Spiritualità – vol. I

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    Autore: Guglielmo Cazzulani

    I primi secoli: vescovi, martiri e vergini. L’approdo del cristianesimo sulle rive della penisola fu pressoché istantaneo. Le principali città dell’Impero romano vantano il costituirsi di una comunità cristiana già in età apostolica. Roma non è la prima, ma è la più importante meta dei viaggi missionari descritti dagli Atti degli apostoli. Quando Paolo giunge nella città eterna, la narrazione si può arrestare. In quella casa presa a pigione, aperta a tutti, dove l’apostolo predica con franchezza e senza impedimento, c’è il primo seme cristiano gettato nel cuore dell’Impero (At 28, 30-31).

    Per lungo tempo l’Occidente non resterà, nelle vicende della Chiesa, che una remota terra di missione. Il cristianesimo degli inizi è tutto sbilanciato verso est. La Siria, l’Egitto, l’Anatolia, la prefettura romana di Giudea sono le centrali umane, teologiche, catechistiche e monastiche della nuova religione. Se il poeta latino Giovenale poteva fustigare la Roma “ingrecata”, lamentandosi di come l’Oronte rovesciasse le sue acque nel Tevere, la stessa cosa si può ripetere per il nuovo mondo ecclesiale. Roma, da un punto di vista missionario, è figlia d’Antiochia e di Gerusalemme.

    Sulle rive del Tevere si registrerà, però, uno dei più fruttuosi tentativi di sintesi della nuova fede. Perché, nella culla di Roma, il cristianesimo incontrerà il vero genio del civis romanus: il diritto. Il connubio non deve essere letto in termini puramente negativi, come se si trattasse di una profanazione. La Chiesa, incontrando il diritto, assume gli ampi orizzonti del mondo, la capacità di mediazione, il desiderio di rendere razionale la sua struttura. Non è un caso che, dei quattro dottori della Chiesa latina, il più occidentale di tutti sarà Ambrogio, buon funzionario romano, uomo intriso di cultura giuridica, battezzato poco prima di assurgere alla dignità episcopale, maestro, più d’ogni altro, nell’arte del governo.

    Ma cerchiamo di fare sintesi sui primi passi della Chiesa nella penisola italica. L’avventura spirituale degli esordi cristiani è segnata soprattutto dalla esuberanza di tre figure, che qui andiamo a descrivere: il vescovo, il martire e l’asceta. Anzitutto il vescovo. In Occidente è lui a calcare la scena. Il vescovo è il responsabile della comunità cristiana, l’architrave della sua concordia, l’uomo depositario del carisma. Sbaglieremmo se attribuissimo a lui un ruolo solo burocratico, funzionale al buon andamento della macchina ecclesiale. Nei primi secoli della storia cristiana il vescovo è, per dirla con Hans Urs von Balthasar, una “personalità totale”. Non si è ancora aperta quella faglia tra contenuto di fede e devozione che sarà invece caratteristica della Chiesa del secondo millennio. Il vescovo predica il contenuto di fede, recepito dagli apostoli, e quello stesso contenuto è motivo della sua preghiera. In lui sono depositate, come in un’unica stratificazione, intelligenza, santità di vita, prudenza. In avvenire non sarà sempre così.

    È in questo contesto che si collocano le vite dei primi papi e dei grandi vescovi dell’alba cristiana. L’Italia pullula di nomi ingombranti. Solo per citarne alcuni: Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Cromazio d’Aquileia, Ambrogio da Milano, Zeno di Verona. Le chiese venerano tuttora questi uomini avvolgendoli d’un alone di leggenda, e ponendoli a pietra angolare delle cattedrali che, di secolo in secolo, punteggeranno il suolo della penisola. I loro scritti lasciano intuire di quale stoffa fosse tessuta la loro santità. Al centro di tutto sta l’amore per Gesù Cristo, nucleo incandescente della vita cristiana. Questo legame col Nazareno è spesso vissuto come schermo all’arianesimo, eresia cui l’Occidente risulterà sempre un po’ incline. La predicazione morale non è argomento a sé stante: l’accrescimento delle virtù trae linfa dalla piena ortodossia.

    A livello pastorale, i vescovi combattono l’ignoranza e la superstizione. Desiderano che il processo di conversione delle loro città non sia epidermico, ma interiore. Guardano con un po’ di angustia alle campagne, ai villaggi dove dimorano ancora numerosi i pagani. Organizzano una missione a corto raggio in loro favore, perché Cristo possa essere conosciuto da tutti. Quando i barbari, superato il limes settentrionale, calano verso sud, guardano a questi avvenimenti con tristezza, ma non precipitano nella disperazione. Confidano che anche in questi eventi ostili vi possa essere racchiuso qualche aspetto misterioso del grande disegno di Dio. Sarà questa speranza, insieme alla buona tenuta dell’organizzazione ecclesiale, a far sì che i nuovi popoli venuti dalle terre di là dal Reno e dal Danubio intraprendano il cammino che li condurrà al fonte battesimale.

    La seconda figura ecclesiale dei primi secoli è quella del martire. In pochi decenni la parola greca “martyria”, che inizialmente vuol dire semplicemente “testimonianza”, conosce un’evoluzione semantica radicale, fino a diventare il termine tecnico per designare coloro che spargono il loro sangue per amore del vangelo. La diffusione del cristianesimo è trapuntata da eventi drammatici. Dell’esperienza del martirio Roma diventerà presto il grande epicentro. Paolo e Pietro abbracciano nella città eterna la morte. A Roma viene ucciso Ignazio di Antiochia: le sue lettere rimarranno nella memoria della Chiesa. La trafila dei martiri dei primi secoli è interminabile: Clemente, Giustino, Apollonio, Prudenziana, Prassede, Lorenzo, solo per citarne alcuni.

