Autore: Carlo Fantappiè
Il termine giurisdizionalismo è di conio relativamente recente ed è tipicamente italiano come denominazione omnicomprensiva di quelle prerogative anteriormente chiamate «regia giurisdizione». Nel classificare i differenti sistemi di idee esposte alla Camera dei deputati per trovare una soluzione ai rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, Francesco Scaduto distinse il sistema clericale, cattolico-liberale, giurisdizionalista e radicale (Santa Sede, in Il digesto italiano, XXXI, Torino 1891, 547 ss.). Altri studiosi di diritto ecclesiastico come Ruffini, Galante e Schiappoli recepirono il termine e lo inserirono nella manualistica italiana del primo Novecento.
Rispetto alla classificazione teorica dei rapporti tra Stato e Chiesa elaborata in Germania nel secondo Ottocento (P. Hinschius) e adattata dalla dottrina italiana, il giurisdizionalismo è qualificato come un sistema intermedio tra la “teocrazia” e il “cesaropapismo” e opposto al “separatismo”, in quanto presuppone la distinzione ma anche il coordinamento dei due poteri. Nel regime di tipo confessionale, esso si esplica nella reciproca concessione di particolari facoltà, in deroga al diritto comune dello Stato, a organi della Chiesa e della Chiesa a organi dello Stato. Nel regime laico si attua secondo il diritto comune dello Stato ma comporta un diritto unilaterale di vigilanza sulla Chiesa (Jemolo).
Come sistema politico-religioso funzionale all’affermazione dello Stato moderno in campi fino allora riservati alla competenza della Chiesa, il giurisdizionalismo si situa al punto di confluenza delle dottrine medievali e moderne sulla sovranità. Dall’universo medievale, trae il fondamento sacrale dello Stato e del sovrano come autorità indipendenti da ogni autorità umana, la concezione del sovrano tutore dello Stato e della Chiesa in quanto rappresentante il popolo e i fedeli, la prerogativa di esercitare il potere coattivo di cui dispone non solo a vantaggio dello Stato e della Chiesa ma anche per regolare, moderare e coordinare le attività di entrambi. Dall’universo moderno, il giurisdizionalismo deriva, invece, il principio della sovranità territoriale propria dello Stato in via di consolidamento. Distinguendo la Chiesa istituzione universale dalla Chiesa particolare, vede quest’ultima quale istituzione dello Stato e come tale non la considera né estranea né superiore ad esso.
Questa concezione, maturata in Francia già nel basso medioevo, sarà accentuata e codificata negli Stati protestanti mediante le teorie territorialiste. Quale signore del territorio, il sovrano si vedrà assegnare dalla scienza cameralistica tedesca (C. Thomasius) un complesso di diritti intorno alle cose sacre (iura maiestatica circa sacra) diretti a proteggere la Chiesa oppure a difendere lo Stato dalle pretese della Chiesa.
I primi consistono nel ius advocatiae o protectionis, che fa del principe il «custode e difensore dei canoni» e nel ius reformandi, ossia nella facoltà di intervenire nella vita della Chiesa particolare per migliorare il funzionamento dei suoi organi. Invece gli istituti creati per preservare la sovranità statuale contemplano: 1) ius inspectionis o diritto di vigilanza sulle attività e manifestazioni ecclesiastiche; 2) ius cavendi o diritto di controllo preventivo sulle leggi e decreti ecclesiastici mediante l’introduzione del regio placet e dell’exequatur per dare loro vigenza e dell’appello per abuso come facoltà dei fedeli-sudditi di ricorrere agli organi dello Stato per far valere i loro diritti contro ogni eccesso di potere; 3) ius exclusivae o riserva degli uffici ecclesiastici ai sudditi e a persone gradite; 4) ius dominii eminentis o superiore diritto degli Stati sul patrimonio ecclesiastico.
Mediante una così ampia e differenziata gamma di poteri d’intervento i sovrani potevano sovrapporre la giurisdizione dello Stato su quella della Chiesa e attuare un penetrante controllo non solo sulla legislazione e sull’organizzazione ecclesiastica «nazionale» (proprietà e benefici, clero secolare e regolare, ecc.), ma anche sulle dottrine teologiche, sull’amministrazione dei sacramenti nonché sull’emanazione delle censure canoniche.
Storicamente questo “sistema politico-giuridico” è il frutto di una costruzione dottrinale e sottintende una realtà assai variegata: non si afferma pienamente in un determinato momento o paese, bensì assume differenti modalità attuative, oltre che per gradi, per modelli nazionali, per epoche storiche, per contesti territoriali. Nella frammentata realtà politica degli Stati italiani, il giurisdizionalismo ha un deciso carattere confessionale e risente, a seconda del dominio di turno, del modello francese (gallicanesimo), spagnolo (regalismo), germanico (febronianesimo), austriaco (giuseppinismo) ma esperimenta anche forme proprie nel Regno di Sicilia, di Napoli, nella Repubblica di Venezia, nel Granducato di Toscana.
