Biblioteche – vol. I

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    Autore: Federico Gallo

    La Chiesa ha conservato libri sin dalle sue origini. In primo luogo la Sacra Scrittura e gli scritti apostolici, necessari alla celebrazione liturgica e alla catechesi. A questo nucleo fondamentale si aggiunsero nel corso dei primi secoli gli atti dei martiri e gli scritti dei Padri; di questi ogni comunità doveva possedere almeno i libri indispensabili e più letti. La condizione di totale o parziale clandestinità impediva però l’esistenza di raccolte pubbliche; si può dunque immaginare che i libri sacri e liturgici fossero conservati presso abitazioni private, verisimilmente presso i ministri del culto. Non va dimenticato che insieme ai libri erano conservate le carte, i documenti delle comunità primitive: essi non erano così numerosi da richiedere un deposito archivistico distinto da quello bibliotecario.

    Dopo la svolta costantiniana, i cristiani cominciarono a poter disporre di luoghi propri per la vita delle comunità. Fu dunque possibile raccogliere gli scritti in modo più ufficiale e organizzato. Quando le quantità lo consentivano, le carte d’archivio venivano conservate in un ambiente differente da quelle dei volumi; la possibilità che un medesimo luogo servisse da archivio e da biblioteca fu tuttavia costante, specie per le istituzioni più piccole, sino al termine del primo millennio. Le prime biblioteche sorsero così presso le residenze dei vescovi. Esse contenevano i testi biblici e le opere di commento e di supporto ad essi, le opere degli autori ecclesiastici ed anche quelle degli scrittori profani: utili, questi ultimi, ad apprendere il “bello stile”.

    Peculiare fu la situazione di Roma, dove sin dal III secolo le chiese raccolsero, tra le “carte” da conservare, gli atti dei martiri, e dove Damaso (366-384) fu il primo papa a creare una biblioteca della Chiesa di Roma; circa un secolo dopo papa Ilaro (461-468) fondò una biblioteca con un’aula destinata ai libri greci ed una a quelli latini, secondo la scansione già in uso nella Roma imperiale. Altri interventi importanti si dovettero ad Agapito I (535-536), Gregorio Magno (590-604) e Zaccaria (741-752). La presenza di biblioteche e scuole di lingua greca nella città dei papi fu caratteristica nei secoli VII e VIII.

    Accanto alle biblioteche ecclesiastiche istituzionali vanno ricordate quelle di singoli uomini di cultura cristiani, che avevano la stessa formazione intellettuale dei loro coevi pagani. Non pare che in Italia si siano sviluppati luoghi di raccolta libraria intesi come un cenacolo di dotti studiosi, alla stregua di quanto avvenne ad Alessandria, Antiochia e Cesarea, dove fiorirono scuole teologiche e filologiche con esponenti del calibro di Clemente, Eusebio ed Origene. Unica eccezione fu il monastero di Vivarium, il fervido centro di erudizione voluto da Cassiodoro dopo il 554 nella sua nativa Calabria, presso Squillace. Mosso dall’ideale dell’unione armoniosa delle scienze sacre e profane, Cassiodoro elaborò un piano di studi e di letture organico e completo; da questo progetto scaturì anche un’importante attività di ricerca testuale, produzione di codici e traduzione dal greco.

    In Italia, più che altrove, la cultura cristiana si innestò su quella romana; quasi per continuazione naturale le istituzioni culturali ecclesiastiche ereditarono e riformularono i modelli e le abitudini culturali del mondo imperiale. Se a Marziano Capella dobbiamo l’ordinamento delle materie profane, per quelle ecclesiastiche si devono i primi ordinamenti appunto a Cassiodoro (485 ca.–580 ca.) e a Gelasio I (492-496), cui è attribuito il cosiddetto decreto «De recipiendis et non recipiendis libris». Tali modelli vennero acquisiti dalla scuola e costituirono così la base della tassonomia dei campi del sapere, secondo scansioni che sono state tramandate e rimodellate per secoli.

    A partire dalle prime biblioteche legate al vescovo nacquero così, nel primo Medioevo, le biblioteche “cattedrali” (anche dette, con sfumature non irrilevanti, “episcopali” o “capitolari”). Esse si affiancavano alla scuola cattedrale, per lo studio e la consultazione, e costituirono poco alla volta raccolte di manoscritti ancor oggi notevoli: si pensi alle biblioteche cattedrali di Vercelli, Novara, Ivrea, Pavia, Milano, Cremona, Verona, Modena, Lucca, Arezzo. Anch’esse, seppur già ricche della tradizione romano-cristiana, godettero della stagione fortunata di Carlo Magno, che le volle importanti centri di cultura, e furono costantemente arricchite da doni e lasciti librari di vescovi e prelati.

    Contemporaneamente nasceva e si sviluppava anche in Italia la vita monastica. Nei monasteri i libri furono indispensabili dapprima soltanto per la liturgia, lo studio biblico e la meditazione, ma nel corso del tempo si ampliò lo spettro delle letture dei monaci, seguendo il nuovo modello culturale carolingio, e nacque l’uso di un locale appositamente deputato all’attività di copiatura e alla conservazione dei libri. Anche in ambito monastico, dunque, vennero a crearsi raccolte inestimabili di manoscritti: basti citare anzitutto Bobbio, Nonantola, Montecassino e Farfa, e poi Pomposa, S. Michele in Val di Susa, Fruttuaria, Lucedio, Novalesa, Fonte Avellana, Cava dei Tirreni. Anche le biblioteche monastiche di tradizione bizantina dell’Italia meridionale furono influenzate dal modello benedettino. Come è noto, l’acquisizione di libri avveniva soprattutto, benché non esclusivamente, per opera dei copisti interni al monastero, i monaci cosiddetti “amanuensi” che lavoravano nello scriptorium. Fu il mondo autonomo dei monasteri, insieme a quello delle scuole cattedrali, a trasmettere e salvare gran parte del patrimonio letterario antico, poi riscoperto proprio in queste biblioteche dagli umanisti.

    Un secondo momento importante fu la nascita degli ordini mendicanti, contestuale a quella delle università. Anche i conventi si dotarono di biblioteche ben fornite; esse dovevano soddisfare sia le esigenze del curriculum di studi filosofici e teologici affrontato dai frati studenti e sostenuto dai frati docenti, sia quelle della cura d’anime da parte dei frati impegnati nella predicazione e nelle confessioni. Tra le molte insigni biblioteche conventuali che vennero formandosi anche in Italia, si possono ricordare anzitutto quella francescana ad Assisi, e a Firenze le domenicane S. Marco e S. Maria Novella, la francescana S. Croce e l’agostiniana S. Spirito; altre importanti biblioteche conventuali vennero create ad esempio anche a Torino, Venezia, Padova, Bologna, Pisa, Siena, Todi, Napoli. L’acquisizione di libri poteva avvenire secondo una quadruplice modalità: opera di copiatura da parte di frati, commissione presso copisti di professione, acquisto sul mercato librario, donazioni di privati. L’importanza dello scriptorium interno andò comunque calando progressivamente, sino all’invenzione della stampa.

    Nelle biblioteche monastiche a partire dal XI secolo e poi in quelle conventuali vi erano solitamente due fondi. Il primo era quello della biblioteca vera e propria, dedicata allo studio, la libraria communis, una grande aula a tre navate in cui i libri si trovavano cathenati ai banchi sui quali erano letti. La disposizione dei banchi è ancora oggi visibile in due biblioteche non ecclesiastiche: la Malatestiana di Cesena e la Laurenziana di Firenze. I banchi sono disposti in due file, accanto alle finestre, uno dietro l’altro. Nelle scansie, legati ad una lunga catena, stanno i libri, che possono esserne estratti per essere appoggiati sul leggìo inclinato del banco e venire così letti. La collocazione nei banchi costituisce una prima “segnatura” e consente di organizzare una disposizione organica e coerente dei libri in base al loro contenuto. Tale biblioteca era percepita come esterna, ossia aperta anche alla scuola e alla consultazione. L’altra, la parva libraria o minus armarius, era invece quella interna, costituita dai libri vagantes ossia senza catena; essi erano destinati all’uso personale dei singoli religiosi. Ove siano sopravvissuti inventari di epoca medievale o umanistica delle biblioteche è possibile e molto interessante studiarne la ricostruzione.

    Occorre rilevare anche la presenza di elementi iconografici all’interno delle biblioteche ecclesiastiche. Se già in epoca romana imperiale, come testimonia Plinio, le biblioteche erano arricchite da statue ritraenti insigni autori e, in posizione d’evidenza, la dea Atena, le biblioteche cristiane del secondo millennio furono sovente dotate di una teoria di ritratti di personaggi eminenti nella sala di lettura, e in evidenza il Crocifisso o il santo fondatore. I personaggi effigiati non erano solo prelati e pastori, bensì anche e soprattutto autori ecclesiastici e profani; essi guardavano idealmente i religiosi durante lo studio, ispirando in questi ultimi emulazione, incoraggiamento, rettitudine di intenti.

