Autore: Corrado Maggioni
Quale fisionomia ebbe la liturgia nella penisola italica dell’antichità? La risposta affiora dai dati, più chiari dal sec. V, riguardanti importanti sedi episcopali. Fino al sec. VI, le Chiese delle dieci province dell’Italia suburbicaria (Tuscia-Umbria, Campania, Lucania-Bruttium, Apulia-Calabria, Samnium, Picenum, Valeria, Sicilia, Sardinia, Corsica), posta sotto l’autorità civile del Vicarius Urbis, erano ritualmente legate a Roma. Nell’Italia annonaria, dove l’assetto ecclesiastico non corrispondeva al civile, la sede più importante era Milano, residenza del Vicarius Italiae; vi erano poi Torino, Vercelli, Brescia, Verona, Aquileia, Ravenna, quest’ultima a cerniera tra il Nord e Roma, che ne nominava i vescovi ancora al tempo di Gregorio Magno. Nel sec. VII, la geografia si modifica e l’influenza di Roma si riduce per l’occupazione longobarda che la divide dall’esarcato di Ravenna e dalle regioni a sud, dove permangono antichi usi romani. I missionari campani inviati nelle isole inglesi recarono con sé i loro libri liturgici. Anche il monachesimo benedettino ha svolto la sua parte. Il latino era la lingua da tutti condivisa.
Liturgia romana. La Chiesa di Roma fu una matrice liturgica per l’intero Occidente, senza impedire la fioritura di altre prassi rituali. Se nel sec. II alcuni indizi vengono dall’Apologia di Giustino, nel sec. III è la Traditio apostolica attribuita ad Ippolito romano ad informare sul catecumenato, la veglia pasquale, il battesimo, l’Eucaristia, l’ordine, i ministeri, i tempi e modi di preghiera. Dopo la metà del sec. IV si va affermando una liturgia in latino, promossa da papa Damaso (366-384), che commissionò a Girolamo la revisione latina della Bibbia. Si determinò così lo sviluppo di un rito peculiare, caratterizzato da preghiere che non traducevano testi greci e si ispiravano a criteri compositivi del genio romano, ossia la sobrietas et concinnitas, attento all’aspetto giuridico del culto. Un esempio eloquente è il Canone romano, risalente al sec. IV e codificato nel VI.
Il passaggio dalle domus ecclesiae alle basiliche costantiniane (Laterano, S. Pietro in Vaticano, S. Paolo sulla via Ostiense), seguite da altre (S. Sabina e S. Maria Maggiore nel sec. V, S. Lorenzo in Verano nel VI, S. Giorgio al Velabro e S. Agnese nel VII) portò all’organizzarsi delle liturgie presiedute sia dal Vescovo che dai presbiteri. Peculiare fu il fermentum, ossia l’uso di inviare alle parrocchie un frammento del pane consacrato dal Papa affinché fosse immesso dal prete nel calice prima della comunione, segno del vincolo eucaristico di ogni comunità col Vescovo. Il bacio di pace è scambiato prima della comunione (cf. lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio Decenzio del 19 marzo 416).
Il culto dei martiri fu vivamente coltivato in giorni e luoghi. Di origine romana è la festa del Natale il 25 dicembre, attestata dal Cronografo Filocaliano del 336. Prese così forma il ciclo dell’anno – ci informano le omelie di Leone Magno – in cui, oltre alle feste di Pasqua, Ascensione e Pentecoste, compare la Quaresima, l’adozione dell’Epifania (fine sec. IV), le feste degli apostoli Pietro e Paolo, i giorni di Avvento e la primitiva festa mariana il 1° gennaio (sec. VI). Nel sec. VII giungono a Roma le quattro feste orientali in onore della Vergine (2 febbraio, 25 marzo, 15 agosto e 8 settembre) che, diffuse in Europa con la liturgia romana, rappresentano nei secoli il cardine della pietà liturgica mariana.
