sentire sacro, come avviene a Catania per il patrono sant’Agata. Nel nord l’espressione del religioso popolare sembra coinvolgere di più la persona-individuo nella consapevolezza di una venerazione contenuta, che sa ancora del tradizionale controriformista, specie nelle piccole borgate paesane. In queste va assottigliandosi la partecipazione delle pubbliche autorità, in particolare dopo la dissoluzione del partito d’ispirazione cristiana. Talune sopravvivenze paganeggianti sembrano più appariscenti nel sud che nel nord, dove l’influenza dell’autorità ecclesiastica e la secolare formazione sacerdotale dei seminari è stata più incisiva per incanalarla alla sostanza del dogma cattolico, come nella diocesi di Milano con la cerchia dei santuari mariani (i Sacri Monti) posti a baluardo del mondo protestante, o come a Padova con il Santo (san Antonio). Mentre nel sud la forza del tradizionale regge con più pervasività e vischiosità nel sentimento religioso collettivo, non del tutto immune dalla arcaica “pietas” paganeggiante. Implicitamente lo suggeriva il De Luca nella sua Introduzione… e Gabriele De Rosa in parallelo con la religiosità prescritta dall’autorità ecclesiastica ( che nel sud Tirolo, diocesi di Bressanone e Trento, riusciva determinante, per es. per i santuari à répit diffusi nell’arco alpino di tutto il nord). Senza dire del De Martino che faceva dell’elemento pagano (magia e superstizione) la chiave di comprensione della religiosità popolare. Dal mondo pagano al cristianesimo la religiosità popolare ha segnato un processo di purificazione innegabile, ma il percorso non è ancora arrivato al termine di attingere in pienezza il Cristo e il mistero trinitario (valore e limiti della religiosità popolare in “Evangelii nuntiandi, 1975).

    Fonti e Bibl. essenziale

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