    L’elemento interessante di queste vicende dei martiri è che esse, nel volgere di pochi anni, usciranno dai libri di storia per entrare trionfalmente in quelli di spiritualità. Sulla possibilità del martirio i cristiani costruiranno impegnativi itinerari di formazione. Intuendo che, all’orizzonte ultimo del proprio cammino, vi può essere la totale identificazione con la vicenda di Cristo, tutta la vita del cristiano ne esce fortificata. Si predica che l’esistenza è un combattimento, da portare avanti sino alla fine, senza cedimenti. Tertulliano identificherà la figura del martire con quella di Cristo. Ignazio di Antiochia supplica i suoi fedeli perché non lo trattengano, ed egli possa offrire se stesso come olocausto. Nei racconti di martirio si crea quella sottile sovrapposizione di trame, per cui il supplizio del Maestro diventa il canovaccio letterario per descrivere la morte del discepolo. Poche altre opere incontrarono fortuna, nella Chiesa antica, quanto gli atti dei martiri. Per il momento si tratta di libercoli, ma non faticheranno a mutarsi in costruzioni letterarie ridondanti e pompose. Dalle utopie della comunità cristiana antica sgorgano copioni che solo parzialmente hanno a che fare con la storia. Il ricordo di un martire si fonde con elementi immaginifici e soprattutto con le credenze della nuova comunità religiosa. Appartengono al genere delle storie “poietiche”, che tengono un occhio sul passato, ma che soprattutto guardano al futuro, offrendo ai fedeli della giovane religione nuovi calchi di comportamento a cui ispirare la propria vita.

    La terza figura spirituale degli inizi è l’asceta. Molto prima della grande espansione monastica dei secoli V e VI, l’Occidente vede sorgere, per gemmazione spontanea, diversi cenobi, soprattutto femminili. Già nel II secolo le cronache attestano l’esistenza in Roma di circoli di vergini consacrate, che vivono un intenso legame spirituale con Gesù Cristo, e adottano uno stile di vita austero. Il loro numero doveva essere ragguardevole. Centinaia, forse migliaia.

    Solo a partire dal IV secolo questi gruppi di vergini consacrate entrano in più diretto contatto con le intuizioni del monachesimo egiziano, e ne subiscono l’influenza. Ma per lungo tempo sono una realtà sostanzialmente autonoma. Le corrispondenze di San Girolamo ci restituiscono uno spaccato di questo mondo. Roma concepisce una generazione di matrone, spesso provenienti da famiglie aristocratiche, che desiderano porre se stesse al servizio di Dio. La loro giornata è scandita dalla preghiera e dallo studio. Vivono sobriamente e aprono le loro case ai bisogni di tutti. Qualcosa di simile avviene, più o meno negli stessi anni, anche a Verona dove si costituiscono cenacoli di vergini. Ma si può citare anche l’esempio di Eusebio da Vercelli che riunì il clero della sua diocesi in piccoli focolari. Questi gruppi di cristiani ferventi saranno un faro per le loro chiese locali: si trasformeranno in centri d’irraggiamento spirituale. Chi entra in contatto con essi, ne esce fortificato. Queste forme, nella storia dell’osservanza religiosa, sono anche un esempio originale ed interessante: manifestano la possibilità di una consacrazione senza clausura, che porta ad un’immersione nel mondo e ad una condivisione della fatica di tutti gli uomini. Prime cellule attive nell’assistenza dei poveri, spesso diventeranno il supporto umano e spirituale della struttura pastorale della Chiesa.

    Ma sono esperienze di vita breve. Un nuovo mondo bussa alla porta. Di lì a poco il collasso dell’Impero romano metterà in crisi la struttura sociale che si era da lungo tempo sedimentata. E soprattutto dall’Oriente sta per arrivare una forza propulsiva del tutto nuova, animata da un dinamismo sconvolgente, che in breve farà terra bruciata, da un punto di vista spirituale, di tutte le forme religiose che gli si avvicinano. Si tratta del monachesimo.

    L’alto medioevo: l’affermazione del monachesimo. Il medioevo nasce dal difficoltoso connubio di due mondi che si erano a lungo combattuti: i latini, da una parte, creatori di quello sbalorditivo strumento amministrativo che fu l’Impero romano, e le popolazioni germaniche dall’altro, che da secoli stanziavano oltre i corsi dei grandi fiumi centroeuropei: il Reno, l’Elba, il Danubio. A partire dal V secolo, non senza preavvisi, qualcosa ruppe irrimediabilmente l’equilibrio tra questi due mondi ostili. È l’epoca delle invasioni barbariche, dapprima semplici incursioni di confine, poi migrazioni d’intere popolazioni, che calarono fin nel cuore dell’Impero, provocandone il crollo.

    L’incontro si rivelò presto essere uno scontro. Solo raramente i nuovi popoli invasori mirarono a un’assimilazione delle istituzioni e delle forme culturali presenti sul suolo italico. Il più delle volte agirono per annientamento. Normalmente gli storici dipingono a tinte fosche quest’epoca. Per l’Occidente è un tempo di vuoto istituzionale, di calo demografico, le città si spengono. La stessa Roma finisce con l’essere ridotta a un grumo di case.

    In questa situazione di crisi la Chiesa si trovò, suo malgrado, a essere l’unica erede della sapienza antica. Salvò il salvabile di quel mondo che fino a pochi decenni prima le procurava sofferenze, e abbracciò l’affascinante sfida rappresentata dai nuovi popoli entrati sullo scacchiere occidentale. Era destino che i due universi lontani dovessero pazientemente avvicinarsi, parlarsi, fino a concepire una nuova forma di integrazione. Sotto le ceneri dell’Impero romano, calda come la brace, covava l’idea d’Europa.

