Laico, Laicato – vol. II

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    Autore: Guido Formigoni

    Al momento dell’unificazione italiana, l’esperienza ecclesiale era segnata dalla lunga stagione della “cristianità” istituzionale, che aveva progressivamente focalizzato e irrigidito la distinzione tra clero e laicato. Nella logica controriformista, la struttura clericale della Chiesa aveva trovato la sua conferma più alta nelle riflessioni bellarminiane. La reazione ottocentesca alla modernità consolidò anche in Italia una prospettiva in cui all’opposizione netta chiesa-società faceva riscontro una struttura dualistica nella Chiesa.

    In tale orizzonte, la nascita di forme di organizzazioni cattoliche laicali impegnate a difendere i diritti della Chiesa nel nuovo spazio “secolare” e civile creato dalle delle libertà moderne, cominciava a porre in atto alcuni elementi di una potenziale tensione. Accettare la mobilitazione dei laici comportava ridurre le tradizionali distanze tra gerarchia e clero, da una parte, e popolo cristiano, dall’altra: la vera linea di frattura diveniva sempre più chiaramente quella tra la Chiesa tutta e i suoi avversari nel “mondo”. Si innescava così un processo di lungo periodo, che comportava il ripensamento dello stesso modo di vivere la configurazione istituzionale gerarchica e i rapporti interni al corpo ecclesiale. Il percorso non fu però privo di problemi. Pio IX stesso espresse in più occasioni la preoccupazione che i laici potessero «rovesciare in senso democratico la tradizionale struttura ecclesiastica» (cit. in G. Martina, L’atteggiamento della gerarchia davanti alle prime iniziative organizzate di apostolato dei laici alla metà dell’Ottocento in Italia, in Spiritualità e azione del laicato cattolico italiano, Padova 1969, p. 347). In seguito, la divisione tra i “pastori” e il “gregge” era più volte ripetuta, per esempio, negli scritti di Leone XIII. Anche autorevoli vescovi erano preoccupati per la crescita di influenza ecclesiale dei nuovi “cattolici di professione”, che animavano l’associazionismo del movimento cattolico. Alcuni vescovi (che avevano tra l’altro simpatie conciliatoriste e non amavano l’intransigentismo) parlavano tra loro con un certo sprezzo dei nuovi “vescovi in cilindro”, cioè appunto i dirigenti dell’Opera dei congressi.

    Queste resistenze vennero però ben presto ridimensionate dal punto di vista pratico, in quanto la necessità di ricorrere alle nuove forme di socialità e di presenza pubblica dei laici si impose rapidamente. Ma la nuova stagione non fu certo accompagnata da un profondo ripensamento teologico. Si pensi al fatto che ancora negli anni ’30 del Novecento, il segretario di Stato card. Gasparri pubblicò un Catechismo cattolico in cui parlava dei laici come “sudditi” nella Chiesa, con trasparente analogia monarchica per la struttura ecclesiastica. E la stessa formula di papa Ratti che definiva l’Azione cattolica come “partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico” fu criticata da qualche scuola teologica romana, in quanto eccessiva e incompatibile con le tradizionali distinzioni: tanto che lo stesso papa Pio XII derubricò in diversi interventi tale riconoscimento, usando l’espressione più neutra “collaborazione”.

    In pratica, però, il percorso storico dell’associazionismo di azione cattolica (altrimenti detto del “movimento cattolico”) ebbe un ruolo cruciale nel fare sperimentare a una larga élite di laici cristiani una condizione ecclesiale di coinvolgimento e corresponsabilità. Attraverso questo itinerario, maturava una spiritualità laicale caratteristica, in quanto fortemente attiva e centrata sul coinvolgimento personale, quanto portata ad una netta identificazione con la Chiesa e con la Chiesa vissuta, parrocchiale e diocesana, e soprattutto universale (attorno alla crescente importanza della figura del papa). Tale identificazione portava necessariamente con sé una tendenza al protagonismo, che superava le categorie della passività tradizionale. Non contava molto che questa dinamica scontasse un atteggiamento per lo più esecutivo, come più volte riaffermato anche nella teologia del tempo. La cooperazione con il clero e i vescovi era ovvia, ma nella coscienza di una propria originale missione. Gli elementi di questa sintesi erano molto semplici, capaci di essere colti a livello popolare: formazione catechistica interiorizzata, devozione religiosa, vita sacramentale e in particolare eucaristica, senso della militanza personale e missionaria. I limiti maggiori di questo cammino sono forse da cercare in una scarsa valorizzazione delle dimensioni secolari della vita laicale: per lo più prevaleva un atteggiamento difensivo, per cui sembrava che nei campi della famiglia o della vita professionale e sociale, occorresse in primo luogo cautelarsi da pericoli di ordine morale, oppure dalla temuta concorrenza degli avversari ideologici o politici. Certo, non si trascurava la dimensione laicale della educazione, insistendo però soprattutto sugli aspetti passivi, in quanto mirati a compiere una “volontà di Dio” intesa in senso prevalentemente formale e il più delle volte individualistico. Tale prospettiva si traduceva nell’enfasi sui “doveri” imposti dal proprio stato di vita, conseguente a una visione immobilista e provvidenzialista delle differenziazioni sociali. Le virtù tradizionali, e in particolare la purezza venivano spesso intese come limitazione di molti legami secolari, per dedicarsi in modo stabile alla milizia apostolica.

    Un altro filone di esperienze che permise ad alcune generazioni di esponenti del laicato cristiano di avviare un ripensamento su se stessi fu quello della “consacrazione nel mondo”: si trattava di una scelta vocazionale tipica di molte realtà associate nate a cavallo tra Ottocento e Novecento, e rilanciate in modo diffuso soprattutto dopo la prima guerra mondiale. Tali sodalizi di fedeli si distaccavano dalla tradizionale e canonica struttura religiosa, proprio per una ricerca della santità nelle condizioni secolari dell’esistenza, scegliendo generalmente di non condurre una vita comunitaria di impronta più o meno monastica. Sarà nel secondo dopoguerra che tale modello sarà riconosciuto nella formula canonica degli “istituti secolari”, maschili o femminili. La coscienza laicale dei membri di questi istituti fu più volte originalmente affermata.

    Le stesse aggregazioni di impegno sociale e addirittura politico si prestarono del resto a un percorso parallelo di assunzione di responsabilità. L’aspetto democratico interno e la rilevanza sociale assunta da molti laici cristiani in queste iniziative, non potevano che avere qualche impatto anche nella realtà ecclesiale. Lo si vide con la crescente maturazione di un approccio alla sfera civile e politica di cristiani che non si ponevano più l’obiettivo di una “ricristianizzazione” formale ed esteriore della realtà. Ma piuttosto insistevano sulle opportunità di un’azione “aconfessionale” (Sturzo) o semplicemente democratica, da parte di cristiani, per modificare dall’interno le strutture civili. La riflessione maritainiana nel secondo dopoguerra, parallela all’assunzione di ruoli centrali di governo da parte di un “partito di ispirazione cristiana”, corroborò questa prospettiva. Non si trattava solo di valorizzare i frutti del proprio cristianesimo vissuto da laici: era l’origine di una sottolineatura della “laicità” come carattere proprio delle forme della presenza cristiana nel mondo. Le preoccupazioni gerarchiche non mancarono nemmeno verso queste riflessioni: si ricordino le polemiche dei primi anni ’50, in cui il partito della Democrazia cristiana veniva accusato da molti cattolici di tradire l’obiettivo di una ri-cristianizzazione della società; nel 1960 la Cei approvava una dura lettera pastorale contro il “laicismo”, ritenuto uno dei maggiori errori del tempo moderno, prendendo di mira non solo gli attacchi esterni alla Chiesa, ma anche le infiltrazioni del laicismo tra i cattolici stessi.

    Tra Ac e Istituti secolari prese comunque piede già nel pre-concilio una riflessione che insisteva soprattutto sul “sacerdozio comune” dei fedeli, anticipando alcune riflessioni della teologia del laicato di impronta francese. L’arrivo in Italia degli scritti di Yves Congar, negli anni ’50, corroborò questa riflessione, che trovò alcuni ambienti particolarmente sensibili. Spicca a questo proposito l’itinerario personale di Giuseppe Lazzati, che divenne uno dei più significativi sostenitori di una “maturità” ecclesiale del laicato, interpretata soprattutto nell’articolata capacità di valorizzare gli aspetti cristiani della vocazione “secolare”, legata alla vita e all’attività del laico nel “mondo”. La riflessione conciliare diede slancio a una nuova stagione di crescita della coscienza laicale. Soprattutto LG 31, inseriva la tematica dell’”indole secolare” del laico e della vocazione a “cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”, nell’orizzonte della visione di Chiesa come “popolo di Dio”, prima che come società gerarchica. In questa direzione, Lazzati insisteva soprattutto sulla necessità che la coscienza laicale cristiana assumesse come propria specifica vocazione il percorso da compiere negli ambiti mondani, rifiutando una visione degli equilibri clero-laicato tutta interna a logiche ecclesiastiche.

    Dopo il Vaticano II, venne ad esprimersi un filone che tese a interpretare in chiave rivendicativa e polemica la richiesta di maggior voce e di un più significativo ruolo del laicato nella Chiesa, parallelamente alla stagione “anti-istituzionale” vissuta dalla società italiana nei decenni ’60 e ’70. Ma forse più rilevante in termini quantitativi e qualitativi fu la ricerca di nuove forme di equilibrio tra i diversi stati di vita cristiani, vissute nelle Chiese locali. Si pensi alla stagione di sperimentazione, non facile, dei “consigli pastorali”, come ambiti di condivisione della responsabilità di guida delle comunità. Ma si pensi anche alla nuova stagione di protagonismo di movimenti ecclesiali, in cui la componente laicale era quasi sempre forte, anche se talvolta l’origine delle aggregazioni era stata legata al carisma di un fondatore ecclesiastico.

    Tra anni ’70 e ’80 si sviluppò una fase di interessanti dibattiti teologici nella Chiesa italiana sulla questione del laico e del laicato. La visione “lazzatiana” fu ripresa con un tentativo di rifondazione e consolidamento (ad esempio con un importante corso di aggiornamento organizzato dall’Università cattolica nel 1977 a Verona). Una sua ricaduta era anche l’articolazione di un discorso sulla laicità dello Stato e delle istituzioni, che doveva avere un rilevante sviluppo anche nella coscienza civile di una parte dei cattolici italiani, confluendo fino al ripensamento della Corte costituzionale sui caratteri “laici” dello Stato democratico. Da parte di alcuni teologi, venne però una critica che identificava in quell’approccio una tendenza dualistica, o almeno un rischio di separazione tra esperienza della Chiesa ed esperienza secolare. Invece di insistere sulla coppia laicato-clero, si propose quindi di riflettere sui rapporti tra la comunità e i diversi ministeri (in linea con il ripensamento dello stesso Congar): la riflessione e la sperimentazione sui ministeri laicali rimase però piuttosto iniziale nella Chiesa italiana: a parte gli incerti passi avanti di alcuni ministeri legati all’ambito liturgico, si cominciò a parlare di un “ministero coniugale”, ma senza significativi sviluppi. Altri teologi insistettero piuttosto sulla necessità di ribadire le caratteristiche spirituali del laico come “cristiano”, diversificando piuttosto in termini formativi e spirituali un approccio specifico alle diverse vocazioni “laicali”. Lazzati replicò a questi approcci senza rigidità, ma esprimendo l’esigenza fondamentale di non appiattire la vocazione dei laici e il loro servizio non semplicemente ecclesiale, ma ispirato alla necessità di ordinare le cose del mondo secondo Dio.

    Fonti e Bibl. essenziale

    G. Ambrosio – G. Angelini, Laico e cristiano. La fede e le condizioni comuni del vivere, Genova 1987; G. Caracciolo, Spiritualità e laicato nel Vaticano II e nella teologia del tempo, Milano 2009; Laicità. Problemi e prospettive, Atti del 47° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Milano 1978.


    LEMMARIO