Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Censura ecclesiastica - vol. I


Autore: Gigliola Fragnito

Fin dalle sue origini la Chiesa esercitò forme di controllo sull’ortodossia dottrinale attraverso le deliberazioni dei concili. Ma tra Due e Trecento la vigilanza sulla produzione libraria divenne più rigorosa per il moltiplicarsi di botteghe di copiatura e l’ampliarsi del pubblico dei lettori ai docenti, studenti, chierici e regolari in seguito alla nascita delle università e degli ordini mendicanti insediatisi entrambi nei centri urbani. Sorse allora un problema che avrebbe attraversato gran parte dell’età moderna: a quale autorità spettava definire l’ortodossia? Ai concili, ai vescovi o alle università, come ad esempio pretendeva la facoltà di teologia di Parigi? Problema non irrilevante destinato ad assumere nuove dimensioni sia con l’invenzione a metà ’400 della stampa e il suo straordinario sviluppo, sia con la diffusione nei primi decenni del ’500 della Riforma protestante. La necessità di verificare l’ortodossia dei testi prima della stampa fu all’origine di due bolle papali: la Inter multiplices di Innocenzo VIII (1487) che introduceva la censura preventiva affidandola ai vescovi e, a Roma e nel suo distretto, al Maestro del S. Palazzo, e la Inter sollicitudines di Leone X (1515) che riservava a vescovi e inquisitori la concessione dell’imprimatur. Era questa la normativa in vigore, anche se largamente disattesa, quando penetrarono in Italia le dottrine luterane. Impreparata a contrastare la diffusione di opere eterodosse e turbata da profondi dissidi, Roma tardò a dotarsi di istituzioni e strumenti nuovi: non a caso prime a pubblicare in Europa e in alcuni Stati italiani elenchi di opere vietate furono le autorità civili, le università e le inquisizioni nazionali. Solo dopo la creazione della Congregazione romana dell’Inquisizione (1542) alla persecuzione di chi professava dottrine eterodosse si associò la caccia agli scritti che le divulgavano.

Sebbene la bolla Licet ab initio non conferisse alla Congregazione competenze in materia di censura, fin dal 1543 questa si arrogò il controllo sulla stampa, emanando un editto che, estromettendo i vescovi, incaricava propri delegati di ispezionare biblioteche, botteghe di tipografi e librai, case private, conventi e monasteri e di sequestrare e bruciare i libri proibiti rinvenuti. L’esecuzione di tali direttive trovava, però, un limite invalicabile nella mancanza di liste ufficiali di interdizioni, la cui predisposizione venne avviata alla fine degli anni ’40. Affidata dapprima al Maestro del S. Palazzo, poi ai generali di alcuni Ordini, venne trasferita da Paolo IV all’Inquisizione che promulgò il primo indice romano il 30 dicembre 1558. Da questo momento la storia della censura ecclesiastica è intimamente legata a quella degli indici. Il primo catalogo si rivelò di difficile applicazione: severità e approssimazione delle condanne; esclusione dei vescovi dall’esecuzione; ostracismo delle autorità civili; rigore delle pene comminate ai trasgressori, colpiti dalla scomunica prevista dalla In coena Domini solo per chi avesse letto o posseduto scienter libri di eretici e, quindi, costretti a ottenere l’assoluzione nei due fori, costituirono ostacoli insormontabili. Alla morte di Paolo IV (agosto 1559) Pio IV affidò al concilio, allora riunito a Trento, la redazione di un nuovo indice. Stilato da una commissione di vescovi e promulgato con la bolla Dominici gregis (24 marzo 1564), rispetto al primo – non incorporato nel nuovo – l’indice tridentino manteneva la divisione in tre classi (autori di cui veniva condannata l’opera omnia, autori di cui solo alcuni scritti erano vietati, e scritti anonimi) e introduceva 10 regole relative ad alcune categorie di opere, ma presentava molti elementi di moderazione: cassava o attenuava molte condanne; consentiva l’espurgazione dei testi sospesi; restituiva ampie competenze ai vescovi e distingueva tra lettori e detentori di opere eretiche, sottoposti alle sanzioni della In coena Domini, e lettori e detentori di opere proibite non eretiche, la cui assoluzione spettava al vescovo, sottoponendo alla sua giurisdizione la maggior parte dei colpevoli.

Con l’elezione di Pio V (1566), artefice del primo indice, la questione della censura ecclesiastica si intrecciò con quella cruciale dei poteri ai vertici della Chiesa. Il progetto di revisione dell’indice tridentino, infatti, non mirava solo al ripristino dei divieti del 1558, ma anche e soprattutto alla riaffermazione della preminenza dell’Inquisizione sul Concilio in materia di definizione dell’ortodossia. Dopo alcuni interventi che svuotavano la legislazione conciliare, Pio V nominò una commissione cardinalizia per la revisione dell’indice tridentino, eretta da Gregorio XIII con la bolla Ut pestiferarum opinionum in Congregazione dell’Indice (13 settembre 1572). Destinata a rimanere in vita fino al 1917, essa si affiancava, senza una ridefinizione delle rispettive competenze, all’Inquisizione e al Maestro del S. Palazzo. Composta da un numero variabile di cardinali, dal Maestro del S. Palazzo, da un segretario e dai procuratori degli ordini mendicanti, che ne erano tutti membri ex officio, nonché da un numero variabile di consultori, la Congregazione doveva preparare un nuovo indice e emendare le molte opere sospese donec corrigantur in vista della pubblicazione di un index expurgatorius. Non aveva però poteri di intervento sul territorio, né era legittimata a emanare divieti. Ciò consentì al Sant’Ufficio di mantenere un monopolio pressoché incontrastato sulla circolazione libraria e al Maestro del S. Palazzo di estendere la propria giurisdizione oltre i propri confini: dai loro uffici vennero inoltrate agli inquisitori locali e ai vescovi liste sempre più consistenti e confuse di proibizioni, spesso contrastanti con l’indice tridentino ancora formalmente in vigore, ma avallate, quantomeno nei primi anni di esistenza, dalla Congregazione dell’Indice. Questa pluralità di organi deputati alla censura era però destinata ad alimentare un alto tasso di conflittualità che ebbe riflessi sul terzo indice: dopo varie stesure solo il 27 marzo 1596 Clemente VIII poté promulgarlo e inviarlo a tutta l’Europa cattolica, ma poco dopo l’Inquisizione ne impose la sospensione. Erano venuti al pettine tutti i nodi che si erano aggrovigliati nei 25 anni di lavori preparatori. Orientamenti divergenti in seno alla Congregazione stessa, pressioni esterne dei papi dettate dalla loro provenienza o meno dalle file dell’Inquisizione, interferenze di questa sulle scelte dell’Indice avevano rallentato i lavori. I contrasti riguardavano non soltanto cosa si dovesse condannare, ma anche chi dovesse condannare e chi dovesse applicare la normativa, se i vescovi o gli inquisitori. La sospensione dell’indice, con la pretesa dell’Inquisizione di inserirvi i divieti del 1558 e di imporre la clausola secondo cui i propri divieti passati e futuri non potevano essere abrogati dai pontefici, evidenziava la durezza dello scontro. La clausola, che avrebbe inferto un grave colpo alla plenitudo potestatis sancendo la totale autonomia del tribunale in materia di tutela e definizione dell’ortodossia, non passò, ma il papa dovette cedere sulla proibizione di alcuni scritti, tra cui le traduzioni della bibbia nelle lingue materne.

L’indice clementino riproduceva quello tridentino, aggiungendo in coda a ogni lettera dell’alfabeto le successive proibizioni e mantenendo la suddivisione per classi, e introduceva nuove regole. Rivalutava i poteri dei vescovi restituendo loro un ruolo primario nell’esecuzione dell’indice, nella censura preventiva e in quella espurgatoria, affidate a congregazioni “locali” dell’Indice da loro presiedute. La bolla Sacrosanctum catholicae fidei di Clemente VIII affrancava la censura dal Sant’Ufficio, dando incarico all’Indice di sovrintendere all’esecuzione del terzo catalogo, che fu condotta con tempi lunghi, ma con inusitata efficacia, nonostante intralci degli inquisitori che non cessarono con la fine delle operazioni. Il Sant’Ufficio infatti continuò a intervenire sui suoi ministri perché sequestrassero opere non ancora formalmente proibite e ad avallare Syllabi locali che spesso ripristinavano proibizioni del 1558 e interpretavano arbitrariamente le regole. Tali iniziative vennero bloccate nel 1621 dall’Indice, che nel 1613 era riuscita a ottenere da Paolo V l’autorizzazione a sottoscrivere e pubblicare decreti che avrebbero riunito le proprie condanne e quelle pronunciate dall’Inquisizione e dal Maestro del S. Palazzo. Se questa parvenza di razionalizzazione contribuì ad attenuare le tensioni, vi concorse anche l’appannato prestigio dell’Indice a seguito del fallimento dell’attività espurgatoria, sintetizzabile nel ritiro del primo e unico tomo dell’index expurgatorius apparso nel 1607 ad opera di G.M. Guanzelli detto Brisighella. Al termine dell’esecuzione del clementino, la Congregazione tornò, quindi, a occuparsi di aggiornamenti e di stesura di nuovi indici, di espurgazione di testi sospesi e di esame di opere sospette, mantenendo esilissimi rapporti con la periferia, ormai rigorosamente controllata dal Sant’Ufficio. Non stupisce che il card. P.C. Sfondrati suo prefetto decidesse di trasferirsi in diocesi, avendogli «la esperienza […] mostrato che si fa tanto poco in questa Congregatione dell’Indice per varii rispetti […], che mi pare al fine che né questa, né altra Congregatione mi habbia da levare, per quanto si può, dalla residenza» (lettera a Bellarmino, 24 aprile 1615, cit. da P. Godman, 174). Alla promulgazione di ben tre indici in meno di 40 anni, seguì un lungo periodo di ordinaria amministrazione, in cui il problema più controverso riguardò la stampa di aggiornamenti che rendessero più chiara la percezione dei titoli proibiti. In tale attività si distinse il segretario F. Capiferro Maddaleni con compilazioni non ufficiali del 1619, 1624, 1625 e 1632.

Dagli anni ’50 si avvertì l’esigenza di un nuovo indice, ma i tentativi dei segretari di dargli una nuova struttura e di modificare le regole, incontrarono le resistenze dei cardinali. Promulgato solo il 5 marzo 1664 con la bolla Speculatores di Alessandro VII e rivelatosi strumento concepito più per gli addetti ai lavori che per il comune lettore, ne venne pubblicata nel 1665 una nuova versione più sintetica e funzionale, che eliminava le classi sostituendole con l’elenco alfabetico per nome e cognome dell’autore e per prima parola del titolo dell’opera o con l’indicazione opera omnia, un impianto che verrà mantenuto negli aggiornamenti e negli indici successivi. La sostanziale inefficacia della censura, la confusione nata da proibizioni della stessa opera rese note in tempi diversi dalle due Congregazioni, ma anche la volontà di rafforzare «la riputatione di quella poco accreditata Congregatione dell’Indice» (lettera a A.M. Querini, dicembre 1740, cit. da E. Rebellato, 201) indussero Benedetto XIV a emanare la costituzione Sollicita ac provida (9 luglio 1753), che segnò una svolta nella storia della censura. Stampata in apertura dell’indice del 1758, essa ridefinì le procedure sostituendo alla dura repressione di autori cattolici la pratica dell’autocensura; rese più ponderato l’esame di un’opera prima della condanna e più accorta la scelta degli esaminatori, e limitò l’intervento del Sant’Ufficio alle materie «gravioris momenti». Queste norme “garantiste”, peraltro spesso violate come testimonieranno le condanne di Rosmini e Gioberti, rimarranno in vigore fino alla Officiorum ac munerum di Leone XIII (1897) che, non condannando più la libertà di stampa ma solo le sue degenerazioni e affidando il controllo della stampa e della lettura ai vescovi, preludeva allo scioglimento della Congregazione dell’Indice.

