Ospedali – vol. I

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    Autore: Marina Garbellotti

    Il significato del termine ospedale è cambiato nel corso delle epoche. Mentre attualmente in­dica un centro di cura, in origine designava un luogo prevalentemente riservato all’accoglienza di pellegrini e di bisognosi con una valenza segnatamente caritativa e non terapeutica. In linea generale questo orientamento si riscontra sino alle soglie dell’età moderna – in alcuni casi anche oltre – e frequentemente le fonti e la letteratura indicano con la parola ospedale istituti con finalità caritative, quali orfanotrofi, conservatori per fanciulle povere, ospizi per mendicanti. Nel delineare la storia e i mutamenti che investirono gli ospedali si concentrerà l’attenzione, almeno a partire dall’età moderna, su quelli che si specializzarono nella cura degli ammalati rinviando alla voce assistenza un quadro di insieme delle attività caritative.

    Numerosi nell’antichità, gli ospedali, sovente chiamati ospizi dal latino hospes, conobbero una particolare diffusione in epoca cri­stiana in virtù del dovere dell’ospitalità presente nell’insegnamento ecclesiastico e si diffusero nell’Europa occidentale come istituzioni indipen­denti o annesse alle residenze vescovili e ai monasteri. A partire dal secolo XII, di fronte all’incremento demografico, alla crescita delle città, all’intensificarsi dei commerci e degli spostamenti, ai frequenti pellegrinaggi e non da ultimo al ‘risveglio evangelico’ che caratterizzò la vita religiosa dell’epoca basso medievale, gli ospedali esistenti si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze di viandanti, pellegrini e bisognosi in crescente aumento e movimento.

    In questo contesto assai articolato si collocano gli ospedali promossi dagli ordini ospedalieri (Roncisvalle, Aubrac, Antoniani, S. Spirito, San Giacomo di Altopascio, Gerosolimitani, S. Lazzaro, San Giovanni di Gerusalemme, i Crociferi, Cavalieri Teutonici, Templari). Essi praticavano un ampio spettro di forme di soccorso come dimostra l’ordine di San Giovanni in Gerusalemme. Riconosciuto ufficialmente come ordine religioso nel 1153 da papa Eugenio III, l’attività assistenziale dell’ordine giovannita ricalca quella di altri gruppi aderenti alla medesima spiritualità agostiniana, che contemplava l’aiuto ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai vecchi, agli esposti, nonché interventi manutentivi alle strutture riservate all’ospitalità e alla viabilità. Finalità più circoscritte, almeno originariamente, qualificarono l’ordine di San Giacomo d’Altopascio, sorto intorno al 1080 ad Altopascio, non lontano da Lucca sulla via Francigena. Via obbligata per i numerosi pellegrini desiderosi di raggiungere Roma per visitare la tomba di San Pietro, l’ordine garantiva ospitalità e protezione a chi si avventurava lungo questo impervio cammino. Attenti prevalentemente agli aspetto medico-sanitari furono gli Antoniani, impegnati nella cura dell’ergotismo, affezione meglio conosciuta col nome di fuoco di Sant’Antonio, e i Lazzariti, specializzati nella cura della lebbra. Per la precoce attenzione all’infanzia abbandonata merita di essere menzionato l’ordine di Santo Spirito, al quale papa Innocenzo III affidò la direzione del celebre ospedale romano di Santa Maria in Sassia. La fondazione e la gestione di questi istituti non furono sempre pacifiche. Sovente si scatenarono tensioni tra i rettori degli stessi e i poteri locali, religiosi e civili, che vedevano in questi luoghi strumenti di affermazione territoriale e di preminenza sociale.

    La presenza femminile negli ospedali non è un elemento trascurabile. Furono numerose le donne che operarono individualmente a favore dei luoghi pii, come pure le comunità femminili, tra cui si possono ricordare a titolo meramente esemplificativo le Oblate ospedaliere terziarie francescane di Santa Chiara al servizio dell’ospedale di Santa Chiara di Pisa, e le Oblate ospedaliere di Santa Maria Nuova di Firenze, sorte per assistere gratuitamente le inferme povere. Le donne, però, religiose o laiche che fossero, secondo un tratto che caratterizzerà il loro operato almeno sino all’Ottocento, non ricoprivano ruoli direttivi, bensì di servizio.

    La moltiplicazione degli ospedali fu indotta anche e principalmente da quel rinnovato sentimento religioso, storiograficamente definito ‘rivoluzione della carità’, che incoraggiò uomini e donne a consacrare se stessi e i propri beni alle opere di beneficenza. Tra le espressioni peculiari di questa devotio laicale, che caratterizzò l’Europa medioevale, vanno menzionate le comunità miste, formate da chierici, conversi e laici di entrambi i sessi, e dedite alla conduzione di luoghi di ospitalità. La peculiarità di queste comunità risiede nell’ampia presenza di laici, uomini e donne celibi o coniugati. Essi consacravano se stessi e i propri beni alle opere di carità e partecipavano direttamente alla vita religiosa mutuandone alcune pratiche come la penitenza, il voto di povertà e di castità, senza tuttavia abbracciare completamente lo stato ecclesiastico. L’esperienza che tuttavia più connota questo periodo è quella confraternale. Sebbene il panorama medievale contempli ospizi promossi da istituzioni comunali, vescovi, uomini comuni, monasteri, corporazioni di arte e di mestiere, quelli fondati da confraternite conobbero una particolare proliferazione. Oltre agli aspetti devozionali tali associazioni accordarono particolare rilevanza alla carità delle opere colmando profonde lacune sociali che si condensavano nell’aiutare le frange più marginali della popolazioni. Questa diffusa propensione ad aiutare i poveri si manifestava nella distribuzione di viveri e di elemosine e nella fondazione di ospedali. Fatta eccezione per i lebbrosari, gli ospedali accoglievano nella medesima struttura poveri e infermi colpiti da diverse affezioni e dispensavano elemosine e beni di prima necessità agli indigenti, svolgendo una significativa funzione semipubblica in un settore assente o debole della società quale quello assistenziale. Tali interventi li resero rapidamente luoghi strategici e irrinunciabili per le autorità civili, sempre più interessate a regolarne l’attività e a impiegarli nel programma politico-caritativo.

    Gli studi sul grado di medicalizzazione degli ospedali medievali sono alquanto carenti, tuttavia di rado viandanti e bisognosi potevano contare su cure mediche. Le ragioni della scarsa rilevanza attribuita alla pratica terapeutica vanno prevalentemente ricercate nell’idéologie du salut che permeava la cultura dell’epoca e si traduceva nell’assicurare agli ospiti anche e soprattutto assistenza spirituale. Solitamente, infatti, al momento dell’ingresso essi venivano obbligatoriamente confessati e comunicati.

    Da un punto di vista giurisdizionale i loca pia ricadevano sotto la tutela episcopale, come aveva stabilito il concilio di Vienne del Delfinato (1311). Riaffermando antecedenti norme canoniche, l’assise aveva legittimato il vescovo a controllare la gestione patrimoniale degli ospedali e la condotta del personale ivi operante, con l’eccezione di quelli gestiti dagli ordini ospedalieri sottoposti alla vigilanza del loro capo spirituale e giuridico. Di fatto questi controlli avvenivano in occasione delle visite pastorali, in età medievale rare, lasciando dunque agli amministratori dei loca pia ampi spazi di azione.

    Questa situazione rimase pressoché invariata sino alla seconda metà del Quattrocento, allorché l’espansione demografica, il rialzo dei prezzi, il susseguirsi di carestie e di epidemie provocarono un notevole aumento del numero degli indigenti. La povertà divenne un grave problema sociale che le autorità di governo tentarono di risolvere regolando il fenomeno della mendicità e rinnovando la rete ospedaliera esistente formata da ospizi generici e privi di una regia che li coordinasse. Allo scopo di razionalizzare il sistema assistenziale, a partire dalla seconda metà del XV secolo, fu avviata la cosiddetta riforma ospedaliera, che seguì percorsi differenti e non ebbe gli stessi esiti.