    L’Umanesimo e il Rinascimento diedero forte impulso agli studi classici e alla cultura in generale. Questo poté trovare riflesso anche nelle biblioteche ecclesiastiche, che si arricchirono di testi di umanisti e ritennero da allora irrinunciabile la lettura di molti autori classici prima meno conosciuti. Celebre è la raccolta di testi greci dell’erudito cardinale Bessarione, donata alla Repubblica di Venezia nel 1468 e custodita nella Biblioteca Marciana. Fu poi la Riforma cattolica a suggerire nuovi passi nel campo delle biblioteche della Chiesa; esse in Italia non subirono danni, cosa che invece accadde in molti paesi europei. Il rigore nella dottrina, nella disciplina e negli studi, fondati su una solida ossatura classica, ispirò la creazione delle biblioteche dei nuovi ordini religiosi: ne sono un esempio la Biblioteca Vallicelliana degli Oratoriani a Roma e le numerose biblioteche dei Gesuiti. Una particolare fioritura di biblioteche fu quella dei seminari, che il Concilio di Trento aveva istituito nel 1563. Per l’educazione dei nuovi sacerdoti furono allestite ricche raccolte librarie, che permettessero una formazione solida, documentata, ampia; sovente ai seminari era legata una tipografia. Esemplari in questo senso le biblioteche del Collegio urbano de propaganda Fide a Roma (1627), e del seminario di Padova per volontà di Gregorio Barbarigo (1671). Anche i pii sodalizi vollero dotarsi di un buon corredo librario, per la lettura dei suoi membri. Furono anche i collegi retti dai religiosi a disporre di ottime biblioteche funzionali alla ratio studiorum. Un testo molto influente sulle scelte bibliografiche per tutto il Seicento fu la Bibliotheca selecta del gesuita Antonio Possevino (1533-1611).

    Al periodo della Riforma cattolica dobbiamo anche una particolare novità, ossia l’istituzione della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti, la cui azione ebbe inevitabile riflesso per le biblioteche nella scelta dei nuovi libri da acquisire e di quelli da espellere o da purgare. Va tuttavia notato che molte biblioteche possedevano i libri “proibiti”, consentendone la lettura soltanto a coloro che ne ottenevano il permesso per ragioni di studio. A questa istituzione si deve l’esistenza di un’importante mole documentaria: si tratta degli elenchi dei libri delle biblioteche dei religiosi, richiesti dalla Congregazione dell’Indice nel 1597-1603. La maggior parte dei monasteri e dei conventi inviò a Roma tali elenchi, la cui ricchezza si è recentemente imposta all’attenzione degli studiosi.

    Una storia a se stante è quella della Biblioteca Apostolica Vaticana, che, da sempre esistente come biblioteca dei papi a Roma e in altre sedi pontificie, ebbe travagliate vicende nel corso del Medioevo. Essa ricevette grande impulso da Niccolò V (1447-1455) e da Sisto IV (1471-1484), che la aprì al pubblico, rendendola un cenacolo di studiosi. Fu poi Sisto V (1585-1590) a creare il grandioso edificio che ancor oggi la ospita, e Paolo V (1605-1621) a separare definitivamente da essa l’Archivio. La Biblioteca Apostolica Vaticana, ricca di un patrimonio unico al mondo, annovera tra i suoi prefetti e bibliotecari alcuni uomini celeberrimi per la loro erudizione, come Cesare Baronio e Angelo Mai.

    Nel corso del Seicento si assistette alla nascita di importanti biblioteche, germinate dalla dote di un prelato e progressivamente arricchite da altri lasciti. Nel 1604 l’agostiniano Angelo Rocca fondò a Roma la prima biblioteca europea aperta al pubblico tout court (la Bodleiana di Oxford, aperta nel 1602, aveva invece destinazione più accademica); essa prese da lui il nome di Biblioteca Angelica. Nel 1609 fu la volta della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che il cardinale Federigo Borromeo volle aperta «a gloria di Dio e per la pubblica utilità», dotandola di un patrimonio straordinariamente ricco e di un collegio di Dottori, ossia di ecclesiastici completamente dediti allo studio, all’aggiornamento, al servizio degli studiosi. Una pagina assai eloquente che descrive il fervore di Federigo a favore dell’apertura della biblioteca per un servizio “universale” è quella che Alessandro Manzoni, nel XXII capitolo de «I promessi sposi», dedica proprio all’Ambrosiana. Vennero poi altre biblioteche di questo genere come l’Alessandrina (1667) e la Casanatense (1701), entrambe a Roma. Va rilevata, già a partire dal periodo dell’Umanesimo, l’importanza delle raccolte librarie di molti altri personaggi ecclesiastici, lasciata in eredità a biblioteche maggiori o ad altri eruditi.

    Il primo periodo illuminista trascorse senza imporre particolari cambiamenti alle biblioteche ecclesiastiche; furono piuttosto gli archivi a risentire del clima culturale del tempo. Comunque, nelle biblioteche si registrò, in quel periodo, un’attività culturale molto vivace, i cui protagonisti erano di norma ecclesiastici, anche nelle biblioteche laiche. Tra costoro ci furono personaggi del calibro di Ludovico Antonio Muratori, Antonio Maria Querini e Domenico Passionei. Le soppressioni cosiddette “teresiane” e “giuseppine”, che ebbero luogo nei territori italiani governati dalla monarchia asburgica a danno dei religiosi contemplativi, prevedevano in genere che i fondi librari incamerati venissero trasformati in biblioteche pubbliche o universitarie, secondo il principio illuminista di “utilità”. Fu il caso, ad esempio, della Biblioteca Teresiana di Mantova. Soppressioni simili avvennero nella Repubblica di Venezia, nel Granducato di Toscana e nel Regno delle Due Sicilie. Storia a sé fu quella della soppressione e ricostituzione dei gesuiti: se vi fu una restituzione dei libri confiscati, essa in ultima analisi risultò in perdita; casi più lineari furono invece quelli delle biblioteche dei gesuiti rese d’autorità nazionali o universitarie, come a Milano, Genova, Messina e Palermo.

    Una tempesta orribile stava però per abbattersi sull’intero patrimonio librario ecclesiastico italiano: la calata di Napoleone Bonaparte e la confisca dei beni ecclesiastici decretata da costui. Egli non solo si avventò con ingordigia sui beni della Chiesa, ma arrivò a concepire il progetto di concentrare a Parigi tutte le opere letterarie, artistiche e storiche più importanti d’Europa. Mise così in atto un ampio processo di sottrazioni, ruberie, spogliazioni, confische che squassarono la Penisola da cima a fondo: furono scompaginati fondi plurisecolari, disperse collezioni preziosissime, sottratte al loro legittimo luogo libri di ogni genere; le istituzioni religiose furono maggiormente colpite rispetto a quelle diocesane. Si darebbe un quadro parziale della bufera napoleonica se si concentrasse l’attenzione soltanto sui libri preziosi, celebri o rari inviati da Napoleone in Francia, inseguendone le vicende. Fu invece enorme anche la quantità di libri meno preziosi che semplicemente sparirono ad opera degli emissari napoleonici. Alla confisca di una casa religiosa faceva immediatamente seguito la requisizione dei suoi beni. Essi, e dunque anche i libri, finivano in mano ai francesi, che, se non li destinavano ad una biblioteca di raccolta, li facevano vendere all’asta o semplicemente li destinavano altrove a loro capriccio. Molti libri accatastati in attesa di raggiungere una biblioteca centrale furono suddivisi e dirottati verso altre istituzioni. Esemplare fu il destino, per citare un esempio tra i molti, dei libri della biblioteca conventuale agostiniana di S. Maria Incoronata di Milano. Questa antica raccolta, iniziata nel 1455 e costantemente arricchita, tanto da divenire una delle più importanti della Provincia, non fu intaccata dalla riforma di Giuseppe II, che nel 1787 commutò il convento in parrocchia: i libri restarono al loro posto. Quando invece arrivò Napoleone nel 1797, soppresse tutto: i libri furono confiscati e destinati al Fondo di Religione dell’Archivio di Stato; tra un trasloco e l’altro svanirono e, sino ad oggi, di essi non si sa più nulla.

    Fu il Congresso di Vienna a permettere un parziale recupero dell’immensa quantità di materiale bibliografico sottratto ai legittimi proprietari dai francesi: sarebbe stato impossibile un lavoro di restituzione completo e preciso. Gli Stati italiani di allora inviarono a Parigi i loro incaricati per recuperare quanto più possibile delle opere d’arte sottratte: dunque anche codici, incunaboli e stampati di valore; per lo Stato Pontificio fu Antonio Canova ad assolvere questo compito. Le biblioteche ecclesiastiche, mutilate o trasferite, rinacquero poco alla volta, come poterono. Gli istituti soppressi e non rinati non poterono mai reclamare quanto loro sottratto, che restò in Francia. Questo il panorama alla vigilia dell’unificazione politica della Penisola.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO