Liberalismo – vol. II

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    Autore: Gennaro Cassiani

    Il confronto tra Chiesa e liberalismo, nel corso del trentennio che seguì il compimento dell’unificazione nazionale, si rispecchia nella formula «Non expedit», che contrassegna la lunga stagione dell’astensionismo cattolico rispetto alla partecipazione alle elezioni legislative e, per estensione, alla vita politica italiana, sino ai primi del Novecento. La formula trovava le sue motivazioni nell’illegittimità che i pontefici, almeno sino a Pio X, attribuirono allo Stato italiano, responsabile della conquista di Roma e della spoliazione del potere temporale pontificio.

    La stagione del «Non expedit» («Non expedit prohibitionem importat» – precisò il Sant’Uffizio, nel luglio del 1886) – coincise con la fase di incomunicabilità tra cultura liberale e cultura cattolica seguita a quella del conflitto, nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento.

    Le premesse dell’astensionismo cattolico sono rintracciabili già in occasione delle prime elezioni del Regno d’Italia (1861), quando don Giacomo Margotti, direttore del quotidiano «L’Armonia», si rese fautore di un’energica campagna giornalistica, al titolo Né eletti né elettori. L’astensionismo di ispirazione intransigentista esprimeva rigetto tanto verso il liberalismo cavouriano quanto rispetto alle posizioni democratiche mazziniane e garibaldine, rivendicando al contempo l’intangibilità del potere temporale pontificio e le prerogative della Chiesa misconosciute dalle leggi Siccardi (1850).

    La linea dell’astensionismo trovò la sua prima espressione ufficiale il 30 gennaio 1868, quando, replicando ai presuli piemontesi che chiedevano se fosse lecito per i credenti partecipare alle elezioni politiche, la Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari si pronunciò con la formula «Non expedit».

    Il 9 novembre 1870, in coincidenza con le elezioni politiche del successivo 5 dicembre, la Sacra Penitenzieria si espresse nello stesso modo. Il 10 settembre 1874, il dicastero pontificio ribadì il «Non expedit» in una comunicazione ai presuli italiani. Pio IX, in più occasioni, tra il 1874 e il 1877, riaffermò il medesimo concetto.

    Il pontificato di Leone XIII rappresentò il fondale di crescenti sentimenti anticlericali e, sull’altro versante, di atteggiamenti di rigida intransigenza cattolica. Sulla Questione romana, le posizioni delle parti restavano immutate. Dal punto di vista dei liberali, la legge delle Guarentigie (13 maggio 1871) aveva dato soluzione definitiva al problema. La prospettiva dei cattolici era invece ben altra: essi rivendicavano il ristabilimento del potere temporale, quale indispensabile garanzia del libero esercizio dell’autorità papale. Il «Non expedit» vaticano continuava, frattanto, a vegliare sul disimpegno politico dei cattolici, i quali trovavano i loro spazi di dibattito e di rappresentanza in organismi assembleari confluiti più tardi nell’Opera dei Congressi.

    Solo con l’avvio del nuovo secolo, in seno all’opinione pubblica cattolica e allo stesso corpo ecclesiastico, si fece strada una disposizione favorevole a una graduale distensione dei rapporti tra la Santa Sede e il governo liberale, per parte sua desideroso di allargare le basi sociali dello Stato, specie nel Mezzogiorno.

    Tra liberali e cattolici, malgrado le resistenze delle correnti radicali e massoniche fedeli al loro anticlericalismo identitario e quelle residuali dei cattolici più conservatori, prese avvio un processo di reciproco avvicinamento. Nel quadro di questa dinamica, favorita dall’allentamento del vincolo del «Non expedit», maturarono le prime intese elettorali tra liberali moderati e clerico-moderati. Al contempo, si fecero strada le istanze del movimento democratico-cristiano guidato da Romolo Murri che, marcando le distanze dalle strategie elettorali del clerico-moderatismo, aspirava a partecipare alla vita civile nazionale attraverso un partito autonomo. Si pensi al discorso di Sturzo, nel 1905, a Caltagirone, nel quale il sacerdote siciliano, compagno di cordata di Murri, tracciò con formule chiare il profilo di una formazione politica laica, aconfessionale, ispirata ai valori del cristianesimo, che accettasse l’unità del Paese rigettando le pregiudiziali temporalistiche. Un partito altresì fautore della larga autonomia degli enti locali (i comuni, le provincie, le regioni) in un Stato aperto alle esigenze del mondo del lavoro.

    I tempi, però, non erano ancora maturi. Dinanzi alla conquista della maggioranza dei consensi nell’Opera dei Congressi da parte del gruppo democratico-cristiano, la reazione di Pio X fu severa. Il pontefice deliberò lo scioglimento dell’assemblea (1904). A seguire, mediante il decreto Lamentabili sane exitu (3 luglio 1907), condannò 65 posizioni moderniste. Infine, pronunciò la condanna del modernismo stesso affidata all’enciclica Pascendi (1907) e, nel 1910, impose al clero un giuramento antimodernista.

    La Santa Sede guardava con apprensione anche al crescente ampliamento dei favori riscossi dal movimento socialista. Ma non erano solo i vertici della Chiesa a considerare siffatto fenomeno con sensibile preoccupazione. Non meno vigile e circospetta si mostrava infatti la classe dirigente liberale alla guida del Paese, pronta a considerare con favore un’alleanza elettorale con i cattolici in funzione anti-socialista. In questo contesto, segnato dalla crisi modernista e dall’avanzata dell’ala massimalista del movimento operaio di concerto all’esplosione anche Italia della questione sociale, maturarono, nel 1904, nel 1909 e nel 1913, i primi esperimenti di alleanza elettorale tra le forze liberali moderate, in maggioranza giolittiane, e quelle del già menzionato clerico-moderatismo, organizzato nell’Unione elettorale cattolica italiana succeduta all’Opera dei Congressi.

    Nel 1904, nel quadro dell’avvio del processo di “conciliazione silenziosa” culminato un decennio più tardi con il Patto Gentiloni, i cattolici parteciparono alle elezioni politiche prestando sostegno ai candidati liberali moderati. Si trattò di una prima parziale frattura del «Non expedit», autorizzata dallo stesso Pio X, ispirata principalmente dal timore di un successo elettorale socialista dopo lo sciopero generale degli anarco-sindacalisti, i cosiddetti “cinque giorni di follia” che avevano scosso la borghesia italiana.

    Persuaso che la maggioranza moderata del Paese avrebbe punito la frangia estrema dello schieramento socialista e interessato a favorire le alleanze tra clericali conservatori e liberali moderati allo scopo di disorganizzare il movimento cattolico, Giolitti, pur senza concedere nulla ai cattolici (e tanto meno, in seguito, riconoscerne il ruolo politico), stipulò un accordo in base al quale i clerico-moderati avrebbero favorito col loro voto i candidati liberali dichiaratisi pronti a negare il sostegno ai futuri provvedimenti legislativi in contrasto con gli interessi del clero. L’alleanza trovò la sua sintesi nella formula «Deputati cattolici no, cattolici deputati sì». E lo stesso Pio X si mostrò favorevole all’intesa, cogliendovi un argine al socialismo e un male minore rispetto prospettiva della nascita di una formazione cattolica-democratica.

    Per la prima volta, nel 1904, entrarono alla Camera deputati cattolici (o meglio cattolici deputati). Vi accedettero a titolo personale, senza appartenere ad un raggruppamento politico. L’anno successivo, mediante l’enciclica Fermo proposito, Pio X, pur senza abrogare il «Non expedit», ne allentò ufficialmente le restrizioni. Il papa entrò nel merito della disciplina dell’azione dei cattolici: li indirizzò verso l’analisi dei problemi sociali e li dispensò dal categorico divieto di partecipazione alla vita politica della nazione, invitandoli a prepararsi mediante una buona organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei comuni e dei consigli provinciali.

    All’indomani dell’impresa coloniale in Libia, le difficoltà del governo con i socialisti riformisti di Turati spinsero Giolitti a ricercare una nuova intesa con i cattolici in vista della consultazione elettorale che, prevista per il novembre del 1913, con il nuovo sistema a suffragio universale maschile, sollevava problemi di natura politica del tutto nuovi. L’ingresso delle masse nella vita civile rompeva la vecchia prassi elettorale ristretta a gruppi ben identificabili: i rodati sistemi del clientelismo giolittiano non garantivano più la loro efficacia. La Chiesa, d’altra parte, si poneva il problema della partecipazione alle urne di ingenti masse cattoliche, specie delle plebi rurali del Mezzogiorno. Quell’elettorato andava indirizzato, aiutato a trovare quell’unità di intendimenti e di azione alla quale la Santa Sede teneva molto. Da questa convergenza di esigenze, trasse origine l’idea del Patto Gentiloni, dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana, conte Ottorino Gentiloni.

    L’accordo siglato comprendeva sette punti programmatici che ogni candidato desideroso del voto dei cattolici doveva sottoscrivere. L’eptalogo includeva, tra l’altro, la difesa della libertà della scuola, dell’istruzione religiosa, dell’unità della famiglia (contro il divorzio), il riconoscimento giuridico delle organizzazioni economiche e sociali cattoliche, la riforma tributaria e giudiziaria.

    Il Patto ebbe successo. Le elezioni politiche siglarono una schiacciante vittoria dei liberali, della quale trassero vantaggio soprattutto i canditati moderati e giolittiani, in larga misura eletti proprio grazie al voto cattolico.

    Antonio Gramsci poté scrivere che, con il Patto Gentiloni, Giolitti aveva “cambiato spalla al suo fucile”, sostituendo all’alleanza con i socialisti quella con i cattolici. Altri osservarono che il Patto aveva rappresentato una sorta di “andata Canossa dei liberali”, costretti all’aiuto dei clericali. E se Giolitti replicò negando ogni suo diretto intervento nell’operazione elettorale ed escluse che fossero stati stretti accordi tra governo e Vaticano, i socialisti lo incalzarono invitandolo a svelare quali concessioni il governo avrebbe largito ai cattolici in contropartita al soccorso prestatogli. Lo statista piemontese non poteva e né intendeva concedere nulla. L’Italia giolittiana era ormai in crisi. Giolitti non riusciva più a fronteggiare le emergenze e la radicalizzazione della lotta politica, mentre, a sinistra, subiva le pressioni di un socialismo sempre più determinato e meno aperto a possibili combinazioni riformiste e, da destra, quella dell’opposizione conservatrice, che trovava alleati presso i nazionalisti.

    Nel 1919, Benedetto XV abrogò definitivamente il «Non expedit», nei fatti, già da tempo estinto. Ciò consentì la nascita del Partito popolare italiano, un quindicennio prima vagheggiato da Sturzo come formazione autonoma, tutrice delle aspirazioni socio-politiche dei cattolici e non avvilita nella subalternità alle forze liberali.

    L’avvento della formazione politica, mentre conferì alle masse cattoliche una propria fisionomia politica, siglò il definitivo congedo della tradizione dei blocchi clerico-moderati dei quali Giolitti si era avvantaggiato per sostenere la sua politica di riforme. Frattanto, la Questione romana rimaneva un nodo irrisolto: la conciliazione tra lo Stato liberale e la Santa Sede, compiuta sul piano civile e matura in seno alle coscienze, mancava ancora di un riconoscimento giuridico.

    Nel 1919, a Parigi, nel corso della conferenza di pace al termine del primo conflitto mondiale, si ebbe un colloquio tra il diplomatico pontificio, segretario della Congregazione degli affari ecclesiastici, monsignor Bonaventura Cerretti e il presidente del consiglio italiano Orlando. L’opposizione a qualunque trattativa con la Chiesa da parte di Vittorio Emanuele III – sollecito a minacciare l’abdicazione qualora si fosse abbandonata la legge delle Guarentigie – decretò il naufragio dell’iniziativa.

    Quanto non riuscì al ceto di governo dello Stato liberale prossimo al collasso, riuscirà invece al regime fascista di Benito Mussolini.

    Dopo le prime trattative ufficiose tra il decano degli avvocati della Sacra Rota Francesco Pacelli e il giurista Domenico Barone, al quale successe lo stesso Mussolini spalleggiato dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, tra il 1927 e il 1928, ebbero avvio i colloqui ufficiali. Questi ultimi, in più circostanze, furono in procinto di arrestarsi a causa delle pretese di parte fascista, ma l’intransigenza di Pio XI indusse Mussolini a delle concessioni. Al termine delle laboriose discussioni seguite alle istanze avanzate della Santa Sede (costituzione di un autentico Stato vaticano, compensi finanziari, concordato), l’11 febbraio 1929, si giunse alla firma dei Patti tra il cardinale Gasparri e Mussolini, nel palazzo Laterano. Gli accordi raggiunti segnavano l’epilogo della controversia risorgimentale: la tappa finale di un lungo e lento percorso di composizione della frattura tra Stato e Chiesa prodottasi con la nascita dell’Italia unita.

    In base ai Patti, la città del Vaticano fu riconosciuta come Stato indipendente. Venne anche stipulato un concordato che riconosceva validità civile al matrimonio religioso; introduceva nella scuola l’insegnamento della religione cattolica; negava pieni diritti civili ai sacerdoti apostati o colpiti da censura. Furono inoltre aboliti l’exequatur ecclesiastico e il placet regio per la nomina dei vescovi. Prima di prendere possesso della loro sede, tuttavia, i vescovi dovevano prestare giuramento di fedeltà allo Stato.

    Il suggello alla riconciliazione tra la Chiesa e la concezione liberale dei diritti umani avverrà mediante la dichiarazione del Concilio Vaticano II Dignitatis humanae (1965), sulla libertà religiosa. Ancor prima, Giovanni XXIII, nella Pacem in terris (1963), aveva enunciato in modo esplicito quegli inviolabili diritti quali imprescindibile riferimento del magistero della Chiesa.

    Fonti e Bibl. essenziale

    Oltre ai riferimenti che corredano il lemma Liberalismo inscritto nel I vol. del presente Dizionario, si segnalano con ulteriori richiami: F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma, 1953; G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Firenze, 1954; Id., Giolitti e i cattolici (1901-1914). Con documenti inediti¸ Firenze, 1960; F. Pacelli, Diario della Conciliazione. Con verbali e appendice di documenti, a cura di M. Maccarrone, Città del Vaticano, 1959; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, 1958; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna, 1961; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino, 1965; G. Verucci, I cattolici e il liberalismo. Dalle «amicizie cristiane» al modernismo. Ricerche e note critiche, Padova, Liviana, 1966; Id., Il movimento cattolico italiano. Dalla Restaurazione al primo dopoguerra, Messina-Firenze, 1977; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, I, Bari, 1966; C. Marongiu Buonaiuti, Non expedit. Storia di una politica (1866-1919), Milano, 1971; T. Tomasi, L’idea laica nell’Italia contemporanea (1870-1970), Firenze, 1971; Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa (La Mendola, 31 agosto – 5 settembre 1971), Milano, 1973, 4 voll.; C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948, Bari, 1974; M. Di Lalla, Storia del liberalismo italiano. Dal Risorgimento al fascismo, Bologna, 1976; R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, 1979; P. Bellu, I cattolici alle urne. Chiesa e partecipazione politica in Italia dall’Unità al Patto Gentiloni, Cagliari, 1977; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino, 1993, pp. 72-106 (§ 2.- Cristianità e questione sociale. Da Pio IX a Leone XIII); Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari, 1995; G. Sabbatucci – V. Vidotto, Storia d’Italia, III: Liberalismo e democrazia. 1887-1914, Roma Bari, 1995; C. M Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e le soppressioni delle Corporazioni religiose, Roma, 1996; Id., La Questione romana intorno al 1870. Studi e documenti, Roma, 1997; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Bologna, 1998; F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale, Roma-Bari, 1999; F. Jankowiak, La curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1846-1914), Roma, 2007; A. Monticone, Benedetto XV e il Non expedit, in Democrazia e coscienza religiosa nella storia del Novecento. Studi in onore di Francesco Malgeri, a cura di A. D’Angelo – P. Trionfini – R.P. Violi, Roma, 2010, 13-38; I cattolici che hanno fatto l’Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia, a cura di L. Scaraffia, Torino, 2011; S. Marotta, Il Non expedit, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato (1861-2011), a cura di A. Melloni, I, Roma, 2011, 215-235.


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