Autore: Giovanni Pizzorusso
Le missioni interne (dette anche popolari) originano dalle istanze di riforma sviluppatesi nel XVI secolo. In quanto rivolte si svolgono all’interno del mondo cattolico si distinguono da quelle dette ad gentes, cioè dirette ai popoli non cattolici da convertire, e vengono anche definite come forma straordinaria di predicazione. La specificità delle missioni popolari è l’intervento sui fedeli all’interno delle diocesi per correggere la scarsa conoscenza, l’indifferenza o la vera e propria ignoranza dei principi e delle pratiche della religione cattolica, carenze emerse in diversa modalità e misura in ambito urbano e soprattutto rurale nel quale la religiosità popolare sconfinava nella superstizione. Tale esigenza di sollecitazione del fervore e della pietas dei fedeli sorse all’interno di alcuni ordini regolari che divennero i protagonisti di tali missioni. Così esse si diffusero in tutta l’Europa cattolica nel corso del XVI secolo, quando anche la tensione confessionale con il mondo protestante stimolò l’urgenza di un rafforzamento della fede della popolazione cattolica soprattutto attraverso la catechesi, la penitenza, l’orazione e gli esercizi spirituali, talvolta attuati con forme espressive particolarmente drammatizzate o teatrali, secondo una metodologia che muta nel tempo e che viene sistematizzata in vari trattati scritti dagli stessi missionari.
La penisola italiana, nella sua grande maggioranza cattolica, conobbe un ampio sviluppo di queste missioni. La scarsa pratica della religione era determinata anche dal numero insufficiente e dalla scarsa preparazione di parroci, tema al centro del Concilio tridentino. La diffusione dei missionari era quindi destinata a sopperire alle inefficienze del clero diocesano, a costituire un intervento di emergenza, autorizzato dai vescovi, che doveva agire dove richiesto e altresì cessare al momento del ripristino o del raggiungimento di una situazione normale di cura spirituale.
Il rapporto istituzionale era quindi soprattutto con l’autorità locale diocesana. Per le missioni interne non fu fondato un dicastero pontificio come accadde per quelle ad gentes, la Congregazione de Propaganda Fide nel 1622. Anche per quest’ultima l’azione missionaria era costituita dal duplice sforzo di propagazione e difesa della fede, ma lo spazio dell’azione giurisdizionale di Propaganda si definì quasi subito come quello esterno al mondo cattolico, dove i precetti tridentini andavano introdotti ex-novo e dovevano essere accudite e difese semmai le comunità di neo-convertiti. Dopo un’iniziale inchiesta a tappeto nel 1622 sulla necessità di invio di missionari presso tutti i vescovi italiani, cui questi risposero in modo piuttosto evasivo, Propaganda limitò la sua giurisdizione in Italia alle frontiere con l’eresia, come nelle valli alpine, oppure alle minoranze di italo-greci unite a Roma in cambio della protezione del loro rito orientale. Inoltre il dicastero si interessò alle città portuali (Venezia, Napoli, Livorno) con il loro mondo cosmopolita fatto di schiavi musulmani, ma spesso anche di eretici di passaggio, in particolare mercanti.
A parte questi casi di missione “interna”, ma rivolta ad eretici o a cattolici di rito orientale, l’apostolato in Italia è costituito dalle missioni popolari nell’ambito istituzionale della diocesi. I missionari sono soprattutto membri degli ordini regolari, in primo luogo i gesuiti fin dalla fondazione della Compagnia alla metà del XVI secolo. Per essi le missioni popolari costituirono un completamento dell’azione apostolica presso gli “infedeli” e gli “eretici” costituendo le Indie “interne” nelle quali essi agirono già alla metà del secolo con Silvestro Landini, missionario in Garfagnana e in Corsica. In quel periodo di persistente timore di infezione eretica, la missione costituiva l’aspetto apostolico e devozionale di una lotta che si combatteva anche con la repressione dottrinale ad opera di vescovi e di inquisitori. La confessione era il momento nel quale il missionario svolgeva un’attività di inquisitore, registrando nomi e spingendo ad abiure segrete. Se questa attività repressiva si attenuò nel corso del secolo, rimasero le iniziative a favore dell’intervento disciplinare sui fedeli nel segno di un persistente controllo dottrinale. Così le missioni si sovrapponevano alle visite pastorali dei vescovi di cui assumevano i compiti organizzando il culto dei laici e proponendosi come pacificatori. Come ha osservato Adriano Prosperi, questa funzione vicaria di inquisitori e vescovi portò, oltre a conflitti istituzionali, anche a una perdita del senso specifico della missione. Tra XVI e XVII secolo vi fu quindi uno sforzo di ridefinizione da parte della Compagnia di Gesù durante il generalato di Claudio Acquaviva. Questi operò un sostanziale rilancio di tale attività missionaria indirizzandola soprattutto verso il risveglio della pietà cristiana e lasciando alla visita pastorale del vescovo gli aspetti riformatori della disciplina e all’azione inquisitoriale quella repressiva. Se quindi i gesuiti avevano offerto una forza di rapida mobilitazione, stimolata anche dall’autorità civile, per il controllo socio-religioso dei fedeli, tuttavia la struttura episcopale della Chiesa tridentina doveva, pur lentamente, mettersi in moto.
La missione diventa quindi un’attività più specializzata e definita, legata all’apostolato, alla predicazione e alla mobilitazione delle coscienze e i missionari tendono a specializzarsi e dividersi tra l’attività di conversione nelle vere Indie e quella di risveglio apostolico nelle Indie “interne”. Non che manchino casi in cui lo stesso religioso abbia operato nei due contesti, oppure che vengano utilizzati strumenti di comunicazione comuni (le immagini, le rappresentazioni teatrali), ma i due campi d’azione si definiscono spesso come alternativi, anche nelle aspirazioni degli stessi religiosi come percorsi individuali di perfezionamento spirituale. All’interno della Compagnia di Gesù la missione si istituzionalizza, con gli interventi dei generali dell’ordine, in particolare le disposizioni di Acquaviva del 1590, 1594 1599 e 1613, ma anche quelle successive di Vincenzo Carafa nel 1646, volti sia a mobilitare i religiosi, sia a regolare l’attività. Acquaviva volle che ogni provincia destinasse dodici religiosi alle missioni. In seguito chiese che ogni collegio avesse due missionari. Carafa poi istituì la figura del prefetto per le missioni in ogni provincia italiana. L’impegno doveva quindi essere stabile e continuo, ma non doveva però dar luogo a residenze fisse. Rispettando il principio ignaziano dell’itineranza, i missionari dovevano andare due a due in città e campagne, senza stabilirvisi per evitare conflitti con le istituzioni religiose locali e mantenendo quindi il carattere di provvisorietà della missione popolare, ma incidendo anche nella società locale esercitandovi un controllo (le pacificazioni).
Per la loro organizzazione dell’apostolato, i gesuiti costituiscono un punto di riferimento per gli altri ordini che concorrono allo sviluppo pur discontinuo delle missioni popolari in Italia, che si allarga nel XVII secolo a vari ordini regolari, ma anche a istituzioni più specifiche. Già nel secolo precedente i cappuccini, non ancora attivi come in seguito nell’evangelizzazione ad gentes, svolgono un’attività missionaria inserita nel solco della loro attività di predicazione e costituiva un complemento della vita spirituale basata sulla meditazione del ritiro (Giuseppe da Leonessa). Essi sviluppano una forma di “predicazione di missione” che unisce a una semplicità retorica e facilità di comprensione forti stimoli penitenziali per convertire i peccatori che si concentra nella devozione delle Quarant’ore. All’inizio del XVII secolo a Napoli viene fondata da Carlo Carafa la congregazione dei Pii Operai specializzata nelle missioni popolari e impostata sul modello gesuita. La pratica missionaria si sviluppa presso molte famiglie di regolari dapprima in direzione delle campagne (ad esempio l’Agro romano), che per la loro marginalità potevano ben rispondere all’immagine esotica delle Indie. In effetti anche per le missioni interne si riproduce il meccanismo che dà luogo a tentativi di acculturazione da parte dei missionari e, al contempo, alla raccolta di informazioni etnografiche di prima mano da parte degli stessi religiosi. Più tardi l’attività si sviluppa nelle città, vista anche come un disimpegno dalla dura realtà rurale, in particolare in luoghi urbani specifici come gli ospedali dove già operavano ordini specializzati. Per Camillo de Lellis, fondatore dei Ministri degli infermi, sono essi “le più belle Indie, il più bel Giappone”.
Fenomeno importante nel corso del XVII secolo è il coinvolgimento del clero secolare, spesso su impulso dei regolari. Per diretto impulso dei gesuiti, la Congregazione dell’Assunzione della Beata Vergine Maria (1611) viene fondata a Napoli nel 1611 da Francesco Pavone e si dedica alla predicazione e alla catechesi. Espressione diretta del clero diocesano napoletano è la Congregazione delle apostoliche missioni (1646) fondata da Sansone Carnevale per dedicarsi anche alle missioni estere (vi si studiava anche il turco per le missioni a Costantinopoli), ma che si limitò alle missioni interne con varie filiali per tutto il Mezzogiorno. Di essa fece parte anche il giovane Alfonso Maria de’ Liguori.
Dalle prime esperienze dei gesuiti Silvestro Landini e Nicola Alfonso Bobadilla alla metà del XVII secolo, la missione popolare ha elaborato modus operandi piuttosto empirici che poi si diffondono e vengono teorizzati. La figura più importante in questo senso è il gesuita Paolo Segneri seniore (1624-1694) che elabora una specifica forma di predicazione di missione, diversa dalla predicazione “alta”, lasciando memoria scritta delle tematiche trattate in lettere e relazioni ma anche in opere a stampa come Il cristiano istruito nella sua legge (1686-1687) e Il parroco istruito (1692). Inoltre dalle corrispondenze emergono le tecniche oratorie, l’improvvisazione e gli apparati scenografici e teatrali. Segneri è considerato anche il promotore della “missione centrale”, che si svolge cioè in una località centrale rispetto a un’area circostante. I fedeli vengono fatti affluire, in genere da un raggio di sei miglia, alla celebrazione rituale pomeridiana dove si svolgeva la predica e anche l’istruzione dottrinale da parte dei due missionari (Segneri agì per 26 anni insieme a Giovanni Pietro Pinamonti). La processione notturna (con la recita di “fervorini”) e la comunione generale concludevano la missione, nella quale le tecniche performative e scenografiche barocche dovevano acuire l’effetto (“missione strepitosa”). Per i gesuiti era importante anche la promozione presso il popolo dei fedeli della pratica della confessione in contrapposizione al quietismo.
Nella tradizionale divisione tra missione penitenziale e catechetica (che tuttavia la storiografia tende a sfumare) la missione segneriana vede la relativa prevalenza della prima, anche se l’elemento dottrinale d’insegnamento si afferma sempre di più in Italia, grazie alla diffusione dei lazzaristi di provenienza francese nella seconda metà del XVII secolo. Essi miravano a “rimediare l’ignoranza” sia del clero sia dei fedeli con missioni che erano molto legate alla parrocchia, sviluppando gli esercizi spirituali e stabilendo o rigenerando le confraternite, nelle quali il laicato femminile aveva gran peso.
La contrapposizione tra la missione gesuita “tutta fuoco” e quella lazzarista “tutta quiete” si fissa nel XVIII secolo quando sulle missioni popolari si apre un vero e proprio dibattito. In effetti si levano voci insofferenti verso gli aspetti più appariscenti della missione, in particolare quando essa si svolge in città dove si biasimano tali aspetti per i quali il fedele è “più spaventato che divoto” (Mauro Alessandro Lazzarelli). Se il metodo segneriano era ancora accolto nella Compagnia di Gesù, anche per opera di importanti missionari come Paolo Segneri juniore, Antonio Tomassini e Antonio Baldinucci, anche nella Compagnia si alzavano voci come quella di Vincenzo Imperiali nel 1701 per rendere la missione meno solenne e più consueta nella diocesi con una rivalutazione del ruolo del parroco, una “regolata devozione” condivisa anche da Muratori. In quegli anni il domenicano francese Jean-Baptiste Labat, a lungo inquisitore a Civitavecchia, si fa beffe delle processioni e delle flagellazioni nello stesso modo divertito con il quale Montaigne descriveva la Curia pontificia.
Questo mutamento conosce tuttavia fasi altalenanti e sforzi di sintesi che vedono all’opera gli ordini regolari vecchi e nuovi. Il clero diocesano partecipa soprattutto o organizzato in associazioni collegate agli ordini o con adesioni individuali a tali ordini, promotori ancora indispensabili nel panorama italiano. Vediamo dunque, insieme a gesuiti, francescani e lazzaristi, anche nuovi ordini in azione sia in campagna, sia in città per una risposta alla scristianizzazione attraverso una missione dal carattere più integrato nell’attività parrocchiale rispetto ai secoli precedenti.
I Pii Operai, rigenerati sotto la spinta di Pietro Gisolfo nella seconda metà del XVII secolo verso uno “zelo discreto” che significa fare della missione un momento catechetico rivolto con stile grave e semplice e con modalità differenziate per ceti e tipi di fedeli. Questo metodo è applicato da Antonio Torres nella congregazione della Purità di Maria Vergine fondata nel 1680 a Napoli. Questa tendenza, che porterà addirittura a sospetti di quietismo, cambia poi nella seconda metà del XVIII secolo con il ritorno a momenti più intensi, come i “sentimenti di notte” destinati soprattutto alle popolazioni rurali.
Emerge quindi una sintesi tra le due tipologie missionaria operata dal francescano osservante Leonardo da Porto Maurizio nella quale la metodologia segneriana è accolta, ma completata con una maggior attenzione alle confessioni e con un più forte inserimento nella cura spirituale ordinaria del parroco. Ma non mancavano le processioni penitenziali e lo “svegliarino della buona morte”.
Il pontificato di Benedetto XIV è un tornante decisivo per lo sviluppo di nuove devozioni e per l’impulso alle missioni popolari, anche in coincidenza con l’anno santo del 1750. Due nuovi ordini si affermano in particolare, i passionisti e i redentoristi. Nei primi, fondati da Paolo della Croce nel 1720, si afferma nell’azione missionaria la spiritualità cristologica di matrice francescana. Nella meditazione sulla Passione di Cristo emergono elementi mistici e pastorali, di forte richiamo alla penitenza e alla conversione con i simboli della croce e del cuore sofferente posti in primo piano, anche sull’abito ecclesiastico. Questa spiritualità rigorosa, che richiede ai religiosi comportamenti austeri e la ricerca della povertà, si richiama a quella promossa nelle missioni di Leonardo da Porto Maurizio che nelle campagne e nelle città dell’Italia centrale dove agivano anche i passionisti e nella stessa Roma, aveva introdotto la devozione della via crucis, in particolare nel 1750 con l’elevazione del Colosseo come santuario della cristianità e del suo martirio.
Intanto nel 1732 Alfonso Maria de’ Liguori fonda i redentoristi che si dedicano alle missioni nelle campagne e tra il popolo minuto delle città raggiungendo i villaggi più sperduti in opposizione alla missione “centrale” gesuita. Infatti essi sviluppano le “missioni parrocchiali” sensibilizzando i parroci e anche i laici all’azione pastorale, come già i lazzaristi. Alfonso sosteneva che la missione doveva essere periodicamente ripetuta, ma non troppo intensamente (ogni tre anni). Come per i passionisti anche per i redentoristi la mistica cristologica era centrale, le loro missioni si concludevano infatti con l’erezione di calvari, oltre che sulla necessità della preghiera e della contrizione, le meditazioni vertevano sul Cristo crocifisso e sulla protezione della Madonna che diviene un elemento importante di una pastorale volta a trasmettere anche un messaggio di fiducia. Come ha sottolineato Stefania Nanni, sulla base della centralità cristologica tra Passione e Redenzione, in questi nuovi ordini missionari settecenteschi si realizzano forme diverse di una fusione tra mistica e apostolato, attraverso la catechesi e la ritualità spettacolare della missione.
Nel XVIII secolo si sviluppano poi molti altri istituti formati da secolari tra i quali i Sacerdoti Secolari Missionari di Palermo (1703), i Missionari di Rho (1721) filiazione degli Oblati dei ss. Ambrogio e Carlo fondati da S. Carlo Borromeo; i Missionari rurali (1713) a Genova e in Liguria che estendono al contado l’azione dei Missionari urbani genovesi fondati nel 1643 dal cardinale Stefano Durazzo; i Missionari Imperiali (fondati da Francesco Maria Imperiali nel 1738) attivi in Italia centrale come i Missionari della SS. Vergine Imperatrice del Cielo e della Terra (1738); i Missionari del Santissimo Sacramento (1745) nel Regno di Napoli; la Pia Opera delle Missioni (1752). Superata la fase napoleonica nella quale le missioni furono proibite, nel XIX secolo si assiste a un notevole risveglio missionario in tutta Europa nel clima della Restaurazione. In Italia già durante il periodo napoleonico Pio Bruno Lanteri aveva fondato associazioni laicali (“amicizie”), poi nel 1816 prende la direzione della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine dedita, oltre che a missioni e esercizi spirituali, anche alla formazione del clero e alla diffusione della stampa. S. Gaspare del Bufalo, già fondatore di un’arciconfraternita del Preziosissimo Sangue e poi dell’omonima Congregazione nel 1815, è attivo nello Stato pontificio con predicazioni e esercizi spirituali le cui tecniche riprendono la centralità cristologica degli istituti settecenteschi, accentuandone le caratteristiche penitenziali e drammatiche (il sangue di Cristo come oggetto mistico) e sviluppando associazioni laiche dei fedeli per rendere continuativa la prassi missionaria anche in opposizione alle forme associative massoniche. Nel Mezzogiorno i Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, fondati da Gaetano Errico ispirandosi a S. Alfonso Liguori si dedicavano alla predicazione, agli esercizi spirituali e alla missione, oltre che alla devozione di cui portano il nome. Nel 1835 S. Vincenzo Pallotti fonda la Pia Società dell’Apostolato cattolico (poi Pia Società delle Missioni) che, in un ampio spettro di attività, ha anche le missioni interne e gli esercizi spirituali, nonché l’aiuto al clero diocesano e anche l’apertura verso le missioni estere, in particolare a servizio delle comunità italiane emigrate, prima a Londra poi in America del Nord, un’attività di missione “interna” (cioè di controllo e risveglio religioso dei cattolici) che si sviluppa sempre di più grazie al forte sviluppo dell’emigrazione italiana fuori dai territori e nazioni cattoliche. Proprio per la sua collocazione geografica, questa attività ricade sotto l’autorità della Congregazione de Propaganda Fide, mentre in Italia le missioni popolari proseguono adeguandosi alla mutata realtà dello stato unitario.