Sessualità – vol. I

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    Autore: Margherita Pelaja

    Per tentare di dare ordine a una riflessione sul tema della sessualità possono essere usati due termini: “parità” e “gerarchia”. Solo apparentemente contrapposti e lontani dal tema specifico, essi si intrecciano sempre fra di loro secondo relazioni complesse, mentre l’uno o l’altro acquista intensità e occupa di volta in volta il centro della scena in epoche diverse, permettendo così di proporre periodizzazioni, di suggerire grumi di senso.

    Non si tratta qui infatti di comporre una narrazione lineare, incapace per sua natura di rendere conto sia pure in estrema sintesi di un cammino lunghissimo e tortuoso, fatto di elaborazioni e di esperienze contrastanti disseminate su territori e contesti i più diversi tra di loro. Né si tratta di guardare alla sessualità come luogo teologico, puro oggetto di dispute dottrinali. Si tratta piuttosto di osservare la declinazione storica e politica che alcuni enunciati hanno avuto nel corso dei secoli nella storia della Chiesa ma anche nella quotidianità dei vissuti dei fedeli.

    Il primo termine dunque è “parità”, e ha portato una rivoluzione culturale nelle concezioni del mondo antico. Parità tra anima e corpo, prima di tutto: culture e filosofie precristiane ascrivevano il corpo – e con esso l’istinto sessuale – alla sfera della natura; lo separavano in un dualismo irriducibile dalla dimensione spirituale e intellettuale per farne di volta in volta luogo immondo di pulsioni da soffocare o centro di forze cui abbandonarsi in tutta innocenza, perché parte di una fisiologia separata dalla morale e dalla religione. Il cristianesimo sovverte tutto: nelle lettere di Paolo il corpo risplende della stessa luce che aveva fatto risorgere il corpo di Cristo dalla tomba, è «tempio dello Spirito santo». Non più terreno neutrale della natura, con l’Incarnazione il corpo diventa parte integrante della persona umana, inscindibile dallo spirito.

    Il dualismo così limpidamente abolito torna tuttavia, e subito, in una nuova antitesi: impulsi e desideri capaci di trascinare ognuno nel peccato e nella perdizione risiedono infatti, nella visione paolina e poi in tutti i testi cristiani, non nel corpo ma nella “carne”. La carne è una forza possente, ribelle a Dio attraverso mollezze e tentazioni ben più pericolose degli istinti naturali del corpo; quella che Agostino chiamerà concupiscenza è il vizio della carne che desidera “contro” lo spirito, alla ricerca di un piacere fine a sé stesso e attratto dal peccato. La lotta tra spirito e carne trasforma così il corpo in uno strumento di salvezza, e dunque in luogo d’ordine e di esercizio della volontà e della disciplina: la parità tra anima e corpo ha implicazioni profonde nella vita di ogni cristiano e ancor più profondamente ambigue nella sua percezione della sessualità. L’enfasi posta sul dominio di sé e sul controllo degli impulsi sessuali propone subito infatti slittamenti di senso, suggerisce scelte economiche convenienti: «con l’astinenza – scrive Tertulliano nel De Anima (9, 4) – si può acquisire moltissima santità: risparmiando nella carne si può investire nello spirito». La scelta e l’esercizio della castità come vittoria definitiva sulla concupiscenza sarà letta nel corso dei secoli come la via più nobile e certa verso la salvezza, fino ad accreditare una visione che denigra anche la sessualità più continente e apre la strada all’affermazione del binomio cristianesimo/sessuofobia.

    C’è un’altra parità, altrettanto controversa, alle fondamenta del cristianesimo: quella tra uomo e donna. «Ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito», scrive Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Uguaglianza e reciprocità sono posti alla base dell’unione coniugale cristiana lungo un percorso che dalle coppie che nei primi secoli vivevano in ascesi nei Luoghi Santi, passa a porre la copula come condizione indispensabile all’esistenza stessa del legame coniugale; poi a elaborare tecniche amatorie efficaci perché entrambi i coniugi raggiungano il piacere, giungendo infine a tollerare la sessualità prematrimoniale come strumento per raggiungere le nozze.

    Questo percorso è lungo e tortuoso: i teologi dell’antichità e del medioevo accettavano l’unione coniugale esclusivamente come remedium concupiscientiae e discutevano se la copula tra moglie e marito fosse da considerare almeno peccato veniale, dato che il piacere fisico ha la capacità di obnubilare, sia pure per pochi istanti, la vigilanza della coscienza cristiana. Dopo la codificazione del matrimonio varata dal Concilio di Trento invece si diffondono trattati che rovesciano questo punto di vista: rifacendosi alle teorie ippocratiche che ritenevano l’orgasmo sia maschile che femminile indispensabile alla procreazione, i più autorevoli teologi morali seicenteschi raccomandano eccitazioni, fantasie, toccamenti affinché moglie e marito godano pienamente e legittimamente dei piaceri dell’amplesso. Ogni preliminare e ogni posizione sono esaminati con tolleranza per garantire ai coniugi la reciprocità della soddisfazione e del possesso.

    Naturalmente, in questa come in altre teorizzazioni, non si tratta soltanto di elaborare norme morali sulla sessualità coniugale: si tratta piuttosto di accentuare la distinzione tra la castità del clero e la quotidianità sessuata dei laici, e soprattutto di frastagliare i confini tra lecito e illecito, di sfumare l’assoluto delle norme universali per consegnare ogni esperienza alla responsabilità del singolo e all’autorità dei confessori.

    La copula acquista così luci e qualità inedite rispetto al rigore della Chiesa medievale: l’unione della carne e la commistione del sangue generano un vincolo indissolubile che nell’ordine del popolo dei fedeli post-tridentini “deve” diventare matrimonio. In nome di questo obiettivo prioritario i prelati che amministrano la giustizia ecclesiastica sono pronti allora ad accantonare canoni e castighi per privilegiare l’opportunità di sanare singoli e scandalosi disordini. Comincia a configurarsi così una delle gerarchie che ispirano il governo delle anime per tutta l’età moderna: in cima alla scala degli eventi desiderabili nella vita dei fedeli c’è il matrimonio, mentre alla sommità di quella delle situazioni esecrabili per la comunità cattolica c’è lo scandalo. «A retto fine di matrimonio» e per evitare scandali maggiori saranno concesse dispense matrimoniali anche da impedimenti dirimenti – disparità di ceto sociale o di culto, adulterio con promessa di sposarsi alla morte del coniuge, parentela – purché forzati dalla consumazione di un amplesso più potente delle leggi canoniche. Dopo alcuni decenni di rigore – necessari a far penetrare nella coscienza collettiva l’obbligo di seguire i dettati tridentini nella celebrazione delle nozze – verranno aiutati i concubini che saranno stati capaci di convincere parenti e vicinato di essere davvero marito e moglie: la pena loro comminata sarà fino a tutto l’Ottocento nozze rapide ed economiche, celebrate a spese del Tribunale ecclesiastico risparmiando sui costi dei certificati necessari e ottenendo l’esonero da quelli difficili da reperire. Quanto poi alla seduzione, a quegli amplessi strappati con lusinghe o concessi con lucido calcolo, basterà dichiarare concordemente che gli impulsi della carne hanno solo preceduto gli onesti intenti nuziali, oppure denunciare al parroco un seduttore riottoso per ottenere una “condanna” che imponga il bene supremo del matrimonio ed eviti il male contagioso dello scandalo.

    Altre gerarchie vengono poi a disporsi lungo la scala del lecito e dell’illecito nel governo delle anime e dei corpi dei fedeli: sono le gerarchie che riguardano gli impulsi irrefrenabili, le inclinazioni perverse, le resistenze poste dalla carne alla disciplina che ogni cristiano deve esercitare sul desiderio sessuale. Perché i peccati, anche all’interno del vizio capitale della lussuria, non sono tutti uguali: ognuno occupa un suo spazio specifico, ognuno è al centro di valutazioni e negoziazioni che declinano di volta in volta gli enunciati universali del bene e del male.

    Alla sommità della graduatoria della colpa c’è il peccato più inatteso, quello cui nessun cristiano – neanche il monaco più santo – riesce a sfuggire: la dissipazione del seme. Lo sperma possiede la potenza generativa, che fa dell’uomo lo strumento del divino nel donare la vita: assicura quindi la legittimità dell’ordine paterno ma al tempo stesso è associato al disordine di emissioni involontarie e incontrollate, legandosi strettamente alla grande questione teologica del libero arbitrio e dei suoi confini. Per tutto il medioevo la polluzione fu ritenuta rischio e tentazione del clero, impegnato in battaglie feroci contro fantasie e abbandoni notturni; con il passare dei secoli poi nella riflessione di monaci e teologi fu progressivamente estesa a tutti i celibi; infine, a partire dal Quattrocento, a tutti gli uomini e a tutte le donne, stabilendo una sorta di identificazione con la masturbazione. Così nei manuali dei confessori post-tridentini è proprio la labilità del confine tra masturbazione e polluzione a consentire di scomporre il peccato secondo prospettive variabili, di ricondurlo di volta in volta a un fallimento episodico e veniale del controllo sugli istinti oppure a un esecrando crimine contro natura, a un vizio innominabile generatore di altrettanto innominabili perversioni.

    Il “peccato nefando” che ne discende direttamente è infatti quello di sodomia. Peggiori degli omicidi (Giovanni Crisostomo), colpevoli di aver cacciato lo Spirito Santo dal tempio dell’anima (Pier Damiani), tanto abominevoli da suscitare disgusto perfino nei diavoli (Caterina da Siena), destinati alla corruzione del corpo prima che alla morte (Bernardino da Siena), i sodomiti hanno posto la Chiesa di fronte a contraddizioni paralizzanti: perché un rapporto carnale consapevolmente infecondo evidenzia un altrettanto consapevole abbandono alla lussuria ed esige dunque una punizione definitiva ed esemplare. Ma è qui che cominciano i problemi. Affinché sia comminata l’esclusione perenne dalla comunità dei cristiani, o sia addirittura richiesta – con due Costituzioni nel corso del Cinquecento – la collaborazione delle magistrature laiche per imporre supplizi e impiccagioni, è infatti necessario che la colpa sia accertata in tutta la sua pienezza: occorre provare la coscienza del peccato, la sua reiterazione perché non si tratti di una caduta occasionale, la sua consumazione completa e consenziente, il ruolo attivo o passivo sostenuto nella consumazione stessa, dato che solo per il dominante è prevista la consapevole emissione del seme. Magistrati, inquisitori e confessori rimangono in balia di denunce, ritrattazioni, sottigliezze giuridiche: così – in una visione che privilegiando la colpa dell’infertilità pone sullo stesso piano rapporti fra uomini, fra uomini e donne, fra uomini e fanciulli – proprio l’orrore del peccato nefando rende quasi impossibile il suo castigo.

    È insomma un misericordioso pragmatismo a ispirare nel lungo periodo la politica della Chiesa verso i fedeli colpevoli di comportamenti sessuali irregolari: gli assoluti delle condanne sono stemperati in valutazioni e negoziazioni su casi particolari e su specifiche attenuanti, per giungere infine a proporre pene miti, perdoni condizionati. Perché l’obiettivo perseguito non è tanto la difesa dell’ordine morale e familiare, quanto la penetrazione nelle coscienze del senso del peccato e della colpa come vissuto perenne del cristiano, premessa irrinunciabile alla sottomissione e all’obbedienza.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO