Cattolicesimo intransigente – vol. I

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    Autore: Mario Tosti

    È ormai opinione ampiamente accettata che la posizione intransigente prenda origine dalla reazione cattolica alla trasformazione politico-culturale conseguente alla Rivoluzione francese. Prima della Rivoluzione, infatti, esisteva una società ufficialmente cristiana e il peso della Chiesa nelle strutture della società civile era determinante; la Chiesa vide nelle vicende rivoluzionarie solo aspetti negativi, legati alla scristianizzazione e all’eversione dei principi tradizionali e fondamentali della convivenza, non riuscì a cogliere il senso profondo degli avvenimenti e preferì, invece che analizzare storicamente il fenomeno, rifugiarsi nella teoria del complotto. La conseguenza immediata fu la condanna della Rivoluzione e dei principi da essa proclamati, con l’inizio del contrasto tra Chiesa e mondo moderno che l’età della Restaurazione aveva l’intenzione di superare facendo riassumere al pontefice il ruolo di sovrano temporale e ricostruendo dalle fondamenta la società cristiana. Se il primo passo fu una “Santa Alleanza” dei sovrani e del pontefice in nome dell’Antico Regime, nuovi fermenti culturali, ispirati al romanticismo, favorirono, contro l’Illuminismo, la valorizzazione della parte irrazionale dell’animo, l’aspirazione al ritorno al Medioevo e, in definitiva, una rinascita religiosa, che riscoprì l’utilità sociale della religione, vista come unica possibilità di dare fondamento e contenuto ai concetti di dovere morale e comportamento politico. Tuttavia, le restaurate monarchie dovettero ben presto venire a patti con le borghesie e i princìpi proclamati dalla Rivoluzione; in particolare, la ripresa di politiche giurisdizionaliste e il crescente isolamento diplomatico, finirono con l’attestare saldamente la Santa Sede su una posizione di intransigentismo. Dopo l’età napoleonica appare evidente lo sforzo della cultura cattolica italiana a favorire un clima culturale tendente al ripristino di una mitizzata cristianità medievale, come risposta ai problemi della società contemporanea. Giovanni Marchetti, redattore del Giornale Ecclesiastico, in un’opera stampata nel 1817 (Della Chiesa quanto allo stato civile della città) sosteneva che solo gli ordinamenti civili che si lasciavano modellare dalla gerarchia e riconoscevano il pontefice come capo supremo, erano in grado di costruire una città perfetta. Similmente, nell’ambiente delle “Amicizie cristiane”, gruppi di laici di impronta conservatrice che si formano nei primi anni dell’Ottocento a Torino e a Firenze, si pensava che solo la restaurazione del supremo potere papale potesse favorire il ritorno ad una ordinata e pacifica convivenza. Quello che tuttavia sembra contraddistinguere la letteratura politica reazionaria in Italia, tesi già avanzata dal Salvatorelli e ribadita anche da Ettore Passerin d’Entrèves, è che essa nasce non tanto in contrasto con l’esperienza rivoluzionaria europea, ma con il diffondersi del pensiero liberale. Tale letteratura politica reazionaria contiene perciò anche una critica della stessa Restaurazione e ne forma anzi la parte più caratteristica (L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Einaudi, Torino 1941, 191).

    In tal senso, per esempio, è lecito ricordare il caso di Monaldo Leopardi, presentato dalla moderna letteratura più nelle vesti di conservatore che di reazionario, anche se alla base delle sue idee si deve collocare un fondamento fideistico che era soprattutto negazione del progresso e della modernità. Sullo stesso versante si può situare anche la parabola del religioso teatino p. Gioacchino Ventura, fondatore e direttore della tradizionalista Enciclopedia ecclesiastica e morale, scrittore politico nel segno di de Maistre e del primo Lamennais durante gli anni della Restaurazione, ispiratore delle linee politiche della prima fase del pontificato di Pio IX, poi sostenitore della causa liberal-nazionale e in contatto, nei mesi della Repubblica Romana, con Mazzini e con Garibaldi nel tentativo, non riuscito, di esercitare una funzione conciliatrice tra le parti in conflitto. L’entusiastica adesione al programma dell’ultramontanesimo è conseguenza della funzione che egli attribuisce alla religione come autentico impegno innovatore della società. E fu proprio su questo terreno che si maturò il distacco dalle posizioni degli ambienti ecclesiastico-politici della Restaurazione, che vedevano nell’ alleanza trono-altare, sostenuta dalla politica di Metternich, la vera e unica difesa nei confronti della rivoluzione. Una posizione che, secondo lo scrittore politico siciliano, finiva per favorire un’obbedienza passiva, che isteriliva il sentimento religioso e favoriva l’indifferenza nei confronti della vita pubblica. La Restaurazione, a suo avviso, non aveva fatto altro che impossessarsi del risultato della rivoluzione e quindi accogliere, per quanto riguardava l’organizzazione politica dello Stato, la sostanza della legislazione rivoluzionaria, in particolare un esasperato centralismo politico-sociale. Il motivo dominante del liberalismo e del costituzionalismo di Ventura sta proprio nella critica al centralismo politico-amministrativo, poiché la vera struttura portante dello Stato costituzionale risiedeva nella libera espressione delle forze operanti nella società civile. Il potere fondato unicamente sulla forza, sulla semplice costrizione, non poteva costituire uno stabile fondamento per i governi; “si può far tutto colle baionette, tranne sedervi sopra”, scrisse Ventura nell’opera Il potere politico cristiano (Milano 1858, pp. 506-507) che raccoglieva i discorsi pronunciati nella cappella imperiale delle Tuileries nel 1857. A partire dagli anni Venti, tuttavia, quella che è stata definita “l’ideologia della cristianità” (Menozzi, 47) sembra esercitare una reale capacità di egemonia culturale, in grado di promuovere anche nuove forme di pietà; dopo il 1815 la religiosità collettiva viene, infatti, risistemata nei suoi cardini: nel 1815 Pio VII istituisce la festa dei Sette Dolori, in ringraziamento a Maria per aver protetto la Chiesa durante le vicende della Rivoluzione e dell’Impero; nel 1832, Gregorio XVI rilancia il patrocinio di Maria, che definisce “sicurissimo baluardo”, “potentissima Ausiliatrice”, “debellatrice di tutte le eresie”, fino ad attribuirle la funzione di “assistere e proteggere il sommo pontefice e “proteggere e difendere Roma”.

    La ricostruzione di una società teocratica diviene l’obiettivo che l’insieme dei cattolici dovevano tradurre in realtà ed emerge, nell’età della Restaurazione, un orientamento destinato in seguito ad affermarsi prepotentemente che vede il laicato cattolico in prima linea nel ripristinare l’autorità della Chiesa sulla società civile. Questo è il momento in cui l’insegnamento dei papi in materia politica e sociale fa proprio lo schema emerso negli ambienti tradizionalisti e lo propone a tutti i fedeli. Ormai era chiaro che l’opera politica fatta di scelte concrete nel gioco delle potenze europee non era più perseguibile e che la figura del papa non poteva più essere quella di un cancelliere di uno Stato europeo. Per un effetto solo all’apparenza paradossale proprio la drastica riduzione, tipica della contemporaneità, del ruolo politico della Chiesa, non poté dunque che spingere quest’ultima a politicizzare sempre più la sua azione, a contendere politicamente agli avversari ogni metro di terreno, a divenire anch’essa sempre più modernamente politica, cioè ideologica e sociale (E. Galli Della Loggia, Cristianesimo e modernità, in G.M.Vian (a cura di), Storia del Cristianesimo. Bilanci e questioni aperte, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 68-91). Una tendenza che trovò qualche freno durante il pontificato di Pio VII soprattutto in virtù della politica del Segretario di Stato card. Ercole Consalvi più favorevole ad accordi con gli Stati che garantissero effettivi spazi di potere sociale alla chiesa. Tuttavia la sua linea di moderazione nei confronti dei governi europei non metteva in discussione la visione ecclesiologica che nella difesa del primato e nella funzione primaria di intervento nelle vicende politiche appare sostanzialmente simile a quella degli intransigenti. Quando nondimeno il gruppo degli “zelanti” riesce ad imporre Leone XII questi ridette vigore al “Giornale Ecclesiastico” di Roma, che venne a qualificarsi come l’organo della battaglia antigallicana e massimo veicolo della propaganda integralista tra i cattolici italiani ed europei. Diretto dal Ventura, che era allora anche docente di istituzioni di diritto ecclesiastico alla Sapienza, e irrobustito dalla penna polemica di Giovanni Marchetti, il giornale divenne strenuo difensore dell’accordo tra potere civile e autorità ecclesiastica, tipico dell’Antico Regime, individuando come unico rimedio ai disordini della società il riconoscimento dell’autorità politica del papato. Esso denunciava con forza i mali scaturiti dalla rivoluzione invitando i principi cristiani a tradurre in norme coercitive le condanne papali: un progetto analiticamente esposto prima nell’enciclica Ubi primum (1824) e poi nella Quo graviora (1825). Alla morte del papa, dopo il brevissimo pontificato del più moderato Pio VIII (1829-1830), gli “zelanti” ottennero un nuovo successo con l’elezione di Gregorio XVI, fautore di una decisa intransigenza dottrinale e politica.

    D’altra parte la ripresa dei moti insurrezionali nel 1830, che non risparmiarono gli stessi possedimenti della Chiesa, i rivolgimenti nella tecnologia e nell’industria favorirono l’irrigidimento conservatore del nuovo pontefice. In questa prospettiva anche innovazioni innocenti ed utili erano guardate con diffidenza; è noto che Gregorio XVI non volle introdurre nel suo Stato le ferrovie e nemmeno l’illuminazione a gas, preoccupato forse, ha scritto p. Giacomo Martina, che esse potessero facilitare l’infiltrazione di idee liberali (Martina, p. 162). In effetti la preoccupazione che la diffusione delle idee liberali potesse mettere in discussione il potere temporale divenne preminente ed in tale ottica condannò risolutamente il sacerdote francese Félicité Robert de Lamennais (1782-1854) che, partito da posizioni intransigenti, si era convinto che la Restaurazione non avesse garantito la rinascita della società cristiana auspicando perciò una nuova alleanza tra Chiesa e popolo per una riconquista cattolica della società. Lamennais era convinto che il cattolicesimo dovesse accettare la sfida costituita dai principi liberali rinunciando a qualsiasi privilegio in cambio dell’effettiva libertà; una posizione che provocò la reazione negativa della gerarchia e del papato, che proprio in quell’epoca stava perseguendo una politica di incremento dei concordati con i governi restaurati in direzione opposta a quella indicata dal sacerdote francese. L’enciclica Mirari vos (1832) giunse a dichiarare che le libertà moderne non erano accettabili neppure come strumento, perché non si potevano mettere sullo stesso piano la verità cattolica e l’errore, riconoscendo per esempio la libertà di coscienza. Forti anche del magistero pontificio, alcuni intransigenti si spinsero a combattere risolutamente i fondamenti del nuovo ordine sociale giungendo a contrastare anche la diffusione dell’istruzione. Ne fecero le spese gli asili infantili, avviati nel 1828 dall’abate Ferrante Aporti, che rappresentavano invece un utile sostegno alle classi umili e che furono proibiti nello Stato Pontificio fino al 1847.

    Alla luce di tutto questo il giudizio storico sull’intransigenza è stato assai negativo; sovente è mancata la necessaria distinzione tra gli intransigenti dell’età della Restaurazione, che mantengono ancora troppo viva la memoria della rivoluzione, e gli intransigenti della seconda metà del secolo, il cui pensiero e atteggiamento risultano oltremodo condizionati dal compimento del processo unitario, dalla resistenza alle leggi di laicizzazione, dalla difesa dei diritti della S. Sede e della gerarchia. Nel migliore dei casi si riconosce all’intransigentismo la solidità delle critiche rivolte a certe antinomie del liberalismo, oppure, in campo ecclesiologico, di aver favorito una centralizzazione in grado di rispondere meglio all’offensiva liberale ottocentesca; ma resta prevalente il giudizio di sterilità e di mancanza di senso storico e intuito politico (Martina, p. 188). In realtà il movimento, inteso non come sterile esaltazione della tradizione cattolica ma come confronto con le idee rivoluzionarie, mostra sviluppi importanti che in alcuni casi conducono fino alla possibilità di liberare la Chiesa dall’autorità dello Stato. Paradossalmente, più dei giansenisti, più dei cattolici democratici, alla fine furono gli intransigenti con il doppio irrigidimento – teologico e temporale – a favorire quella separazione tra sfera religiosa e sfera civile, strenuamente perseguita negli anni rivoluzionari. Insomma il cattolicesimo intransigente della prima metà dell’Ottocento, evidenziando l’intimo nesso fra religione e società, finì con il sottolineare con forza l’autonomia e l’indipendenza della stessa religione nei confronti del potere politico e del suo ordinamento e con ciò stesso alimentò una tradizione di pensiero politico capace di sollecitare un consapevole impegno di presenza culturale e politica nella società.

    Fonti e Bibl. essenziale

    G. Verucci, Per una storia del cattolicesimo intransigente in Italia dal 1815 al 1848, in “Rassegna Storica Toscana”, IV (1958), fasc. 3-4, 252-285; R. Colapietra, La Chiesa tra Lamennais e Metternich. Il pontificato di Leone XII, Morcelliana, Brescia 1963; S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia (1820-1830), Morcelliana, Brescia 1968; E. Passerin d’Entrèves, I conservatori e i controrivoluzionari dalla Restaurazione all’Unità, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, vol. I, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1971; con l’aggiornamento di N. Raponi, I conservatori e i controrivoluzionari, in Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2001, vol. I, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2001, 263-280; G. Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VI a Leone XII, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1974; G. Verucci, Chiesa e società nell’Italia della Restaurazione (1814-1830), Istituto Italiano per la Storia del Risorgimento, Roma 1974; G. Verucci, Félicité Lamennais: dal cattolicesimo autoritario al radicalismo democratico, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1975; M. Tesini, Gioacchino Ventura. La Chiesa nell’età delle rivoluzioni, Edizioni Studium, Roma 1988; E. Guccione (ed.), Gioacchino Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento. Atti del seminario internazionale, Erice, 6-9 ottobre 1988, 2 Voll., Leo S. Olschki Editore, Firenze 1991, in particolare il saggio di M. D’Addio, Gioacchino Ventura: dalla Restaurazione alla Rivoluzione, 1-37; N. Del Corno, Gli “scritti sani”. Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Franco Angeli, Milano 1992; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Giulio Einaudi Editore, Torino 1993; G. Martina, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, vol. 3, L’età del liberalismo, Morcelliana, Brescia 1998, in particolare 159-188; Ph. Boutry, Souverain et pontife: recherches prosopographiques sur la curie romaine à l’âge de la restauration: 1814-1846, École française de Rome, Rome 2002.


    LEMMARIO