    In alcuni centri, soprattutto nel territorio lombardo e nell’area toscana si procedette all’unificazione degli istituti in un unico grande ospedale, chiamato maggiore. In sostanza, molti piccoli ospedali vennero soppressi e i loro patrimoni utilizzati per costruire una più ampia struttura e per sostenerne le attività. L’esempio più noto di questo modello è l’ospedale maggiore di Milano, fondato nel 1456 da Francesco Sforza, ma ospedali maggiori furono realizzati anche a Brescia, Siena, Firenze, Pavia. È tuttavia opportuno precisare che non tutti gli ospedali maggiori erano chiamati a coordinare gli altri istituti assistenziali cittadini, come avvenne ad esempio per quello di Milano; inoltre, la loro presenza non impediva la nascita di nuovi enti caritativi. In altre città come Verona, Venezia, Padova, Bologna, non sorse alcun ospedale maggiore e fu riorganizzato il sistema caritativo esistente: alcuni enti furono soppressi, altri convertiti in ospedali o in istituti specializzati, altri ancora fondati ex novo. Entrambe le soluzioni miravano a formare una rete assistenziale articolata in grado di accogliere in enti distinti ammalati generici, infermi incurabili, esposti, fanciulle bisognose, ragazzi abbandonati a se stessi, poveri inabili, donne dall’onore compromesso e sole.

    Con la riforma ospedaliera si profilò un deciso intervento da parte delle autorità civili nel settore dell’assistenza che non di rado creò conflitti sia con le autorità ecclesiastiche, intenzionate a mantenere la giurisdizione sui luoghi pii, sia con i rettori degli ospedali, identificabili con le oligarchie locali, restii a rinunciare ai vantaggi politici derivanti dalla direzione di questi enti. Il patrimonio accumulato grazie a donazioni e lasciti, i molti affittuari e creditori dipendenti dagli ospedali conferivano, infatti, ai rettori degli stessi visibilità e potere economico. Furono queste motivazioni a indurre alcune Compagnie d’arte della città di Modena a ostacolare l’unione delle Opere Pie e degli Ospedali caldeggiata dalle autorità amministrative e attuata a fatica nel 1541. I progetti di unificazione e di riorganizzazione della rete assistenziale furono osteggiati altresì dalle autorità ecclesiastiche, contrarie alla soppressione di enti appartenenti alla propria sfera giurisdizionale, come accadde a Milano a seguito del disegno messo in atto da Francesco Sforza per unificare gli ospedali. Nonostante queste vicende, prevalse la via della collaborazione, del compromesso, e le autorità ecclesiastiche appoggiarono e parteciparono attivamente alla riforma ospedaliera.

    Da parte sua la Chiesa cercò di riaffermare la giurisdizione sulle istituzioni ospedaliere riconfermando con il Concilio di Trento il diritto di visita dell’ordinario sui luoghi pii (Sess. XXII c. 8 de ref.), e attribuendogli la facoltà di controllare annualmente la contabilità (Sess. XXII c. 9 de ref.). I controlli vescovili non sempre poterono svolgersi pacificamente, essi incontrarono resistenze, a volte forti opposizioni da parte dei rettori ospedalieri, pienamente appoggiati dalle autorità laiche, e furono tendenzialmente circoscritti agli aspetti spirituali.

    Benché il potere laico avesse compreso nella propria sfera giurisdizionale le strutture assistenziali, le finalità perseguite dagli ospedali continuarono a mantenere una forte valenza religiosa. Le cure prestate al corpo non potevano essere disgiunte da un’assistenza religiosa che si preoccupava di garantire la salute dell’anima. Questa commistione tra sfera laica e religiosa, tipica dell’antico regime, venne meno sul piano giurisdizionale: autorità civili ed ecclesiastiche, infatti, cercarono progressivamente di separare le rispettive sfere di competenza.

    In questa cornice offrirono una risposta convincente le numerose congregazioni religiose, nate nel corso del Cinquecento e distintesi per il dinamismo nell’ambito caritativo e sanitario, fra le quali è opportuno segnalare quella dei Teatini, dei Camilliani, dei Fatebenefratelli.

    L’attività sociale dei Chierici Regolari Teatini si esprimeva, oltre che nel conforto ai condannati a morte e ai carcerati, nell’assistenza agli ammalati incurabili, proseguendo l’opera dei membri dell’Oratorio del Divino Amore. Tra le iniziative assistenziali sostenute da questa società vi fu la fondazione in varie città italiane – la prima esperienza fu quella genovese del 1499, replicata poi a Roma e a Napoli – di ospedali per gli incurabili, cioè per le persone colpite dalla sifilide. Tra gli affiliati del Divino Amore molti afferirono alla congregazione dei Teatini, il cui co-fondatore Gaetano Thiene, contribuì a riorganizzare l’ospedale della Misericordia di Vicenza e nel 1522 promosse a Venezia la fondazione dell’ospedale degli incurabili, grazie anche alla sollecitudine di alcune nobildonne veneziane.

    Altrettanto incisiva nel settore ospedaliero fu l’opera dei Chierici regolari Ministri degli Infermi, meglio noti come Camilliani dal nome del fondatore Camillo de Lellis, e l’attività degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio o Fatebenefratelli, tutt’oggi attivi in Europa e in altri continenti. Accanto ai tre voti sostanziali della vita religiosa (povertà, castità ed obbedienza), questi ultimi ne pronunciavano un quarto con il quale si impegnavano a soccorrere i bisognosi e gli infermi.

    I Camilliani, nati come congregazione di secolari dediti all’assistenza degli ammalati ricoverati nel San Giacomo, l’ospedale romano riservato agli incurabili, si configuravano come una sorta di corpo infermieristico specializzato nella cura degli infermi, soprattutto di quelli colpiti da malattie gravi e pericolose come la sifilide e la peste, nonché nell’organizzazione dell’assistenza all’interno degli ospedali. La voce di questo impegno si diffuse rapidamente e le loro prestazioni furono richieste, a fianco o in sostituzione del personale laico, a Genova, a Napoli, a Firenze, a Mantova, a Bologna e a Milano, presso il prestigioso Ospedale Maggiore, che negli anni Novanta del Cinquecento mostrava considerevoli inefficienze sul piano organizzativo.

    Ugualmente rilevante fu l’opera dell’Ordine regolare laicale degli ospedalieri di San Giovanni di Dio – detti popolarmente Fatebenefratelli – organizzatisi per proseguire l’opera del portoghese Giovanni Ciudad (1495-1550), che pure professavano un quarto voto di servire gli infermi. A un secolo dalla sua morte nella penisola italiana esistevano sei province (romana, siciliana, napoletana, milanese, barese e sarda) e gli ospedali fondati o amministrati dai Fatebenefratelli in Europa erano circa 300.

    Il reclutamento di tali religiosi negli ospedali dipendeva dalle loro competenze sanitarie e soprattutto dalla possibilità di risparmiare sulle spese di gestione, ma non fu privo di frizioni. La loro presenza infatti poteva interferire, persino rompere, gli equilibri instauratisi tra i diversi attori politici, come accadde ai Camilliani in servizio dagli anni Novanta del Cinquecento presso l’Ospedale Maggiore di Milano. Nel corso del tempo essi divennero invisi a più ambienti: a quello diocesano che si era visto sottrarre un importante campo di intervento, nonché ai rettori dell’ospedale milanese, voce del patriziato cittadino, che temevano di vedere compromessa la direzione dell’istituto. L’esito di questi attriti fu dapprima la riduzione del numero dei religiosi, per giungere nel 1632 all’interruzione della collaborazione.

    Leggendo le direttive sulla preparazione medica di questi religiosi si ricava l’impressione di una particolare attenzione alla formazione. Le costituzioni dei Fatebenefratelli risalenti al 1596, ad esempio, prevedevano che prima di essere ammessi al noviziato i candidati dovessero essere esaminati dal ‘fratello maggiore’ e inviati in un ospedale della congregazione per imparare a servire e assistere i degenti. Si tratta di proposte importanti per l’epoca, se si tiene presente che sovente negli ospedali gli infermieri non possedevano specifiche competenze mediche. Trattandosi però di testi normativi si rende necessario verificare se queste direttive fossero un manifesto di intenti oppure se e in che misura venissero messe in pratica. Contribuisce ad ampliare le conoscenze sull’argomento l’esperienza dell’ospedale fiorentino intitolato a San Giovanni di Dio amministrato dai Fatebenefratelli. I ricoverati, per lo più affetti da febbri, erano assistiti e curati dai religiosi infermieri, i quali possedevano solide conoscenze nell’arte della spezieria e competenze di bassa chirurgia.

    Per quanto concerne l’attività delle congregazioni religiose femminili, almeno in età moderna, esse privilegiarono l’istruzione e l’aiuto alle fanciulle povere. Tra le poche dedite all’assistenza degli infermi si possono menzionare le Figlie di Carità. Istituite in Francia da Vincenzo de’ Paoli nel 1633 per il soccorso a domicilio dei poveri e degli infermi, esse si diffusero rapidamente in altri paesi, giungendo anche in Italia.

    Dalla seconda metà del Settecento per gli ordini religiosi si aprì un periodo cruciale, destinato a protrarsi anche nel secolo successivo. Le soppressioni attuate dai sovrani nell’ambito del riformismo assolutistico e con azioni più radicali nella Francia rivoluzionaria e nelle repubbliche sorelle, li investirono in maniera talora anche molto incisiva, condizionandone l’operato. Con la Restaurazione i governi degli antichi Stati si affrettarono a istituire commissioni o congregazioni con il compito di amministrare gli enti caritativi e ospedalieri e di coordinarne le attività. Nei decenni che precedettero l’Unità si manifestarono tentativi più o meno decisi per ridurre il numero dei religiosi e per controllare le attività della Chiesa. Tuttavia, anche laddove questa politica assunse forme radicali – come accadde nel Regno di Sardegna, ove una legge del 1855 si propose di sopprimere gli ordini non dediti alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati –, proprio in virtù dell’opera prestata nel settore assistenziale i religiosi riuscirono a proseguire la loro attività, come fecero i Camilliani e i Fatebenefratelli.

    Non mancarono nuove iniziative, alcune delle quali accesero un intenso dibattito. Tra queste vale la pena di menzionare quella promossa dal sacerdote piemontese san Giuseppe Benedetto Cottolengo, che nel 1832 aprì la Piccola Casa della Divina Provvidenza, comunemente chiamata Cottolengo, e per assicurare adeguata assistenza ai malati cronici, alle persone affette da malformazioni fisiche e da ritardi mentali diede vita alla congregazione dei Fratelli di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Le perplessità nei confronti di simili istituti riguardano prevalentemente l’isolamento degli ospiti che finisce quasi per occultarli alla società, anziché favorirne l’integrazione nella stessa.

    Nonostante la complessità delle opere descritte, a contrassegnare l’Ottocento fu soprattutto il proliferare di congregazioni ospedaliere femminili vocate all’assistenza degli ammalati a domicilio e a quelli ricoverati negli ospedali. Accanto alle Figlie di Carità, alle cui regole si ispirarono e si modellarono molte famiglie religiose, iniziarono a prestare la propria opera negli enti ospedalieri le Suore Ministre degli Infermi di San Camillo, nate a Lucca per volontà di Maria Domenica Brun Barbantini, le Sorelle della Misericordia, fondate da don Carlo Steeb a Verona nel 1840, le Ancelle di Carità, istituite nel 1840 da Paola di Rosa, per menzionarne soltanto alcune. Le religiose divennero una presenza abituale nei reparti ospedalieri consentendo alla Chiesa di riguadagnare nell’ambito assistenziale un significativo spazio e ruolo sociale.

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    LEMMARIO