Nonostante alcune scelte moderate di Benedetto XIV (permesso di lettura di versioni bibliche nelle lingue materne approvate da Roma, omissione dei divieti dei libri copernicani, sfoltimento di molte vecchie proscrizioni), l’indice colpì gran parte della produzione illuministica, non riuscendo a impedirne la diffusione né a bloccare l’accelerazione della politica giurisdizionalista degli Stati della penisola, avviata già nel Seicento, concretizzatasi nella statalizzazione della censura e nel progressivo smantellamento dei tribunali dell’Inquisizione. Priva del “braccio secolare” al di fuori dello Stato pontificio, la Chiesa ripiegò sui vescovi sollecitati a dissuadere i fedeli dalla «perniciosa lettura» e affidò a brevi ed encicliche papali e ad aggiornamenti dell’indice del 1758 interventi sempre più intolleranti dopo l’ondata rivoluzionaria e il decennio napoleonico. Se durante la Restaurazione si ristabilirono la tradizionale alleanza tra trono e altare e la collaborazione in materia di censura, nel 1848 l’art. 28 dello statuto albertino (esteso nel 1861 a tutto il Regno), prevedendo la libertà di stampa con l’eccezione di bibbie, catechismi, libri liturgici e di preghiere, sottoposti all’imprimatur del vescovo, pose le premesse per ulteriori irrigidimenti. Con articoli dai toni apocalittici contro la dilagante secolarizzazione, il pensiero liberale, la libertà di culto e la libertà di stampa, causa di disgregazione sociale e morale, la «Civiltà Cattolica», fondata dai gesuiti nel 1850, ispirò molte proibizioni, ma suscitò anche aspri conflitti in seno all’Indice tra moderati e intransigenti, sostenuti questi ultimi dal Sant’Ufficio e destinati, come in passato, a prevalere. Si susseguirono aggiornamenti corposi dell’indice del 1758 sotto Pio VI (1787), Pio VII (1819), Gregorio XVI (1835 e 1841), Pio IX (1852 e 1879) e Leone XIII (1881 e 1887) il quale promulgò nel 1900 un nuovo indice. Accerchiati dagli attacchi di una incontenibile produzione editoriale, minacciati dalla perdita dello stato temporale, sempre più consapevoli dell’inefficacia degli indici, ma decisi a ribadire che la Chiesa, in quanto custode del “depositum fidei” e dell’ordine morale, era l’unica autorità legittimata al controllo della cultura, i papi ricorsero spesso a encicliche che condannavano i principi della libertà di coscienza e di opinione, l’anticlericalismo, l’orientamento laicista dei governi postunitari, tra le quali la celebre Quanta cura con l’annesso Sillabo degli errori di Pio IX (8 dicembre 1864), difesa del primato dell’ordine sovrannaturale e dell’autorità pontificia e denuncia senza appello della cultura moderna.