Anche con queste avvertenze resta comunque difficile isolare tali modelli nello sviluppo della concreta realtà storica. Il rischio è sempre quello di entificare due realtà (lo ‘Stato’ e la ‘Chiesa’) che non sono mai state del tutto separate specie nell’antico regime, e di presentarle come virtualmente antagoniste, quando invece l’indagine ci rende edotti del fatto che esse si sono costruite mediante un complesso intreccio di apparati, istituti, procedure che sottendono strategie e interessi il più delle volte convergenti. Sotto questo profilo la sintetica ricostruzione che segue andrebbe vista come il dispiegamento di tecniche di neutralizzazione, di negoziazione e di condizionamento reciproci. A ben vedere i processi di ‘confessionalizzazione’ e di ‘secolarizzazione’ dello Stato moderno sono uno la faccia rovesciata dell’altro. La tematica del giurisdizionalismo, legata alle polemiche risorgimentali, dovrebbe venire reimpostata alla luce di categorie più adeguate. Le controversie che vi sono solitamente ricomprese sono, infatti, parte essenziale del processo di costruzione, consolidamento e affermazione dello Stato moderno. Sotto questo riguardo si comprende quanto possano essere fuorvianti gli schematismi teorici dei giuristi del passato.
Un asse comune tra le vecchie e le nuove problematiche può comunque essere trovato attorno al nodo della «giurisdizione» come terreno comune alla costruzione dei due poteri. È essenziale cogliere il passaggio dalle controversie medievali per la delimitazione dei confini tra le due giurisdizioni, che avevano dato luogo nei singoli comuni alla creazione di apposite norme statutarie e all’istituzione di speciali magistrature onde evitare gli sconfinamenti dell’autorità ecclesiastica, al conflitto delle giurisdizioni che sorge in seguito alla strutturazione dello Stato moderno e della Chiesa tridentina come poteri centralizzati e tendenzialmente assoluti.
Il problema della ricezione nella legislazione degli Stati dei decreti tridentini e della bolla In Coena Domini (una summa delle prerogative pontificie ed ecclesiastiche seguìta dalle più gravi sanzioni canoniche) costituiscono la base preliminare delle future dispute.
Convenzionalmente si fa risalire al 1606-1607 la prima occasione di scontro tra le due giurisdizioni contendenti, allorché la Santa Sede lancia l’interdetto contro Venezia in seguito al diniego della Repubblica di abolire leggi che prevedevano soppressioni di beni ecclesiastici, imponevano la sottoposizione del clero all’autorità giudiziaria dello Stato e condizionavano l’erezione di nuove chiese e luoghi pii all’autorizzazione del governo.
Dopo questo episodio emblematico, l’ascesa del giurisdizionalismo confessionalista in Italia può essere ricostruita in scansioni successive, dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento. Un primo momento si attua nel Ducato di Savoia con la ricezione dei princìpi gallicani e l’introduzione, da parte di Emanuele Filiberto, nel 1560, dell’appello al futuro concilio per abuso come istituto irrinunciabile e imprescrittibile. Esso sarà difeso fino al re Vittorio Amedeo II, che lo estenderà alla Sardegna secondo il modello francese. Da allora la politica giurisdizionalista dei Savoia subirà una forte attenuazione fino all’improvvisa ripresa di tono, a metà Ottocento, con le leggi Siccardi.
Contribuisce a rinvigorire le aspirazioni gallicane e regaliste nell’intera penisola la controversia sulla diocesi di Lipari che si disputa nel Regno di Sicilia tra il 1712 e il 1728. Il suo svolgimento evidenzia la trasformazione dell’istituto privilegiario della legazia apostolica – in forza del quale i re di Sicilia si ritenevano fin dal 1098 «legati nati» del pontefice e quindi titolari della suprema istanza nelle cause ecclesiastiche –, in una lunga lotta della Santa Sede diretta a sopprimere le competenze del «Giudice della monarchia sicula» istituito da Filippo II nel 1579. La politica regalista dei Borboni mira a consolidare la legazia apostolica anche nel periodo seguente alla transazione con Benedetto XIII avvenuta del 1728. Solo quando tale istituto diventerà ininfluente e obsoleto, alle soglie della rivoluzione francese, essi cominceranno ad attaccare direttamente le immunità e i privilegi ecclesiastici.
Con la fine della fase concordataria (v. Concordati), negli Stati italiani si assiste, ai primi anni Sessanta, a una progressiva radicalizzazione delle politiche ecclesiastiche. Episodi premonitori si possono considerare la controversia sulla soppressione del patriarcato di Aquileia nella Repubblica Veneta, e la legge di ammortizzazione, ideata dal ministro della «regia giurisdizione» Giulio Rucellai, nel Granducato di Toscana. Il nuovo clima è attestato dalla estensione degli interventi statuali sulle materie ecclesiastiche anche nei due piccoli Ducati di Parma e di Modena (dove nel 1757 e nel 1765 sono istituiti il Magistrato di giurisdizione sovrana e la Real Giunta di giurisdizione) e dalla diffusione di opere di carattere riformista (nel 1768 escono le Riflessioni di un italiano sopra la Chiesa… di Carlantonio Pilati e La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti di Cosimo Amidei).
Nella penisola si vanno delineando due modelli fondamentali di riformismo ecclesiastico: quello borbonico-tanucciano rivolto «a rivendicare le prerogative politiche statali di fronte alla Chiesa, ma estraneo ai progetti di riforma e di intervento circa sacra» e quello del «riformismo ecclesiastico e religioso asburgico, nelle sue due versioni giuseppina e leopoldina» (M. Rosa). Entrambi sono accomunati dall’atteggiamento polemico contro la Curia romana e gli ordini religiosi; entrambi intendono affermare la giurisdizione statale in campi sinora riservati alla Chiesa: ma lo fanno in guise, con metodi e scopi differenti.
Nel Meridione, eredi della tradizione giannoniana, si è più aderenti alla concretezza giuridico-politica, si fa perno esclusivo sugli organi di governo, ci si muove in modo gradualistico e si mira ad attuare un’azione di contenimento delle forze e istituzioni della Chiesa. Nella Lombardia austriaca e nel Granducato di Toscana si elaborano veri e propri progetti di ristrutturazione degli assetti istituzionali e religiosi, si cerca l’adesione e la collaborazione dei vescovi (sollecitati anche dalle correnti episcopaliste dei gallicani, dei febroniani e dei giansenisti), si nutre l’ambizione di modificare la religiosità popolare e di dare vita a chiese nazionali.
Nel Regno di Napoli l’indirizzo giurisdizionalista guidato dal ministro Bernardo Tanucci ha un’accelerazione tra il 1761 e il 1777. Si introduce il regio placet per le bolle papali e i decreti sinodali; si fa valere il principio del dominio eminente del re sui benefici ecclesiastici, ivi comprese le mense vescovili, togliendo efficacia alle regole della cancelleria pontificia; si rivendica allo Stato la competenza sui matrimoni in base alla separazione tra contratto naturale e sacramento per accessione; si elimina il fòro ecclesiastico per le cause civili e penali del clero; si sopprime il tribunale dell’Inquisizione e si limita l’azione di quelli vescovili; si proibisce ai vescovi di comminare scomuniche e di negare i sacramenti a motivo di delitti non accertati dalla legge civile.
Gli anni Settanta e Ottanta sono caratterizzati nella Lombardia austriaca, nella Repubblica di Venezia, nei Ducati e in Toscana da una vera e propria offensiva contro la curia romana, gli ordini religiosi, la proprietà ecclesiastica, i privilegi del clero, gli organi pontifici di controllo e di rappresentanza (Inquisizione e Nunziatura). I primi provvedimenti soppressivi di conventi e monasteri rivestono un carattere sparso e datano tra la fine del 1768 e i primi mesi del 1772; ad essi fanno seguito, nei territori asburgici, fino al 1780 «piani di consistenza» dei conventi e monasteri che ammettono la possibilità di accordo con i superiori degli ordini, e nel decennio seguente «piani di soppressione» indiscriminata, secondo il modello statualistico di Giuseppe II (v. Soppressioni). Nel Granducato di Toscana si sperimenta una collaborazione tra il disegno politico di Pietro Leopoldo e il gruppo di vescovi riformatori capeggiato da Scipione de’ Ricci. Qui la soppressione degli ordini religiosi avviene secondo modalità più ponderate e in funzione del potenziamento della rete parrocchiale. Per eliminare le sperequazioni economiche nel clero e per elevare il ministero pastorale nelle diocesi di Pistoia e Prato viene decretata la confluenza dei benefici ecclesiastici in istituti di sostentamento del clero detti Patrimoni ecclesiastici diocesani.
La fine degli anni Ottanta segna nei vari Stati italiani, diversamente dalla Francia, la parabola discendente del giurisdizionalismo. La reazione popolare, il timore della rivoluzione, il mutamento politico e culturale (che sarà ancora più evidente nel periodo della Restaurazione), inducono i governi a revocare le misure più radicali e a cercare un compromesso con la Santa Sede.
Come anticipato all’inizio, nella storia italiana dell’Ottocento il giurisdizionalismo avrà una nuova esplosione dopo la legge delle guarentigie del 13 maggio 1871. Ma si tratterà di un nuovo giurisdizionalismo, laico o liberale e niente affatto confessionalista, il quale non considererà più la Chiesa un proprio organo peculiare, da tutelare e/o da riformare, ma un’associazione o un’istituzione da inquadrare nell’ambito del diritto pubblico generale. Del vecchio sistema di antico regime, il nuovo giurisdizionalismo mantiene nondimeno i controlli sulla Chiesa allo scopo di preservare la sovranità dello Stato.
Fonti e Bibl. essenziale
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