    Il grande anello di congiunzione tra i due mondi, capace di produrre una nuova civilizzazione dell’Italia e di tutto il continente, sarà un’istituzione che affonda le sue radici a Oriente e che troverà un’entusiastica accoglienza nelle terre dell’ovest: il monachesimo. La sua rilevanza è talmente evidente che qualche commentatore parla di “monasticizzazione” della Chiesa medievale. Intendiamoci: non mancano in quest’epoca figure di vescovi capaci di illuminare con il loro carisma la vita spirituale della Chiesa. Ma si ha l’impressione che il loro contributo sia solo un affluente secondario rispetto a quella che è la grande corrente del primo millennio: il monastero. Il grosso delle acque, anche da un punto di vista spirituale, passa tutto di lì.

    La mappatura del fenomeno monastico non è semplice, anche perché, nonostante le apparenze, esso non è per nulla monolitico. Dietro la parola “monachesimo” si celano infatti intuizioni ed esperienze diverse. È, poi, un fenomeno mutevole. L’istituzione monastica ha dimostrato, lungo i secoli, una vitalità eccezionale: ha mutato forme, ha operato continue correzioni di rotta, ha integrato nuove intuizioni. Data per morta, è continuamente risorta dalle sue ceneri, riformulando la radicalità degli inizi in contesti del tutto nuovi. Di questa vicenda citiamo solo gli episodi più significativi.

    Il primo nome da citare è Giovanni Cassiano. Uomo vagabondo, nato in Dacia, compie, nel corso della sua esistenza, un buon periplo del Mediterraneo, tramandando alla fine, nelle terre di Provenza, il fuoco monastico che aveva conosciuto nelle regioni d’Oriente. Le sue opere traducono per i latini le intuizioni e le imprese dei padri del deserto. Rappresenteranno la base ideologica di cui l’ascetismo nostrano avvertiva prepotente il bisogno. I monasteri italiani cominciano così a rimasticare di psicologia, di introspezione, di discernimento degli spiriti. Questo patrimonio si accrescerà, anche se non di molto, sotto la penna nei monaci latini. Si ha infatti l’impressione che il monachesimo occidentale, in queste dottrine così impegnative, non riesca a spingersi molto oltre quel limite cui erano giunti i monaci d’Oriente. Vi aggiungerà le poche cose di cui era veramente esperto: un po’ di moderazione, e un acuto senso pratico.

    L’unico virgulto pienamente occidentale del nuovo cammino ascetico avvizzì, ahimè, poco dopo il suo nascere. Episodio storico breve, ma denso di contenuti, val la pena essere richiamato. Il suo ispiratore fu un uomo capace di rappresentare da solo un’intera generazione: Flavio Magno Aurelio Cassiodoro. Fu lui a fondare, nell’odierna Calabria, il celebre Vivarium. Distante dalla scena del mondo, estraneo alla politica, Vivarium sarà una delle istituzioni che meglio immagineranno la fisionomia del nuovo mondo. Cassiodoro raccoglie attorno a sé un gruppo di monaci provenienti da paesi diversi, con loro prega, attingendo parole dal Salterio. Si adopera perché non vada disperso l’immenso patrimonio della cultura classica. Il suo monastero è votato a un lavoro di natura soprattutto intellettuale. Si trascrivono manoscritti antichi, religiosi o pagani che siano. È sorretto dalla convinzione che nessun fremito d’intelligenza, per quanto profano, sia lontano dalla fede. Animo riconciliatore, come buona parte del monachesimo occidentale, Cassiodoro crede che la fede in Gesù non annienti nulla, ma inveri ogni autentica ricerca dell’uomo.

    Tralasciando le esperienze basiliane del sud Italia, veniamo al grande protagonista del monachesimo medievale: Benedetto da Norcia. Le tappe salienti della sua vita sono descritte nei Dialoghi di Gregorio Magno. Vissuto a cavallo tra il V e VI secolo, ha regalato alla Chiesa uno strumento di formidabile importanza: la Regola. Come risaputo, tale strumento non è del tutto nuovo. Nei primi secoli monastici molti si erano cimentati nell’impresa di offrire un trattato giuridico e spirituale che facesse da riferimento. Molti di questi testi erano più che apprezzabili. Benedetto legge e sperimenta gli strumenti fino ad allora in uso, e partendo dalla sua vicenda personale cerca di fare sintesi. Ne uscirà un testo breve, sobrio, improntato a moderazione, che diventerà fondamentale per il futuro del monachesimo.

    La Regola di Benedetto brilla per alcune semplici scelte. Il monastero viene presentato come una scuola dove si apprende il servizio di Dio. La vita spirituale del cristiano è scandita dalle due fonti insostituibili della fede: la liturgia e la Parola. C’è un primato dell’oggettività cristiana che si manifesta fin dall’incipit della Regola: “Ascolta, figlio mio!”. Nutrito da questi alimenti, il monaco intraprende il suo cammino di ricerca e di adesione a Dio. Tutto è pervaso da un forte afflato spirituale, e Cristo è la ragione ultima di ogni ascesi. Il monastero diventa così luogo di crescita interiore e di solidarietà. All’abate è affidato il compito di vigilare sulla vita comunitaria, di rincuorare i pusillanimi, di correggere gli indisciplinati, di accostare tutti con tenerezza. Nella vita spirituale rientra anche la pratica del lavoro. Se la preghiera del monaco è fervente, il lavoro quotidiano non lo avvilirà. Benedetto raccomanda di affaticarsi sotto la potente mano di Dio, e non per una forma di compensazione interiore. L’ora et labora insegnerà alla civiltà occidentale a mettere un freno all’inquietudine, a cercare un equilibrio interiore che possa far da base a ogni impresa. La diffusione della Regola non è immediata, ma sarà comunque totale. Riuscirà a scalzare, per esempio, la regola dei monaci irlandesi che erano allignati a Bobbio, sulle montagne del piacentino, sostituendola in toto. Eppure si trattava di una delle più importanti normative dei primi secoli, un testo d’avanguardia che aveva sorretto la ri-evangelizzazione dell’Occidente.

    L’epoca carolingia, in quest’opera d’unificazione normativa della legislazione monastica, sarà la più propizia. Anche se sopravvivono altri ordini religiosi, distinti da quello benedettino, la Regola diventa il riferimento insostituibile della tradizione monastica occidentale. È come se s’imponesse un unico pentagramma, su cui poi ritmare qualsiasi nuova melodia. E di nuove melodie, dalla fantasia degli uomini e dello Spirito, ne sgorgheranno presto copiose. Esse, però, non metteranno più in discussione la Regola, che sembra ormai intoccabile nella sua autorevolezza, ma cercheranno di applicarla in modulazioni differenti, a seconda dei diversi contesti sociali in cui il fenomeno monastico si trova a sbocciare.

    La nazione che, in quest’ottica, manifesterà la più grande vitalità è senza dubbio la Gallia. Da lì prorompono i due grandi movimenti che caratterizzeranno l’Occidente posteriore: Cluny e Cîteaux. Le loro novità si spanderanno in Italia contribuendo a quella rinascita collettiva che si può riscontrare già a partire dal secolo XI. Cluny, con la sua difesa della libertà ecclesiale, sarà la grande ispiratrice della riforma gregoriana. Il movimento cistercense, con la sua attenzione alla persona, con la sua insistenza sul dovere lavorativo, con il suo nucleo mistico sempre palpitante, diventerà la forza capace di ri-colonizzare, sia da un punto di vista spirituale che economico, l’Europa.

    In Italia i centri protagonisti di quest’epopea sono numerosi: Novalesa, San Pietro in Civate, Fonte Avellana, Vallombrosa, Montevergine, Camaldoli, Serra san Bruno. Ma più che per le abbazie madri il rinnovamento religioso passa per quel pulviscolo di piccoli monasteri e di eremitaggi che copre per intero il territorio della penisola. Il monachesimo medievale ebbe una capillarità assimilabile a quella delle pievi. Le abbazie divengono così centri spirituali, economici e politici. Questa rilevanza sociale qualche volta produsse i suoi grattacapi e le sue crisi. Nati per inseguire l’ideale del deserto, i monasteri si trovarono spesso a dover fare i conti con quel vecchio mondo che li tallonava da vicino, e che qualche volta li marcava un po’ troppo stretti. Le riforme monastiche, frequentissime per tutto il corso del medioevo, nascono dall’esigenza di spogliarsi di troppi involucri, ormai ritenuti paralizzanti, e di riconquistare la grazia e l’agilità degli inizi.

    Sulla spiritualità altomedievale, fuori dalla saga dei monasteri, poco resta da dire. La cura spirituale nei confronti dei laici e del clero è minima. Permane l’idea che all’esterno del recinto monastico vi sia solo una umbra christianitatis. Probabilmente è anche vero. La gente semplice è divorata più dalla fregola del meraviglioso che dalla fede autentica. In tutto l’altomedioevo non s’incontrano laici devoti che reggano il paragone con i monaci. Bernardo di Chiaravalle, Pier Damiani sono scrittori assoluti, querce che non lasciano trapassare luce né respiro agli sparuti alberelli che crescono ai loro piedi. Tutti ne sono consapevoli, e perfino i vescovi, quando vogliono mettere mano alla decadenza umana e spirituale delle loro genti, non fanno altro che tentarne, in forme più o meno velate, una monasticizzazione.

    Ma c’è nostalgia d’altro, di un tempo migliore. Gioachino da Fiore, monaco dell’Italia meridionale, intuisce che il vecchio mondo sta ormai scricchiolando. Lo dirà in termini che rasentano l’eresia, e che qualche problema incontreranno con l’autorità ecclesiastica. Dal suo eremo, Gioachino sogna l’avvento non di una nuova obbedienza religiosa, più cristallina delle precedenti, l’utopia di un mondo totalmente retto dagli spirituali. Le sue previsioni non si avverarono, ma qualcosa di nuovo effettivamente di lì a poco vedrà la luce.

    La rinascita del secolo undicesimo. Dopo secoli di crisi, il basso medioevo vede una fiorentissima rinascita urbana. La superficie dell’Europa si ricopre di nuovi insediamenti umani. Tra le mura dei costituendi agglomerati la gente s’incontra, s’aggrega, discute, s’imbarca nella costruzione di ambiziosi edifici religiosi come le cattedrali. Nasce anche una nuova classe sociale, la borghesia, ben distinta dal clero e dagli aristocratici, abile e intraprendente, capace di accumulare in poco tempo enormi ricchezze. Di questo rinnovamento l’Italia sarà l’avanguardia.

    In questo contesto s’impone una nuova domanda spirituale. Se fino ad ora l’ideale di perfezione era appannaggio esclusivo di monaci, si registra ora una fioritura della radicalità evangelica che parte soprattutto dal basso, dal mondo dei laici. I segnali di risveglio sono più di uno. La gente comincia ad utilizzare nuovi strumenti di preghiera, diversi da quelli canonici. Sono le laudi, forme di orazione che rifiutano il linguaggio clericale per adottare il vernacolo. Ormai si sta frantumando in identità nazionali, anche da un punto di vista spirituale, un mondo che fino ad allora aveva percorso un sentiero comune. Ci sono poi le confraternite, aggregazioni laicali che testimoniano un modo di vivere la fede profondamente comunitario. Presto vi sarà il primo esempio di santità che nasce a margine del chiostro e dell’episcopio: si tratta di sant’Omobono, di professione mercante, patrono della città di Cremona.

    Questo risveglio evangelico, spesso vissuto in opposizione al ruolo del clero, prenderà un doppio binario, a seconda dell’esito che vorrà perseguire. Da una parte abbiamo la corrente contestataria, che sognerà l’edificazione di una Chiesa graniticamente pura. In questo filone possono essere annoverati diversi fenomeni, più o meno legati allo stesso progetto: la pataria, Arnaldo da Brescia, il catarismo… Il filo conduttore di questi movimenti è la lotta alla mondanità della curia, la predicazione popolaresca, lo spiritualismo, il rifiuto d’ogni seduzione secolare. Si tratta di una schiera di uomini integri, fautori di una Chiesa “popolo di eletti”, che però correrà sempre il rischio di distruggere le mediazioni della fede, in primis l’apparato sacramentale. Dall’altra parte avremo un cammino di riforma più prudente, meno illuministico, che si sposa con i passi lenti della Chiesa, che non coltiva forme di messianismo tanto pericolose quanto illusorie. Sarà la strada intrapresa soprattutto dal francescanesimo.

    Rampollo di una famiglia borghese, figlio dell’Italia dei comuni, Francesco d’Assisi è il genio spirituale che interpreta un’epoca. Al centro della sua spiritualità si asside “madonna Povertà”. Già i cistercensi seguivano poveri il Cristo povero, ma si ha l’impressione che sulle labbra di Francesco il programma assuma una coloritura prima sconosciuta. Nel nuovo contesto sociale, il pauperismo va di pari passo con il rifiuto di un mondo di avidi, consacrati all’altare del guadagno. Scegliere di perdere, anziché di lucrare, è la nuova forma della carità. Preghiera intensa, affezione spirituale, cristocentrismo, gioia e semplicità saranno i cardini del movimento francescano. Il genio del Poverello travalicherà il contesto religioso per lasciarci le prime composizioni in lingua italiana. Su tutte, campeggia il Cantico delle creature, preghiera sgorgata da un fervore profondo, che, da sola, terrà testa al pessimismo dei catari, capaci di leggere solo in modo negativo il mistero della creazione.

    Nasce così una forma monastica totalmente nuova. La stessa ubicazione dei conventi francescani apparirà singolare. Fuori dalla città, ma non troppo: il tempo sufficiente per raggiungerla con un breve tratto di cammino, e predicare in essa. La fuga mundi arretra di parecchi chilometri e bada a non recidere il legame con la società. Come argutamente ha osservato qualche studioso, dopo un monachesimo impegnato ad edificare un mondo parallelo, e dopo un’orda di focosi predicatori tesi a raddrizzare le storture della società, c’è finalmente una vita religiosa che ama il mondo. Qualche nome di frate particolarmente indicativo per i destini della penisola? Antonio da Padova, Bonaventura da Bagnoregio, Ubertino da Casale, Giacomo della Marca, Jacopone da Todi, Bernardino da Siena. Interessante sarebbe seguire anche la linea della mistica francescana, soprattutto femminile: qui svettano le figure di Angela da Foligno e di Margherita da Cortona. Anche Chiara di Montefalco, benché appartenente all’ordine agostiniano, può essere inclusa nella discendenza spirituale del Poverello.

    A lato del grande fiume francescano si devono annoverare diversi fenomeni interessanti. L’inquietudine del nuovo mondo trova il patronato di vivaci direttori spirituali ed è all’origine di diverse istituzioni. Ci sono fenomeni fugaci, movimenti incapaci di darsi un profilo istituzionale, come i flagellanti e i disciplinati. Ma ci sono anche nuove famiglie religiose, con una fisionomia riconosciuta, come gli Umiliati e l’Ordine dei servi di Maria.

    Un discorso a parte va fatto per i domenicani. Nati oltralpe, molto attivi nella lotta all’eresia catara, trovarono in Italia un terreno fertile di crescita, e alcune figure capaci d’illuminare con la loro personalità l’intera Chiesa. Citiamo Jacopo da Varagine, autore della Legenda aurea, lo scritto agiografico più diffuso per tutto il medioevo; Caterina da Siena, che coniuga la sua esperienza mistica con una partecipazione politica alle vicende del tempo; Girolamo Savonarola, guida dei piagnoni di Firenze; Tommaso d’Aquino, autore di quella sintesi monumentale di pensiero che è la Summa. A tal proposito, non si deve tacere un’importante novità di quest’epoca. Nel 1088 viene creata l’università di Bologna. A questa fondazione ne seguiranno rapidamente diverse altre. In breve, l’intero territorio europeo verrà punteggiato da centri intellettuali. Grande protagonista di quest’epoca pioneristica sarà la teologia scolastica. Nelle accademie s’impone un modo di ragionare e di pensare rigoroso, asciutto, anaffettivo. Nel bene e nel male, la scelta sarà gravida d’importanti conseguenze. Il chiostro e l’episcopio erano stati, fino ad ora, il grande utero d’ogni riflessione su Dio. La patristica e la teologia monastica avevano consegnato alla Chiesa delle opere capaci di integrare strettamente la speculazione teologica con l’afflato spirituale e la preoccupazione pastorale. Negli emicicli delle università, questo non avverrà più. La solidità di una costruzione scolastica si accompagnerà con la spoliazione delle sue pareti e con il poco spazio accordato all’emotività. Per gli spirituali sarà uno shock. Nelle quaestiones disputate dai dottori, troveranno sempre più difficilmente acqua per estinguere la loro sete. Per il momento non s’incrina quell’unità tra soggetto e oggetto di ricerca che è la base di ogni buona teologia. Ma le premesse sono poste. Di lì a poco si aprirà quella tensione tra teologia e mistica che caratterizza la Chiesa dei secoli successivi, fino a quando – ma la storia è recente – qualche autore contemporaneo cercherà di porvi rimedio.

    Umanesimo devoto. Dalla seconda metà del secolo XIV, cominciando da Firenze, e poi in tutta la penisola, s’impone un movimento di vita e di pensiero che desidera pervenire a una nuova sintesi. L’Italia è la terra natale del Rinascimento. In cosa consista questo movimento, e che finalità abbia, è difficile sintetizzarlo in poche battute. Normalmente lo si identifica con una nuova attenzione per l’uomo. Alla comunità si sostituisce il singolo; alla trascendenza, l’immanenza; all’escatologia, la storia. È un tempo in cui si riscopre, al di là della scolastica e della patristica, l’eredità greca e latina. Si torna ai classici: s’intravvede in essi una sapienza profonda, che chiede di essere integrata in un’ottica evangelica. Sbaglieremmo se interpretassimo questo fenomeno come una sorta di secolarizzazione ante litteram. L’umanesimo paganeggiante è, tutto sommato, una corrente minoritaria del grande Rinascimento italiano: laicismo radicale e ateismo sono fenomeni significativi solo a partire dal XVIII secolo. Ciò che si chiede, in quest’alba dell’epoca moderna, è di approdare a un nuovo schema, più vitale, diverso da quello elaborato dalla scolastica decadente.

    Il fenomeno ebbe i suoi riflessi nella spiritualità. Francesco Petrarca, Coluccio Salutati, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Maffeo Vegio, Vittorino da Feltre non furono uomini di settore, interessati solo alle lettere, o all’architettura, o alla filologia. Rappresentarono per l’Italia ciò che Erasmo da Rotterdam fu per l’intera Europa: dei geni completi. È in quest’epoca che si sogna l’avvento di una litterata devotio. Questi uomini di fede – qualche volta travagliata, ma il più delle volte serena – ascendono dalla sapienza antica per trasfigurare tutta la loro erudizione nell’universo evangelico. La filosofia morale dei greci e dei romani diventa la base su cui costruire il cristiano. Il vir bonus è la grande premessa per veder sbocciare il fidelis. Il progetto era già stato accarezzato dai grandi della scolastica, e verrà riproposto ancora infinite volte nel secolare travaglio del pensiero cristiano, ma qui, nel mondo degli umanisti, più che un’elucubrazione speculativa sembra essere un progetto pastorale, una vera missione. L’educazione dei giovani e l’impegno sociale diventano così doveri religiosi.

    Forse la loro fu una spiritualità più d’elite che di massa. La religiosità del popolo e del popolino aveva attraversato il medioevo senza subire grossi scossoni. Benché la storia recente avesse registrato il grande ingresso dei laici nel mondo delle passioni ecclesiali, il modo di pregare del volgo rimaneva, tutto sommato, immutato, da secoli a questa parte. Tra superstizione e religione il confine è labile. La fede è più viscerale che razionale; il numinoso avvolge l’essenza di ogni realtà; l’uomo avverte un profondo bisogno di stupore. Spesso non illuminate da una teologia equilibrata, tutte le pratiche di pietà dell’uomo medievale (pellegrinaggi, culto delle reliquie, devozione eucaristica) risentono dell’interferenza di un sottofondo distorto.

    Nei loro progetti di riforma gli umanisti devoti rimasero così isolati: una punta troppo avanzata rispetto al grosso della truppa; ma erano destinati ad aprire la breccia. Non si capirebbe il Barocco, la chiesa della Riforma e della Controriforma, senza questo trasalimento innovatore.

    La spiritualità della riforma cattolica. La riforma cattolica nasce molto prima del Concilio di Trento. Già sul finire del Quattrocento, attecchiscono sul suolo della penisola istituzioni profetiche, desiderose di provvedere a una riforma della vita ecclesiale. Queste istituzioni si moltiplicheranno di anno in anno, per autogenesi, e incontreranno nei decreti del Concilio un’entusiastica approvazione. Dall’assise tridentina uscirà una Chiesa dal volto rinnovato, zelante nel progetto di evangelizzazione delle masse, impegnata nell’apostolato e nella missione.

    Vescovi e preti saranno i grandi protagonisti di questa conversione. A pensarci, è una novità. Leggendo globalmente la storia della Chiesa, si ha infatti l’impressione che, dopo la grazia dei primi secoli, la strada maestra della spiritualità sia stata percorsa soprattutto da monaci e laici. Nella letteratura del basso medioevo non è difficile imbattersi in rampogne, spesso sarcastiche, indirizzate a vescovi e preti secolari. I primi troppo occupati da beghe terrene per assurgere a fari di vita spirituale; i secondi talmente impreparati al loro ministero da venir esclusi – nella Summa di san Tommaso – dal novero degli “stati di perfezione”. Una situazione drammatica e contraddittoria che venne affrontata con ritardo. A partire dal XV secolo qualcosa comunque cambiò: nasce la “Chiesa tridentina”.

    Nell’arco di pochi decenni Roma diventa il covo di una vasta famiglia di chierici regolari. Si tratta di preti che, con l’aiuto di un’istituzione riconosciuta, si sottopongono a una rigida regola di vita spirituale. Teatini, barnabiti, somaschi, camilliani, oratoriani, scolopi… per finire con i grandi protagonisti della Chiesa tridentina: i gesuiti. Le loro innovazioni disciplinari e spirituali diventeranno presto patrimonio di tutta la Chiesa. Nell’arco di qualche decennio esse si propagheranno soprattutto al gigante addormentato dell’organismo ecclesiale: il clero diocesano.

    Tenere un registro delle novità introdotte dai chierici regolari è impervio, vista la loro eterogeneità. Alcune caratteristiche comuni balzano però agli occhi. Si tratta di sacerdoti desiderosi di fede profonda; essa viene alimentata specialmente attraverso l’orazione mentale. Se è vero che la devotio moderna non riverbera in Italia gli stessi influssi che ebbe nel nord Europa, qualcosa della sua sensibilità s’irradia comunque anche al di qua delle Alpi. La preghiera si trasforma in meditazione, ahimè allentando di un poco il suo radicamento biblico. Al contrario, è tenacemente custodito il legame con l’eucaristia, che diventa la grande architrave su cui poggiare tutta la spiritualità cattolica. Le chiese barocche innalzano nel loro centro tabernacoli sublimi, come mai la cristianità ne ebbe avuti. In questi decenni nasce e si afferma la pratica delle quarantore.

    Si completa un percorso che s’era inaugurato con l’affermazione degli ordini mendicati: l’unione con Dio, più che essere il fine ultimo della vita cristiana, ne è il grande motore. Dal cuore che trabocca d’amore, nasce lo zelo per le anime. I libri di ascetica propagandano l’abnegazione quale virtù cristiana. Gli esiti di questo sommovimento spirituale diventeranno presto visibilissimi: premura per gli ammalati, fondazione di scuole, difesa dei poveri, protezione degli orfani, formazione del laicato, sostegno del clero. La santità si misura sulla scala di un apostolato generoso. Qualche nome degli artefici di quest’audace impresa? Filippo Neri, Gerolamo Emiliani, Luigi Gonzaga, Roberto Bellarmino, Antonia Maria Zaccaria, Camillo de Lellis, Giuseppe Calasanzio. Alcuni di questi giganti non sono di culla italiana, ma in Italia, e soprattutto a Roma, lasciano un segno indelebile del loro passaggio. Il Cinquecento ha regalato allo Stivale un’inattesa primavera di santi.

    Il Tridentino, come detto, trasmetterà le intuizioni di questi pionieri al clero secolare. Il protagonista di quest’operazione sarà Carlo Borromeo. È lui a plasmare la fisionomia del sacerdote dei secoli successivi e a imporla in larghi strati della penisola. La pagina del buon pastore diventa la linea guida della riforma ecclesiale. Dalla fucina dei seminari fuoriescono preti ansiosi, che si sentono sempre in difetto con se stessi, e soprattutto con il grande ideale che hanno accarezzato negli anni di formazione. Il buon parroco trema al pensiero della dannazione eterna. Sente il dovere di trascinare ogni anima a lui affidata alla salvezza. Predica, fonda scuole di dottrina cristiana, corregge i costumi deformi, sprona tutti a inginocchiarsi nel confessionale per chiedere perdono dei propri peccati. L’accompagnamento spirituale è curato meticolosamente. Tutti vengono edotti nella pratica del combattimento degli spiriti: l’autorità, in questo campo, è il sacerdote teatino Lorenzo Scupoli. C’è poi la grande frontiera della carità e dell’apostolato: poche altre istituzioni, come le parrocchie, si sono dimostrate nei secoli più pronte nel venire incontro ai bisogni dei poveri. Forse mancherà in Italia una scuola di spiritualità sacerdotale paragonabile a quella del Seicento francese. I riformatori cismontani hanno un’indole più pragmatica, meno avvezza a speculazioni. Nella formazione delle coscienze e nella pratica della pietà cristiana non faranno altro che appoggiarsi ai libri pii dell’età moderna, in primis agli Esercizi di Ignazio di Loyola.

    In quest’opera di rinnovamento spirituale i laici non rimasero esclusi. Anzi, si può leggere in diversi capitoli della storia moderna un certo loro protagonismo. È il caso della mistica Caterina da Genova e di Ettore Vernazza, fondatori e animatori dell’Oratorio del Divino Amore. Nelle loro vicende si può leggere una costante del secolo sedicesimo: l’esperienza mistica non vive racchiusa in una torre d’avorio, ma si sposa con l’impegno apostolico, spesso spinto fino al suo limite estremo. Lo stesso schema si replicherà, con le dovute proporzioni, in quel grande universo delle confraternite che, come il pulviscolo, occuperà tutti gli interstizi del mondo ecclesiale. La partecipazione dei laici alla vita della Chiesa è mediata da queste associazioni di fedeli, dove i partecipanti si obbligano ad alcune pratiche di pietà e all’assunzione di un servizio ecclesiale.

    Intanto la devozione dei cristiani prosegue lungo un sentiero ormai famigliare, con qualche piccola novità. La via crucis, il rosario, la devozione al Sacro Cuore, le già citate quarantore appartengono al panorama spirituale di tutte le parrocchie. Altre devozioni sono rilanciate: pellegrinaggi, culto dei martiri, di san Giuseppe, degli angeli. Spesso le comunità cristiane intraprendono un cammino collettivo di conversione attraverso le missioni al popolo. Leonardo da Porto Maurizio ne sarà, di lì a poco, il grande apostolo. S’impongono, poi, grazie alla recente invenzione della stampa, libretti pratici di devozione. Essi aiuteranno i fedeli più devoti a sostenere la meditazione. Una pietà intima e fervida riempie di bisbigli la penombra delle chiese, qualche volta rischiando di recidere il suo collegamento con la Parola e la liturgia. Di lì a qualche decennio, qualcuno lo lamenterà.

    Poco si è detto di alcune figure interessanti dell’epoca tridentina, della fondazione dei cappuccini e dell’opera del monaco Ludovico Barbo, dell’esperienza mistica di Caterina de’ Ricci e di Maddalena de’ Pazzi, ma il quadro è ormai completo. Il Cinquecento ha donato alla Chiesa una cornice spirituale e pastorale solida, che resisterà a lungo, e che non verrà cambiata nella sua sostanza se non con il concilio Vaticano II.

    Tra quietismo e giansenismo. Ne è prova un fatto. Il Seicento e il Settecento regaleranno all’Italia una schiera di ottimi scrittori e predicatori, ma ormai privi di originalità. Lorenzo da Brindisi, Tommaso da Olera, Carlo da Sezze, Paolo Segneri, Gregorio Barbarigo, Giovan Battista Scaramelli si muovono in un campo dai confini ben tracciati. Pochi si avventurano fuori di esso. Tra i pochi che tentano la sortita, citiamo il solo nome di un eruditissimo sacerdote modenese: Ludovico Antonio Muratori. Ma il suo è un caso isolato. Solo radi fenomeni riusciranno a turbare la tranquillità della Chiesa nei due secoli che conducono all’incendio della rivoluzione francese. Uno di questi sarà un’eresia tipicamente spirituale: il quietismo.

    Nato dalla predicazione di Miguel de Molinos, prete aragonese trapiantato a Roma, il quietismo incontrerà un terreno fertile soprattutto nei paesi di lingua latina. Forse perché bisognosi di una vita spirituale meno contorta, più attenta alla dimensione contemplativa che a quella ascetica, molti ne resteranno affascinati. In Italia circoli di simpatia quietista sono segnalati a Milano, in Valcamonica, in Piemonte, nelle Marche, in Umbria, in Sicilia. Nella schiera dei sostenitori segnaliamo figure di spicco, il paladino è il cardinal Pier Matteo Petrucci. Non entriamo nella questione storica della condanna del quietismo. Ciò che interessa è qui rilevare le conseguenze della censura imposta dall’autorità ecclesiastica su quest’ambiguo fenomeno. Lo scacco a questa corrente di pensiero allungò un’ombra sinistra sulle manifestazioni mistiche, soprattutto se spagnoleggianti. Comincia quello che H. Bremond e L. Cognet definirono come il crépuscule des mystiques. Dell’entusiasmo di questi uomini non ci si fida più. Nei decenni successivi la storia ne registrerà ancora qualche voce (per l’Italia citiamo almeno i nomi di Veronica Giuliani e di Paolo della Croce), ma, generalmente, essi sono guardati con sospetto. Il lato più festivo della vita cristiana è così represso. Si dovrà attendere la fine dell’Ottocento perché la mistica torni a essere liberata da lacci e sospetti. Se il quietismo verrà estirpato in tempi brevi, non altrettanto si può ripetere per un movimento che vide la luce nel Seicento e che perdurò per almeno due secoli: il giansenismo. Benché condannato dall’autorità ecclesiastica, esso rivelò una vitalità sorprendente. L’Europa si popola di crocifissi inquietanti, con le braccia strette e tese verso l’alto, quasi a rappresentare una visione tragica di Dio e dell’uomo. La centrale teologica del nuovo movimento è da collocarsi in Francia e nei Paesi Bassi. In Italia esso avrà una diffusione capillare. Più che una setta fu una tendenza, spesso accolta dagli uomini migliori. Il simpatizzante giansenista brama un ritorno della Chiesa alla purezza evangelica, abbraccia una morale austera, sorretta da una pietà intima. Aborrisce il formalismo. In Italia desiderò una riforma globale della Chiesa, una riforma destinata a transitare più dalla pastorale e dalla spiritualità che dal dogma. Gli editti del sinodo di Pistoia, in questo, sono eloquenti.

    A far da contraltare a questa tendenza si trovarono in Italia anzitutto i gesuiti e poi un mite vescovo del sud Italia: Alfonso Maria de’ Liguori. Soprattutto quest’ultimo preparò il mondo spirituale italiano a entrare nell’Ottocento. Al rigore e al pessimismo del pensiero giansenista Alfonso non contrappose il lassismo, ma una pietà semplice e luminosa, non angosciata, capace di spandere attorno a sé un’imperturbabile serenità. All’incirca metà della sua sterminata produzione letteraria riguarda tematiche di spiritualità. Saranno libri letti per almeno due secoli. La preghiera è collocata al centro dell’esperienza cristiana: attraverso di essa il cristiano ama Dio. Se l’uomo, a causa della sua natura creaturale, è un mendicante, non per questo deve disperare: Dio gli dona tutto ciò che chiede con umiltà. Alfonso insegna ad avere una cordialità quasi ingenua con i misteri della fede. Componendo il “Tu scendi dalle stelle” riscatta la pietà affettuosa e creativa delle anime semplici.

    Fonti e Bibl. essenziale

    AA.VV., Storia dei santi e della santità cristiana, I-XI, Grolier, Milano 1991; AA.VV., «Italie», DSp, VII, 2141-2311; AA.VV., Storia della spiritualità, I-VII, Borla, Roma 1985-2002; AA.VV., Storia della spiritualità, I-X, EDB, Bologna 1970-; G. De Luca, «Introduzione», Archivio Italiano per la Storia della Pietà, 1 (1951) XIII-LXXVI; G. Dumeige, «Storia della spiritualità», NDS, 1543-1571; P. Crespi – G.F. Poli, Lineamenti di storia della spiritualità e della vita cristiana, I-III, Edizioni Dehoniane, Roma 1998-2000; G. Filoramo (ed.), Storia della direzione spirituale, I-III, Morcelliana, Brescia 2006-2010; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, SEI, Torino 1996; P.L. Guiducci, Mihi vivere Christus est. Storia della spiritualità cristiana orientale e occidentale in età moderna e contemporanea, LAS, Roma 2011; G. Pozzi, Grammatica e retorica dei santi, Vita e Pensiero, Milano 1997; P. Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002.


    LEMMARIO