Nati come risposta alla Riforma protestante e finalizzati allo sradicamento di ogni forma di dissenso teologico, gli organi censori e gli indici dei libri proibiti trasformarono nel giro di pochi decenni la censura da attività episodica in struttura stabile che – debellata l’eresia teologica – invase ogni campo del sapere e della morale e cercò di penetrare nell’intimo delle coscienze e delle menti, sottomettendole a stringenti direttive culturali, religiose e ideologiche. A organismo di indubbia modernità fu affidato un progetto, destinato a trovare applicazione praticamente solo in Italia, che puntò a controllare la produzione libraria italiana ed europea e a vietare espressamente opere “nocive” o intere categorie di scritti attraverso regole dalla formulazione così generica da prestarsi a ogni arbitrio. Con un costante aggiornamento dei divieti alla temperie culturale, alle correnti dissidenti interne alla Chiesa, ai mutamenti politici, sociali e comportamentali, e con un adeguamento alla mutevole fisionomia dei lettori la censura si abbatté sui settori ritenuti volta a volta più dannosi. La tutela di un ordine immutabile portò a un ampliamento senza confini degli ambiti di intervento: la difesa dagli attacchi contro l’ortodossia della fede e la morale si estese a quelli contro il potere spirituale e temporale dei papi, le istituzioni ecclesiastiche, il clero secolare e regolare, i suoi privilegi e le sue immunità, e alle pretese fondamenta storico-giuridiche su cui essi poggiavano. Attenuatasi a fine ‘500 la propaganda protestante (destinata a risorgere nell’’800 grazie alle società bibliche), oggetto di condanna furono i testi a sostegno dell’autonomia della politica dalla morale, quelli contro le interferenze della Chiesa nella sfera pubblica, i classici del giurisdizionalismo settecentesco, le opere ispirate a principi liberali e democratici o che contestavano la difesa a oltranza del potere temporale. Sotto la scure della censura caddero anche le opere letterarie per i toni anticlericali e i contenuti immorali; quelle scientifiche e filosofiche perché scardinavano il sistema aristotelico-scolastico; quelle storiche perché non subordinavano la conoscenza del passato alle esigenze apologetiche della Chiesa. Sul piano teologico, oltre ad opere di critica testuale applicata ai testi sacri, a essere investita fu la ricca produzione originata dalle controversie intorno al rapporto tra grazia e libero arbitrio, nelle sue varie articolazioni, e dalle correnti mistiche. Ma fu l’emergere tra gli intellettuali europei dalla metà del ‘600 dei principi di autonomia della ragione e di separazione tra religione, da un lato, morale, scienza e politica dall’altro e il loro sviluppo e la loro divulgazione a opera dei philosophes nel ‘700 ad allarmare come mai in precedenza i censori. Rivendicazione dei diritti della ragione umana, della libertà di coscienza e di espressione, negazione sul piano politico della teoria dell’origine divina del potere e sul piano religioso della rivelazione in nome della tolleranza, lotta alla superstizione e all’oscurantismo, attacchi alla religione stessa capaci di favorire incredulità e ateismo e di promuovere una morale sociale laica, difesa dei diritti dello Stato contro le ingerenze della Chiesa, rappresentarono una minaccia dirompente al suo tradizionale sistema di valori, aggravata dalla dilagante stampa periodica, accessibile a un più esteso pubblico di lettori, che vi attingevano le esecrate idee illuministe, massoniche, liberali, democratiche, socialiste e comuniste.

Se queste interdizioni, indirizzate prevalentemente ma non solo ai ceti colti, colpivano coscienze sempre meno sensibili alle sanzioni ecclesiastiche, altre incisero in maniera assai più duratura su donne e uomini di tutti gli strati sociali avvicinatisi alla parola scritta grazie alla stampa e al crescente uso delle lingue vernacolari. Questo mondo ai confini tra oralità e scrittura, digiuno di latino, si vide precluso l’accesso a due settori di largo consumo: le traduzioni della bibbia e soprattutto i libri devozionali di contenuto biblico in volgare (Ufficioli della Madonna, Vite di Cristo e della Madonna, Meditationi della Passione, raccolte dei salmi, storie sacre, tragedie, ecc.) e gran parte della letteratura italiana cui si aggiunse nel Settecento quella europea, che ricadevano sotto le regole generali degli indici. I cosiddetti “semplici” vennero privati di testi con i quali dal tardo medioevo avevano avuto un’intensa familiarità e sui quali avevano spesso acquisito in casa e a scuola i primi rudimenti della lettura e la prima formazione religiosa, sostituiti dall’apprendimento mnemonico del catechismo e dalla recita delle preghiere in latino.

Gli effetti della censura ecclesiastica non possono, quindi, essere misurati sul numero di titoli espressamente messi all’indice e sulla distruzione di un enorme patrimonio librario nei periodici roghi. Vanno valutati anche tenendo conto dell’incisività delle regole; dell’autocensura cui gli autori dovettero sottoporsi; delle mutilazioni e degli stravolgimenti (spesso non dichiarati) di un’infinità di opere emendate; del riorientamento di interi settori della produzione libraria in funzione di una sempre più dilatata nozione di eresia; del numero rilevante di scritti sottratti alla circolazione, ma non inseriti negli indici per motivi politici. Né d’altro canto possono essere ignorati gli effetti complessivi e di lunga durata della tenace azione condotta dalla Chiesa per scoraggiare la lettura non solo dei libri vietati, ma di qualsiasi libro, associandola intimamente all’idea di peccato e di reato, e le conseguenze che essa ebbe nel nostro paese ostacolandone la crescita intellettuale e rallentando i processi di alfabetizzazione e di unificazione linguistica.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO