Parrocchie – vol. II

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    Autore: Antonio Mastantuono

    La parrocchia agli inizi dello Stato unitario. La ricerca storica sulla parrocchia in Italia – relativamente a quest’ultimo secolo e mezzo – non conta molti studi, a differenza di quanto è stato prodotto per altre epoche. Una disat­tenzione che appare evidente se si prendono in considerazione la manualistica teologica o i dizionari teologici che si interessano di eccle­siologia e di pastorale, dove il riferimento storico alla par­rocchia – quando c’è – di norma si arresta alla riforma tri­dentina e alle sue conseguenze, sintetizzando i secoli successivi e soprattutto gli ultimi due con poche generiche parole.

    Una storia che non può essere , in realtà, compresa attraverso generalizzazioni, sia per la grande quantità delle parrocchie italiane, sia per le profonde differenze esistenti in esse nei vari stati preunitari, sia per la forte dipendenza delle parrocchie non solo dalla linea pastorale del vescovo, ma soprattutto dalla figura fondamentale del parroco, figura in grado di determinare non solo la linea pastorale (catechesi, liturgia, sacramenti) ma anche gli impegni sociali, assistenziali, formativi della parrocchia all’interno della comunità civile locale.

    «Ad appena dieci anni di distanza dall’unificazione nazionale – scriveva G.Penco – l’unità reale della Nazione doveva infatti compiere ancora molta strada e lo stesso va detto circa l’unità della vita cattolica ed ecclesiastica. Le situazioni locali rimanevano ancora troppo diverse e il peso delle singole tradizioni troppo forte perché una unificazione potesse avere luogo entro breve tempo» (G. Penco, Storia della Chiesa,II, Milano 1978, 335)

    Incrociando i dati pubblicati nei primi anni dello Stato unitario, emergono non poche disparità tra Nord e Sud quanto a numero di parrocchie presenti nelle 320 diocesi, rispetto all’estensione territoriale e alla popola­zione. Complessivamente, la rete parrocchiale nel Settentrione era più fitta e inserita in un numero di diocesi nettamente inferiore rispetto al Meridione. Le diocesi del Nord contavano tutte poco meno di mezzo milione di abitanti, a fronte dei circa 700.000, ad esempio, di quella di Napoli. Quanto alle parrocchie, se Brescia ne contava 382, Bologna 396, Firenze 479, Padova 325, Palermo ne sommava 47 e Napoli 85.

    La disomogeneità non era solo nell’ordine dei numeri e delle percentuali, ma riguardava anche le ricchezze sovrab­bondanti di alcune e la miseria totale di molte altre. Vi erano identità secolari che prevedevano per le parrocchie ruoli, compiti e relazioni con il potere politico e con la stessa realtà diocesana molto distanti tra loro. E anche se molte parrocchie avevano conosciuto nella prima parte del secolo XIX – nel periodo napoleonico e successivamente nella Restaurazione – profonde modificazioni, le differenze restavano partico­larmente rilevanti. Non potendo dar qui conto di tutta la realtà italiana, si prendono in considerazione due aspetti signi­ficativi delle differenze, uno per il Settentrione e uno per il Meridione.

    Al Nord, un caso rilevante per la storia della parrocchia, è costituito dal Veneto. Nonostante, infatti, l’impegno dei vescovi a promuovere per essa il modello tridentino, questo trovò per lungo tempo le resistenze del giuspadronato che continuò ad esercitare un diretto controllo sulla Chiesa: dalla nomina dei vescovi alla gestione amministrativa delle parrocchie. La svolta del periodo napoleonico ebbe il merito di far superare, seppur parzialmente, questa dipendenza, ma con la Restaurazione la parrocchia conobbe nuove trasformazioni a seguito del tentativo governativo di adeguarla alle previsioni del diritto ecclesiastico austriaco. I vescovi cercarono con ogni mezzo di contrastare sia l’idea di una religione funzionale al dominio politico imperiale che la pretesa di poter esercitare tale dominio sulla formazione del clero e sulla teologia. L’opposizione si estese anche alla statalizzazione della parrocchia intesa come ente di sostegno dell’ortodossia imperiale, fino ad ottenere, con il concordato del 1855, la cessazione del controllo diretto austriaco e, col concilio provinciale veneto del 1859, un completo adeguamento alla parrocchia tridentina, facendola diventare un elemento fon­damentale di centralizzazione diocesana. La parrocchia veneta – che aveva comunque ereditato le qualità di efficienza amministrativa dei decenni precedenti – da lì in poi acquisterà sempre di più una relazione stretta con il vescovo e una dimensione pastorale tale da farne punto di riferimento – spesso unico – delle emergenze sociali vissute dalle sin­gole comunità. L’eredità austriaca nella dimensione organizzativa della parrocchia e nella serietà della formazione dei futuri parroci lascerà un segno e una caratterizzazione originale che continuerà per lungo tempo all’interno del nuovo Stato unitario, nel quale la parroc­chia veneta aumenterà ancor di più la propria incidenza religiosa e sociale, grazie sia ai parroci che a un laicato combattivo e intransigente.

    Nel Meridione la struttura ecclesiale non era costituita dalle sole parrocchie, ma poggiava prevalentemente sulla capillare presenza di conventi, monasteri e chiese ricettizie. Queste ultime, presenti in gran numero nel regno bor­bonico, erano istituti di fondazione laicale (Università o famiglie possidenti), caratterizzati da autono­mia corporativa e dal possesso di beni di provenienza non eccle­siastica. Questo patrimonio era amministrato dal clero ‘partecipante’ che ne godeva anche i benefici. Non tutte le ricettizie erano parrocchie – e non tutte le parrocchie erano ricettizie – ed esse erano distribuite – all’inizio del secolo XIX – secondo una linea appenninico-adriatica meridio­nale in modo non uniforme, rappresentando circa un terzo di tutte le Chiese del regno, con uguale percentuale di clero, ma con ben superiore quota di reddito. Tuttavia il loro grande numero costituì un notevole freno alla diffusione delle parrocchie non ricettizie specialmente in molte diocesi delle province napoletane a causa dell’opposizione del clero ricettizio. Questo spiega, per esempio, il ridotto numero di parrocchie nelle diocesi pugliesi e in altre aree dove le chiese ricettizie rappresentavano addirittura la mag­gioranza.

    La struttura reticolare – densa di una varietà di istituzioni religiose – della Chiesa meri­dionale conobbe un primo tentativo di modifica con la poli­tica napoleonica di inizio secolo XIX e con la conseguente soppressione degli ordini religiosi. Successivamente, il Con­cordato di Terracina del 16 febbraio 1818, sottoscritto da Fernando I di Borbone e da Pio VII, inaugura di fatto il processo di Restaurazione che pone vescovi e clero – in cambio di protezione e di significativi benefici di ordine amministrativo ed economico – al totale servizio del potere borbonico di cui divengono stretti collaboratori, dall’organizzazione del consenso popolare fino al controllo dell’ordine pubblico e degli interventi sanitari. Si avviava, inoltre, un significativo riassetto territoriale attraverso una riduzione di diocesi e una rinnovata coincidenza di obiettivi tra il trono e l’altare.

    Ciò spiega le resistenze all’unificazione italiana della maggior parte dei vescovi meridio­nali definiti comunemente ‘borbonici’ e ‘reazionari’.