Il deposito eucologico romano si è formato grazie a Leone Magno (†461), Gelasio († 496), Vigilio (†555) e Gregorio Magno (†604), il quale riordinò il rito della messa (due letture bibliche invece di tre, l’anticipo del Pater dopo il Canone e prima della fractio panis) e incrementò le stationes, ossia le chiese dove, in dati giorni, il Papa celebrava la messa col popolo romano. Conosciamo le celebrazioni (preghiere, giorni e occasioni) tramite i sacramentari Veronese (risalente al sec. V-VI), Gelasiano antico (testimone della liturgia presbiterale), Gregoriano Adrianeo (testimone della liturgia papale), Gregoriano Paduense. Delle letture bibliche abbiamo delle liste in manoscritti dei secc. VI-VII. Particolare rilievo va al canto gregoriano (fatto risalire a Gregorio Magno), i cui testi per la messa e l’ufficiatura sono custoditi negli antifonari. La residenza di chierici accanto al Papa, come il sorgere di monasteri presso le basiliche, ha favorito l’ufficio divino nelle ore del giorno. Preziosi sono gli Ordines (editi da M. Andrieu), ossia le indicazioni sul modo di celebrare a Roma nel medioevo, tra cui l’Ordo I riguardante la messa papale verso il 700 e l’Ordo XI l’iniziazione cristiana.
Liturgia ambrosiana. Se vi sono opinioni diverse sulla radice liturgica della primitiva comunità di Milano (Roma o l’Oriente), è concorde ritenere sant’Ambrogio (374-397) l’organizzatore creativo di una prassi rituale, detta appunto ambrosiana. E’ nota la sua opera nell’iniziare al canto corale e nel comporre inni. Nei suoi scritti traspaiono rilevanti testimonianze liturgiche, come i testi biblici letti nelle celebrazioni, la consistenza dell’anno liturgico, la ritualità dell’iniziazione e della messa (cf. le catechesi mistagogiche De Sacramentis e De mysteriis). Per la sua intraprendenza il calendario milanese si arricchì del ricordo dei martiri. Quanto osservava circa l’uso di lavare i piedi ai neo battezzati ben esprime la sua consapevolezza in materia liturgica: «Non ignoriamo che la Chiesa romana non ha questa consuetudine, sebbene noi ne seguiamo, in tutto, il modello e la norma. Tuttavia non ha questa consuetudine di lavare i piedi… Dico questo non già per criticare gli altri, ma per giustificare il rito da me compiuto. Desidero seguire in tutto la Chiesa di Roma, ma tuttavia anche noi abbiamo, come gli altri uomini, il nostro modo di pensare; quindi, ciò che altrove si osserva con fondate ragioni, anche noi lo conserviamo con fondate ragioni» (De Sacramentis III,1,5).
Lo studio degli antichi libri ambrosiani (secc. IX-XI), ossia i sacramentari di Bergamo, Biasca, san Simpliciano, Ariberto e il Triplex, ha accertato tre stratificazioni: la prima risalente al sec. (IV) V, legata ad Ambrogio ed Eusebio, il quale operò per la riorganizzazione dopo l’invasione di Attila; la seconda è del sec. VII, connessa con il ritorno dei vescovi milanesi dall’esilio a Genova per l’invasione longobarda; la terza, come appare dai manoscritti, è di epoca franco-carolingia. L’analisi comparata manifesta le influenze recepite nei libri ambrosiani (da Chiese latine o orientali e poi dall’imposizione della liturgia romano-franca attestata nei Gelasiani dell’VIII sec. e nel Supplemento del Gregoriano) o esercitate da essi sulla stessa liturgia romana e romano-franca.
La storia della liturgia ambrosiana ne svela la fisionomia specifica: sistemi di lettura liturgica della Scrittura, eucologia con chiari temi teologici, struttura tipica dell’anno liturgico (santorale, eortologia, durata di avvento e quaresima), ordinamenti particolari (l’antifona post evangelium, l’invito del diacono per la pace al termine della liturgia della parola e avanti la comunione, l’orazione super syndonem, il Simbolo prima dell’orazione sulle offerte, la frazione del pane con la sua antifona prima del Pater, l’abbondanza dei prefazi). L’antico deposito eucologico, antifone comprese, evidenzia la volontà di professare, tramite la lex orandi, la retta fede nel mistero di Cristo insidiata dall’opposizione ariana durata dai tempi di Ambrogio fino al 698, quando nel Sinodo di Pavia si decretò formalmente la fine dell’arianesimo nella pianura padana. Tra le particolarità: la Quaresima inizia con la Domenica, prevede i venerdì aliturgici e non celebra i Santi; l’Avvento dura sei settimane e dal sec. V la Domenica antecedente il Natale celebra la divina maternità della Vergine.
Liturgia aquileiese. Via di comunicazione tra l’Italia e il Norico e tra Occidente ed Oriente, Aquileia conobbe nel sec. IV una notevole vivacità, con influenza giuridico-liturgica sulle Chiese della Venezia, della Rezia, del Norico, della Pannonia, della Savia: lo testimoniano gli edifici cultuali eretti da Teodoro, firmatario al concilio di Arles del 314, e le basiliche dei secc. IV-V. Sotto il vescovo Valeriano, nel 381 si raccolsero in Concilio ad Aquileia trentadue vescovi per fronteggiare, capeggiati da Ambrogio, l’eresia ariana.
Dell’aquileiese Rufino († 410) ci è pervenuta la formula del Simbolo battesimale; nei suoi scritti abbiamo indizi sul legame della Chiesa di Alessandria con Aquileia, del resto visitata più volte da Atanasio durante l’esilio. Dal cap. 97 del De viris illustribus di san Girolamo – risiedette ad Aquileia dal 370 al 373 – sappiamo che il vescovo Fortunaziano († dopo il 360) «in evangelia titulis ordinatis breves sermone rustico scripsit commentarios» (CLLA 1, nr. 055 e CLLAS nr. 79). La testimonianza più autorevole sulla liturgia aquileiese a cavallo del sec. IV-V sono le omelie di Cromazio († 407), pronunciate nel corso dell’anno, per le feste del Natale e dell’Epifania, la Quaresima, le feste pasquali con i sacramenti dell’iniziazione, il tempo successivo con l’Ascensione e la Pentecoste, la dedicazione della chiesa di Concordia.
Per le letture bibliche siamo aiutati da due codici: il Codex Foroiuliensis, con frammenti di un capitulare evangeliorum del sec. VI e note marginali aggiunte nei sec. VII-VIII; e il Codex Rehdigeranus, manoscritto del sec. VII, con l’aggiunta di un capitulare evangeliorum dell’inizio del sec. VIII. Pur presentando i segni dell’avvenuta romanizzazione, le liste delle pericopi evangeliche documentano quale fu la tradizione locale antica, facendo intravedere le particolarità di un rito che andò consolidandosi, favorito da situazioni politico-ecclesiali. Infatti, alterne vicende segnarono il patriarcato di Aquileia nel sec. VI-VII: dal rifiuto del Concilio costantinopolitano del 553 intorno alla questione dei Tre Capitoli e conseguente urto con i papi che lo confermarono, all’invasione dei Longobardi nel 568 che consigliò lo spostamento della residenza episcopale a Grado, alla divisione nel 605 del patriarcato in due comunità, l’una ortodossa legata all’impero bizantino e l’altra scismatica soggetta al regno longobardo, la quale sussistette fino al ritorno nell’unione con Roma nel 698. Quando il vescovo Paolino di Aquileia († 802) accolse le direttive di Carlo Magno e con esse il rito romano, rimasero negli ordines delle singole Chiese suffraganee (esempio a Como) alcune particolarità che permisero di parlare del cosiddetto “rito patriarchino”, abolito nel concilio di Aquileia del 1596.
Liturgia ravennate. Quando Ravenna divenne capitale dell’impero d’Occidente, all’alba del sec. V, anche l’antichissima Chiesa lì residente si riorganizzò. Lo attesta l’opera del vescovo Orso, costruttore di un’imponente basilica con battistero. Col suo successore, san Pietro Crisologo (circa 425-456), la sede ravennate divenne metropolìa, soggetta a Roma ma con qualche giurisdizione su Chiese vicine fino allora dipendenti da Milano; nel sec. VI, in epoca bizantino-giustinianea, dopo la dominazione ostrogota (493-526), furono intensi i contatti con l’Oriente.
Le omelie del Crisologo ci informano sull’ordinamento delle letture bibliche, l’anno liturgico ed aspetti della vita liturgico-sacramentale. L’altra importante fonte è il celebre Rotulus, contenente quarantadue orazioni (sembra per l’ufficio divino) del tempo preparatorio al Natale. Compilato nel sec. VII, raccoglie materiale distinguibile in tre ambiti, dove sono confluite raccolte anteriori. L’impianto romano delle orazioni lascia spazio all’originalità di una lex orandi che riflette la professione di fede della Chiesa ravennate del V sec. nel mistero dell’incarnazione del Verbo divino nel grembo della Vergine, in virtù dello Spirito. Diverse orazioni sono indirizzate direttamente a Cristo, confessato nelle sue prerogative divine. E’ evidente il contatto con il pensiero teologico (la mano stessa?) del Crisologo.
Dal Liber pontificalis ecclesiae ravennatis di Andrea Agnello (prima metà del sec. IX) conosciamo l’attività liturgica del vescovo di origine orientale Massimiano (546-556), il quale avrebbe riordinato i libri dei vangeli e delle epistole, e redatto «missales per totum circulum anni et sanctorum omnium, cotidianis namque et quadragesimalibus temporibus, vel quidquid ad ecclesiae ritum pertinet» (PL 106,610). E’ in questo periodo che la liturgia di Ravenna, officiata nelle basiliche che ancora ammiriamo, si consolida nei propri usi, mediati dalla tradizione romana e fatti propri non senza l’influsso di altre Chiese.
Liturgia campano-beneventana. La vicinanza con Roma e la sua dipendenza ecclesiastico-civile, non ha impedito peculiari usi nella regione campana, diffusi dai missionari anche nei paesi inglesi. Secondo Gennadio, Paolino di Nola († 431) avrebbe composto un Liber sacramentorum.
I documenti disponibili, relativi ai testi biblici della messa (tre letture), risalgono ai secc. VI-VII per la Campania e ai secc. X-XI per Benevento: i più antichi, giuntici anche in posteriori copie anglo-sassoni, attestano la loro originalità (ci sarebbero indizi della prassi romana pregregoriana); quelli medievali, nonostante la romanizzazione, mostrano tracce di un sistema non romano. Diretto testimone della liturgia campana è il Codex Fuldensis, noto come l’Epistolario di Capua. Composto dal vescovo Vittore verso il 545 e passato in Inghilterra nel secolo seguente, presenta un proprio ordinamento di vangeli ed epistole (solo dalla lettere paoline) per il corso dell’anno (in Quaresima indica testi per la Domenica, mercoledì e venerdì) e la memoria di pochi santi (Pietro e Paolo, Lorenzo, Andrea e testi per un comune dei martiri).
Nell’evangeliario di Lindisfarne (o Comes di Napoli) e nel Codex regius, risalenti al VII-VIII sec., sono ravvisate copie di un capitolare dei vangeli proveniente da Napoli. Poiché non è facile individuare le pericopi, essendo indicato l’evangelista senza dettagli, sono di aiuto le note dell’evangeliario di Burcardo di Würzbourg, che presenta caratteristiche napoletano-romane.
I più antichi codici della regione beneventana sono del sec. X-XI, già conformati come Messali plenari ed ormai romanizzati. Significativo è il Messale di Benevento, nel quale sono però scomparsi elementi tipici dell’antica liturgia locale, quali le tre letture (compaiono solo per le Domeniche dopo Pentecoste) e l’oratio post evangelium. I vangeli, a differenza delle epistole, conservano tracce del vetusto sistema beneventano. Quasi tutti i canti sono contrassegnati da neumi per il canto. Come libri beneventani il repertorio CLLA indica anche Breviari, Antifonari e i Rotoli pasquali con l’Exsultet miniato, corredati di una propria notazione musicale.
Unità e diversità rituale. I dati, spesso indizi, sull’antica liturgia nella penisola italica, testimoniano una fondamentale unità nella varietà di usi. Nessuna Chiesa, compresa l’ambrosiana, mirò ad avere un proprio rito, ma fu l’esperienza a maturare elementi che manifestarono una ritualità diversa dalla liturgia romana pur con essa imparentata, come è constatabile dalla comunanza di testi e usi. Il rito della messa a Roma e a Milano è simile rispetto al modo orientale. Il fatto che il Canone romano abbia paralleli nel De Sacramentis (IV, 21-22.26-27) di sant’Ambrogio, fa pensare che Roma e Milano conoscessero uno stesso testo-base, pensabile anche a Ravenna dal fatto che nei mosaici di san Vitale (sec. VI) sono raffigurati Abele, Abramo e Melchissedech, nominati nel Canone romano.
L’uso ambrosiano di lavare i piedi ai neofiti (non praticato a Roma ma in altre regioni sì: cf. De Sacramentis III, 1, 4-5) forse non era sconosciuto a Ravenna se nei mosaici del battistero neoniano (sec. V) è iscritto il versetto giovanneo della lavanda dei piedi. Un’omelia di Cromazio lo attesta come rito pre-battesimale per Aquileia, confermato dal Codex Rehdigeranus. Per l’anno liturgico, la comparazione delle letture bibliche in dati giorni e tempi permette di distinguere gli usi propri da quelli comuni ad aree cultuali. Il culto dei Santi locali è spesso coniugato al ricordo dei Santi di altre Chiese, segno di comunione ecclesiale.
Fonti e Bibl. essenziale
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