    Il nuovo Stato unitario – nonostante la dichia­rata ispirazione al pensiero liberale, la successiva approva­zione delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico e una poli­tica complessivamente anticlericale e non confessionale – mostrò in tutta Italia un vivo interesse per controllare e ottenere riconoscimenti pubblici da parte di quella realtà fondamentale – capillare e periferica – della Chiesa catto­lica che erano le parrocchie, alle quali fu riconosciuto un regime di privilegi fiscali. Di questo interesse per la par­rocchia è prova la quantità di testi, soprattutto di carattere giuridico, che cercano di definire la parrocchia stessa ten­tando di dare unità alle disparate legislazioni degli stati preunitari in materia, alla dottrina e alle sentenze delle varie corti. Un processo di unificazione assai lento e ancora oggetto di dibattito alla fine del secolo XX, con un ventaglio di pro­blemi ancora aperti riguardo alla stessa parola parrocchia la quale era «adoperata negli scritti del diritto ecclesiastico e del diritto comune, nonché nelle fonti del diritto parti­colare dei diversi stati, nella loro giurisprudenza e nella loro letteratura, con una grande promiscuità di significati» (F. Ruffini, La rappresentanza giuridica delle parrocchie, Torino 1896, 3).

    Tra Ottocento e Novecento. L’irrompere a fine Ottocento della società di massa e di una nuova cultura politica; la nascita delle organizzazioni sindacali; l’affermarsi di una borghesia indifferente o più spesso ostile al dato religioso non è ininfluente sulla struttura ecclesiale. La risposta culturale e sociale della Chiesa è la Rerum novarum, è un’orizzontalizzazione della parrocchia che cerca di allargare la sua presenza e la sua incisività in una società che, a differenza dell’anti­co regime, non è più tutta cristiana. Da qui l’incremento dell’azione sociale dell’Opera dei congressi, la trasformazione della parrocchia in ‘parrocchia sociale’ e l’interesse dif­fuso per i problemi economici vissuti da contadini e arti­giani e la conseguente creazione di una rete di attività eco­nomiche promosse direttamente dalle parrocchie attraverso le casse rurali. Anche grazie a queste attività eco­nomiche e sociali – autorevolmente ispirate dalla Rerum novarum – la parrocchia continuò ad essere il centro delle comunità, specie di quelle rurali e peri­feriche, la cui vita, comunque ispirata al modello tridentino continuava ad essere scandita e ordi­nata dal suono delle campane.

    Funzioni della parrocchia come oratori, biblioteche, asili, cooperative, società di mutuo soccorso, casse rurali, ispirate ad una vocazione sociale, si proponevano, tuttavia, più la protezione e la difesa della Chiesa, assediata dal persistente liberalismo e dal nascente socialismo, entrambi con una caratterizzazione spiccatamente laicista e spesso anticlericale, che non la riconquista apostolica. È evidente che in questa linea difensiva, al laicato parrocchiale si cominciava a riconoscere, per necessità, un ruolo seppure soltanto esecutivo e sotto il diretto controllo del parroco, la cui figura, grazie a questo proliferare di attività, acquistava ancora più forte centralità nella vita della parrocchia. Questo aumento di responsabilità e competenze rese più evidenti i limiti culturali di un clero impreparato a tener testa alle novità (politiche e sociali) che era chiamato a fronteggiare e rispetto alle quali la for­mazione ricevuta appariva totalmente inadeguata.

    Ma anche sul versante ecclesiastico la parrocchia neces­sitava di ridefinizione, come dimostra l’intervento ad essa dedicato dal Codice di diritto canonico del 1917. Il codice in realtà ribadì alcuni principi del concilio di Trento che avevano avuto solo parziale attuazione rivedendoli alla luce delle emergenze e delle necessità di quel tempo pre­sente, stabilendo quindi i doveri del parroco, i rapporti tra parroco e vescovo e il superamento delle parrocchie per­sonali.

    Il burrascoso periodo della prima guerra mondiale e quello ad esso successivo non sembrano intaccare il ruolo della parrocchia che resta co­me forza aggregatrice della realtà locale: le masse restano strette intorno ad essa. Certamente nel Novecento siamo di fronte a parro­ci più preparati, provenienti – ormai dagli anni ’30 – dai seminari regio­nali, più sensibili agli eventi culturali esterni, più inclini a coinvolgere la parrocchia in attività allargate perché la società è culturalmente cresciuta ed è diventata più complessa. Sorge o si rafforza, dove già esiste, una parrocchia polivalente, impegnata in diversi settori. Pur ri­manendo ancora come sostrato il modello tridentino, si allarga il campo della catechesi, si coinvolgono in nuove missioni gli ordini religiosi, si interagisce con le organizzazioni, soprattutto con l’Azione Cattolica.

    Questo cambiamento è testimoniato dall’intensa pubblicistica dedicata alla parrocchia. Si tratta di volumi di larga diffusione dove vengono presentati compiti e funzioni dell’istituzione parrocchiale. E’ il caso di quello celebrativo ed essenziale di Tito Casini che si limitava a ripercorre lo schema delle funzioni tridentine della parrocchia (cfr. T. Casini, La parrocchia, Firenze 1937), e di quello di particolare rilievo di Giuseppe Cavagna, La parrocchia e la vita cristiana (Torino 1935), vademecum completo della struttura e della vita parrocchiale: dalle funzioni liturgiche a quelle sacramentali, dagli aspetti organizzativi a quelli di arredo e murari, dall’archivio fino all’associazionismo e alle opere parrocchiali. Con un interessante capitolo dedicato ai nemici della parrocchia dove sono descritti, secondo l’autore, i pericoli e le difficoltà emergenti in quegli anni: individualismo e indifferentismo nei confronti dello spirito parrocchiale, rispetto umano e ignoranza della liturgia come condizioni devianti rispetto all’ordine parrocchiale, alla sua organizzazione gerarchica, ad un sistema perfettamente funzionante e rigido che non ammetteva né eccezioni né critiche.

    La cultura del periodo fascista non influenza granché la parroc­chia, se non forse nelle forme esteriori di os­sequio, che appartengono alla vetrina politica del ventennio. E tutta­via nell’opera di bonifica integrale, che porta alla nascita di vere e proprie città e piccoli paesi, la parrocchia sarà sempre compresa nei piani urbanistici e ne diventerà da subito il centro di riferimento per tutte le nuove famiglie. Il populismo imperante, che ha il suo culmi­ne nelle guerre di Spagna e d’Etiopia del ‘35-’36, rende probabil­mente le omelie dei parroci piene di retorica e metafore imperial-nazional-religiose, in una fase di massimo consenso al fascismo anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche.

    Ma qualche spirito più acuto, già intravede negli anni ’30, un divario tra la parrocchia e la società, interessata, seppure non in tutti i suoi settori, da un pro­cesso di modernizzazione che sarà interrotto – ma solo interrotto – dall’entrata in guerra e ripreso alla fine degli anni ’40.

    È del ‘37 la Lettera sulla parrocchia di don Primo Mazzolari (Id., Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Brescia 1937, Bologna 20084), uscita però anoni­ma per il clima di diffidenza che circondava l’autore, e nella quale erano indicati alcuni limiti della parrocchia e accennati alcuni rime­di. Dal modesto osservatorio di una parrocchia rurale del mantovano, Mazzolari maturava – dopo anni di sofferto servizio parrocchiale che coincidevano quasi con l’avvento e l’affermazione del fascismo con il quale non erano mancati scontri duri anche a costo di aperti dissensi con la linea collaborazionista della Chiesa italiana – una profonda e originale riflessione dedicata alla parrocchia di cui egli denunciava limiti e carenze a partire dal bisogno di «ritrovare il coraggio di porsi in con­creto i veri problemi dell’apostolato parrocchiale» (Ib., 66). Un apostolato per il quale ancor prima degli aspetti organiz­zativi – spesso ritenuti in quell’epoca prioritari – occorre che la parrocchia stessa sia viva, cioè posta «su un piano vitale col mondo presente, organizzata in funzione del compito che deve svolgere su questo piano vitale» (Ib.,43). Mazzolari denuncia quindi un’inadeguatezza della parrocchia a collocarsi nella dimensione del presente, nell’accettare le nuove condizioni del suo ruolo in seguito alle trasformazioni sociali. Certo vi era stato un tempo in cui la parrocchia aveva svolto meritoriamente una quantità di funzioni sociali che però progressivamente e opportuna­mente erano state assorbite dall’istituzione pubblica. Questa attività di supplenza aveva creato erronee convin­zioni di dover assumere ruoli sociali in realtà impropri e difficoltà a riconoscerli di competenza dello Stato. Ne erano sorti dissidi, conflitti e nostalgie che Mazzolari, nel suo scritto, ricomponeva, individuando le vere emergenze che non erano la semplice difesa o riaffermazione dei principi dottrinali, quanto un lento e fecondo lavoro d’ispirazione della società che la parrocchia era chiamata a compiere gra­zie al ruolo e ai nuovi compiti che andavano riconosciuti a un laicato autonomo e adulto. Si trattava quindi di spe­rimentare nuovi metodi di apostolato che superassero sia le tentazioni di restaurazione di una parrocchia ormai inattuale sia i metodi del lasciar fare, dell’attivismo separatista e del soprannaturalismo disu­manizzato. A queste tentazioni occorreva, secondo Maz­zolari, contrapporre un’opera che abbattesse le barriere di cui si era circondata la parrocchia, che rompesse il regime di separazione con coloro che erano – ed erano lasciati ‘lon­tani’ – e restituisse ai laici le proprie responsabilità. Una voce che resta isolata.

    Tra la fine della guerra e i primi anni ‘50 la parrocchia sembra vivere, infatti, in una logica di concorrenza con altre realtà del territorio – so­prattutto le sedi dei partiti – nell’organizzare situazioni – sale cinematografiche, televisione negli oratori, teatri, campi sportivi – che pos­sano attirare i fedeli. In Esperienze pastorali (Firenze 1958) don Lorenzo Milani, mettendo insieme ricerca storica e “sociologia religiosa”, non solo prende atto del fallimento della cultura religiosa , ma collega questa al fallimento della vita civile ed intuì che la mancanza di cultura era un ostacolo all’evangelizzazione e all’elevazione sociale e civile del suo popolo.

    Ma nel secondo dopoguerra il mutamento culturale più significativo in Italia è legato al cosiddetto «boom economico»; è un mutamento complesso che registra una cre­scita tumultuosa ma anche vitale della società italiana: diffuso be­nessere, automobile, televisione, elettrodomestici ecc. La parrocchia si adatta con difficoltà, proprio perché, comunque sia, il suo modello cultuale e liturgico è Trento.

    La parrocchia sente ostile una gran parte della cultura italiana, soprattutto quella che attinge a modelli laico-radicali e di sinistra. Tutta la società diventa più distratta; si velocizza la mobilità sociale, si velocizzano gli spostamenti da un’area a un’altra, così che alcune parrocchie tendo­no a spopolarsi, altre a crescere a dismisura.

    Se molte parrocchie del nord negli anni ‘50 e successivi devono porsi il problema di una pa­storale per gli emigrati del sud, molti paesi in quel sud si spopolano, così come le relative parrocchie. Se il modello tridentino può ancora te­nere in una società rurale, le realtà urbane del nord co­me del sud, a loro volta, possono anche tenere, a scapito però di un coinvolgimento più responsabile dei propri parrocchiani, in un so­stanziale clima d’involuzione. I cambiamenti premono e le parrocchie ur­bane delle realtà industriali devono fare i conti con una dispersione dei vari obblighi del cristiano, soprattutto la messa domenicale e la catechesi; tengono i riti di passaggio, ma anche per un diffuso e radi­cato conformismo. Un fiorire di indagini di carattere sociologico intorno alla par­rocchia indica un nuovo interesse verso un’istituzione che molti considerano essere già in crisi. Se ne studia l’evoluzione sociologico-religiosa in determinate aree, il comportamento religioso dei parrocchiani, le strutture collaterali e la lo­ro valenza sociale (cf. G.B. Guzzetti,«La parrocchia nelle recenti discussioni», in La Scuola Cattolica 81 (1953), 415-438).

    «Con la fine degli anni ‘50 – ha osservato Mario Rosa – si pongono le premesse di un superamento della struttura – quale si era venuta sviluppando soprattutto durante i pontificati di Pio X, Pio XI e Pio XII – della parrocchia come nucleo religioso-sociale, con cospicui risvolti attivistico-organizzativi e politici» (M. Rosa, «Le parrocchie italiane nell’età moderna e contemporanea», 172-173)

    Il post Concilio. Le innovazioni conciliari si intersecano, nei primi an­ni dalla chiusura dell’assise ecumenica, con la cultura e il movimen­to del ’68, che, delineando un’alternativa culturale negli stili di vita e nei costumi, rifiuta ogni aspetto istituzionale della società, dunque anche le strutture della Chiesa, parrocchia compresa. Se ne contestava l’identità, sia ecclesiale che sociale, perché povera di risorse e di strumenti e lontana dai problemi posti dalla complessa situazione sociale e culturale. Come insoddisfacente ne appariva la struttura, fortemente centrata sulla figura del parroco, incapace di dare valore e ruolo attivo a tutti quei cristiani che ne abitavano il territorio. Lo schema feudale parroco-fedeli, così ben radicato nella mentalità parrocchiale, risultava essere un vincolo troppo rigido e opprimente, destinato a soffocare qualsiasi tentativo di dare un’anima alla comunità cristiana cui era rivolto. La sua identità appariva inoltre inefficace nel modo con cui impostava il suo rapporto con la società in cui era collocata: un rapporto troppo ossequioso e debole, incapace di momenti di critica.

    Le prospettive teologiche e pastorali del concilio convinsero un certo numero di parroci a porre l’accento sulla qualità della proposta di fede, sulla dimensione comunitaria, su una liturgia incarnata nella vita e sulla dimensione politica della fede. Nacquero così parrocchie a carattere assembleare in cui l’intuizione comunitaria si realizzava attraverso liturgie dialogate.

    Nello stesso spirito, si realizzò l’ingresso del mondo giovanile nelle sale parrocchiali. Molte di queste esperienze maturarono verso l’istituzione ecclesiale un atteggiamento molto critico, che, al termine dei loro percorsi, ne determinò l’allontanamento dalla chiesa e l’ingresso in gruppi di impegno politico o sociale. Alcune realtà presero la via delle cosiddette “Comunità di base” (cf. R.J. Kleiner, Gruppi di base nella chiesa italiana. Obiettivi e metodi di lavoro, Assisi 1978). L’esplorazione di nuove forme di vita ecclesiale, capaci di dare soluzione alle difficoltà pastorali, prese, invece, la direzione della “complessizzazione” della organizzazione parrocchiale: la parrocchia si struttura secondo le attività e l’organigramma parrocchiale.

    Si afferma così urgente – nel dibattito di quegli anni e fino al presente – una ridefinizione dello statuto della parrocchia e del suo ruolo in rela­zione alla diocesi, secondo un profilo di similitudine (rap­presenta la Chiesa e la rende visibile) e di subordinazione (cellula e parte della Chiesa particolare), mentre si sostiene ripetutamente il nuovo ruolo della parrocchia come sog­getto evangelizzatore, attivo nell’azione pastorale. Saranno questi elementi che caratterizzeranno sia i lavori di alcune Settimane nazionali di aggiornamento pastorale, sia i ripetuti interventi della Conferenza Episcopale Italiana sulla parrocchia. Interventi destinati a ridefinire ruoli e impegni attraverso conti­nue messe a punto a riprova delle difficoltà del compito, percepite dagli stessi vescovi, fino al documento Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia (2004). In esso si registrano i cambiamenti sociali e culturali e la fatica per la parrocchia di seguire le trasfor­mazioni. Emerge dal contesto l’aspettativa di una parrocchia che si impegni sempre più nel campo della carità e della solidarietà e nella costruzione di relazioni vitali. In una società sempre più anonima e spersonalizzante, gli ambienti religiosi sono invitati non soltanto ad impegnarsi per ridurre le condizioni di disagio, ma anche a rappresentare un “luogo” di integrazione e di socializzazione

    L’identità religiosa della parrocchia non viene negata, ma diviene oggetto di una diversa considerazione rispetto al passato. L’uomo di oggi sembra preferire un cammino religioso più libero e più riflessivo, rispetto ad un’osservanza giudicata costringente o a “sacramenti” e rapporti con gli uomini del sacro il cui significato non rappresenta più un’evidenza collettiva.

    La parrocchia non viene sconfessata nelle sue funzioni religiose, ma il suo capitale simbolico e sacramentale si sta erodendo.

    Il moltiplicarsi delle attività pastorali a raggio interparrocchiale, l’affacciarsi di nuove ministerialità, l’attenzione più diversificata ai momenti della società civile, l’intreccio dell’azione pastorale della comunità con altre forme di aggregazione ecclesiale (movimenti, associazioni, volontariato), le forme della comunicazione che esigono di superare il regime campanilistico, richiedono di rendere più elastica la modalità degli interventi pastorali, senza perdere il vincolo con il territorio che costituisce la dimensione fondamentale della parrocchia tradizionale. Di qui il tentativo di pensare a nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. Esperimenti che vanno comunemente sotto il nome di unità pastorali: una riorganizzazione delle comunità sparse sul territorio che senza annullare la soggettività e l’identità della singola comunità parrocchiale, «… l’ha valorizzata e rivitalizzata aprendola alla collaborazione e alla pastorale d’insieme, intaccando il muro di campanilismo e l’orientamento individualistico» (A. Toniolo (ed.), Unità pastorali, Padova 2003, 7-8)

    La parrocchia nel nuovo Codice di Diritto Canonico. Nel nuovo codice del 1983, radicalmente diverso dal Codice del 1917 soprattutto per l’impianto decisamente improntato ai documenti conciliari, la parrocchia viene definita come «comunità di fedeli, stabile e definita, sotto la guida di un pastore proprio in comunione con il vescovo» (can. 515). La parrocchia conosce figure che si diversificano. Il can.517 par. 2 parla di parrocchie affidate ai laici, sia pure con il riferimento al presbitero. Si prospetta la possibilità di collaborazioni molto ampie fra sacerdoti e fra parrocchie fino a prevedere la conduzione da parte di un gruppo di preti di una vasta parrocchia o di più parrocchie (parrocchie in solidum, can. 517 par.1). La parrocchia mantiene certamente tutta la sua caratteristica tradizionale di ancoraggio al territorio e di legame alla vita dei fedeli, dal nascere al morire: basterebbe la necessità ribadita dell’anagrafe parrocchiale a dire il solido segno di appartenenza e di visibilità, di storia e di tradizione.

    Attenzione meritano anche gli accordi di Villa Madama del 1984 che aggiornano il concordato lateranense del 1929. In essi la “parrocchia” viene ad essere riconosciuta come titolare di personalità giuridica. Non si parla più di “beneficio parrocchiale” o di “chiesa parrocchiale”. Ciò facilita l’accorpamento di diocesi e di parrocchie, perché esse siano realmente corrispondenti a entità umane capaci di “fare comunità”, senza coperture giuridiche di realtà ormai inesistenti, valide solo davanti all’autorità statale. Finisce l’istituto del beneficio parrocchiale e si stabilisce una sorta di uguaglianza nella retribuzione per ogni servizio ministeriale dei preti.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO