Autore: Gaetano Greco
Con i termini sinodo e concilio s’intendono le assemblee di ecclesiastici, nelle quali sin dai primi secoli dell’affermazione del Cristianesimo sono stati discussi e deliberati aspetti e problemi riguardanti il governo della Chiesa, nella sfera spirituale (osservanza dell’ortodossia, amministrazione dei sacramenti, disciplina ecclesiastica, cura delle anime, cerimonie sacre e loro liturgia, culto dei santi ecc.) e temporale (come la distribuzione dei carichi fiscali, difesa dei privilegi, relazioni con le autorità civili ecc.). I due termini sono equivalenti, ma con il passare dei secoli è invalso l’uso di indicare con maggiore precisione con l’espressione “sinodo diocesano” l’assemblea dei sacerdoti (ma per lungo tempo anche dei laici più importanti per ruolo politico) di una diocesi presieduta dal vescovo e con l’espressione “sinodo provinciale” (o anche “concilio provinciale” o particolare) la riunione dei vescovi di una provincia ecclesiastica presieduta dal suo metropolita. Sulla base di questa distinzione la dottrina della Chiesa cattolica si è attestata nel negare all’assemblea sinodale diocesana una potestà legislativa, pur nel solo ambito della Chiesa locale, attribuendo questa potestà solo al vescovo: l’assemblea avrebbe solo una funzione consultiva e, di fatto, servirebbe al vescovo per pubblicare e illustrare il diritto vigente nella Chiesa universale e in quella locale (più recentemente, cf. l’Istruzione sui sinodi diocesani della Congregazione per i Vescovi e della Congregazione per l’evangelizzazione dei Popoli del 19 marzo 1997, e il Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi Apostolorum successores del 22 febbraio 2004). Da parte sua, sin dagli inizi dell’età moderna la ricerca storica è impegnata nel reperimento di fonti e notizie sullo svolgimento di sinodi diocesani e concili provinciali: edizioni di fonti, dalla raccolta generale intrapresa nella prima metà del Settecento da Giovanni Domenico Mansi sulla scia del Merlin, del Labbé, del Coleti e altri ancora, a collezioni di testi locali, sia per iniziativa diretta di vescovi (come il Synodicon della Chiesa beneventana, pubblicato dall’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini all’inizio del Settecento), sia per iniziativa di eruditi (come nel caso dei sinodi lucchesi editi da Paolino Dinelli); individuazione ed edizione di testi dimenticati dalla memoria locale; reperimento di tracce documentarie anche al di fuori delle fonti documentarie. Lavori ancora in corso, che riguardano non solo le epoche più lontane, ma anche i secoli dell’età moderna, quando non tutti gli atti dei sinodi diocesani raggiunsero la dignità di una pubblicazione a stampa, vuoi per carenza di risorse finanziarie da parte dei vescovi, vuoi per gli ostacoli e le dilazioni imposte dagli uffici della Curia romana in disaccordo su questo o quel punto delle norme sinodali, sia per timore di possibili turbative alla preminenza papale e curiale, sia anche su istigazione di componenti della Chiesa locale, colpite dalle decisioni vescovili.
Probabilmente i sinodi diocesani nacquero e si affermarono nelle regioni e nei periodi storici, nei quali i concili provinciali o non si affermarono o entrarono in crisi (Longhitano). I primi documenti scritti ne fanno menzione già agli inizi del VI secolo (Lex Romana Visigotorum) e nei secoli successivi non mancarono assisi diocesane, convocate dal vescovo per affrontare particolari problemi locali, anche di tipo giudiziario, ma solo nel Concilio Lateranense IV del 1215 l’istituto sinodale ebbe un pieno riconoscimento e una normazione: in quella sede fu previsto che i sinodi diocesani dovessero svolgersi con cadenza annuale, sotto la presidenza del vescovo o di un suo rappresentante. Col tempo si andarono stabilizzando le materie oggetto dei sinodi: l’integrità della dottrina, l’amministrazione dei sacramenti, l’ordine delle feste ecclesiastiche e le regole per il rispetto dei luoghi sacri, la disciplina dei chierici e dei laici, il conferimento e l’amministrazione degli uffici ecclesiastici. Quanto ai partecipanti, le assemblee furono ristrette al solo clero, e più in particolare ai canonici, ai vicari forensi, ai pievani e agli altri curati; nel contempo i vescovi chiedevano la partecipazione anche degli abati e degli altri prelati della diocesi, suscitando – ancora fino alla fine dell’età moderna – la resistenza di questi ecclesiastici, che erano ben consapevoli del fatto che la loro semplice presenza poteva significare l’accettazione del diritto promulgato in quella sede dall’ordinario diocesano.
Fra Quattro e Cinquecento la documentazione sulle assemblee sinodali locali e provinciali è scarsa, e persino lo stesso Concilio provinciale fiorentino del 1516-18, indetto da Giulio de’ Medici (poi papa Clemente VII) sulla scia del V Concilio Lateranense, pare che non abbia dato alcun risultato sul piano di una riforma disciplinare della Chiesa della provincia fiorentina e delle diocesi contermini, assoggettate al governo politico dei parenti dello stesso Giulio. La situazione cambiò radicalmente dalla metà del XVI secolo. Nel 1960, nel suo catalogo bibliografico degli atti sinodali italiani a stampa padre Silvino Da Nadro ha schedato 1762 titoli, partendo da un sinodo bolognese del 1535 e giungendo fino al sinodo torinese del 1878: dopo la conclusione del Concilio di Trento si ebbero quasi 460 sinodi nel cinquantennio successivo e altri 430 nel mezzo secolo seguente; poi si verifica una lieve flessione (234 nel 1716-1765), seguita da un crollo nel periodo compreso fra l’età delle riforme illuministiche e gli anni della rivoluzione. Nella XXIV sessione (1563), in effetti, il Concilio intervenne con decisione su questa materia, confermando l’obbligo per ogni vescovo di celebrare di persona il sinodo diocesano almeno una volta l’anno (così anche a Basilea nel 1433) e per i metropolitani di radunare ogni tre anni i concili provinciali da troppo tempo trascurati. Cominciò allora una ricca stagione sinodale e conciliare, non priva di ricadute concrete, anche se non immediate né uniformi ed esaustive, nella disciplina dei chierici e dei laici, nella riorganizzazione e nel rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche locali (dai capitoli alle parrocchie, dai monasteri femminili alle confraternite laicali), nella repressione dei persistenti residui e delle nuove forme di paganesimo, nell’emarginazione civile degli ebrei, nella cristianizzazione dei riti individuali e comunitari. In questa fase d’intensa attività assunse un ruolo di guida il card. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, con i suoi Acta Ecclesiae Mediolanensis, nei quali fu pubblicato il ricco corpus legislativo emanato nel corso dei sei concili provinciali celebrati fra il 1565 e il 1582: questi costituiranno nei decenni successivi il modello esplicito di riferimento per l’attività sinodale dei vescovi italiani. Tuttavia, almeno per tutta l’età moderna, l’analisi particolare permette di rilevare il persistere di modelli diversificati, anche in relazione alle differenti condizioni socio-economiche e culturali delle regioni italiane: «Ci sono sinodi che si rifanno al modello borromeano e sinodi che di rifanno a modelli di epoche successive anche se tutti si riferiscono essenzialmente ai decreti tridentini […] Ci sono sinodi che riflettono direttamente la realtà religioso-sociale a livello diocesano; ci sono sinodi prescrittivo-normativi strettamente aderenti ai dettati del Concilio di Trento senza nulla aggiungere o togliere; sinodi in cui prevale l’aspetto giuridico-formale e quelli più intimamente legati alla realtà religiosa riscontrata dai vescovi nelle loro visite pastorali; ci sono sinodi stereotipi e sinodi più aderenti ai tempi ed all’evoluzione della società» (Cestaro).
Lo studio delle singole situazioni locali permette di individuare l’impegno dei vescovi in questo settore dell’azione pastorale (come nel caso delle visite), ma consente anche di individuare anche l’esistenza di ostacoli politici alle iniziative dei vescovi e, più ancora, dei metropoliti: la non coincidenza fra province ecclesiastiche e confini statali frenava o impediva la convocazione dei concili provinciali (per es., gli arcivescovi di Pisa non hanno mai riunito in epoca moderna i vescovi corsi loro suffraganei, perché la Corsica dipendeva dalla Repubblica di Genova). Con gli inizi del Seicento, poi, sopravvenne una lunga fase di stasi: gli atti sinodali a stampa del periodo ripetono stancamente le medesime formule. Negli ultimi decenni dello stesso secolo e nei primi del Settecento s’intravedono netti i segni di un rinnovato impegno da parte dell’episcopato italiano nella cura pastorale e nella riforma disciplinare, segnato da una nuova ondata di sinodi diocesani, spesso editi a stampa con un ricco corredo di decreti vescovili, di documenti pontifici e di provvedimenti emanati dalle congregazioni romane. Sempre alla prima metà del Settecento risalgono il concilio provinciale romano del 1725 (voluto dall’Orsini, ora papa Benedetto XIII) e la pubblicazione di due opere, che avrebbero dovuto costituire il riferimento essenziale per la celebrazione dei sinodi diocesani: il Promptarium Synodale di Giovanni Battista Braschi (1727), e il De Synodo Dioecesana di Prospero Lambertini, scritto durante l’episcopato bolognese e pubblicato nel 1748 (sarà poi accresciuto e parzialmente modificato nelle edizioni successive). Strumento di pronto uso per i vescovi, il primo, e analisi problematica in un’ottica giuscanonista e curiale, il secondo, queste due opere sono la testimonianza del punto di arrivo e del consolidamento di una tradizione gerarchica, che utilizzava l’assemblea sinodale non già come occasione di consultazione, discussione e condivisione di temi e soluzioni fra il vescovo e il suo clero, bensì come catena di trasmissione di decisioni assunte nel centro della cattolicità e trasferite alla lettera nelle periferie per il tramite dei vescovi. In effetti, nel sinodo diocesano era assai limitata anche quell’autorità episcopale, che pure nella sede assembleare appariva come assoluta, poiché in essa il vescovo promulgava e pubblicava leggi, sulle quali i presenti avevano tutt’al più un diritto di consultazione. D’altronde, l’angustia dei poteri normativi dei vescovi emerge in più punti proprio dall’opera di Lambertini, che costellò la sua opera di paletti e di ostacoli, per impedire agli ordinari diocesani di sottrarre prerogative acquisite da secoli dalla Curia romana o, persino, di portare a conoscenza dei loro fedeli materie e soluzioni adottate, con il consenso dei pontefici, in altre regioni della cattolicità (come nel caso del matrimonio dei cattolici con acattolici). Non è casuale che durante il suo episcopato, esteso anche nei primi anni del suo pontificato, Lambertini non convocò mai un’assise sinodale, preferendo fare sentire e leggere i suoi voleri tramite quelle Notificazioni, di cui fece stampare una ricca silloge.
Pochi decenni dopo il vescovo giansenista di Prato e Pistoia Scipione de’ Ricci definì «pestifero» il libro di Lambertini e «zibaldone alla beneventana» quello del Braschi. Nelle sue memorie il Ricci collegava questi «due zibaldoni o repertorii di legali forensi» a una lettera convocatoria sinodale del vescovo Mancini di Fiesole, nella quale questi «si affatica malamente […] per istruire i parrochi di quel che non debbono fare né esaminare, e molto meno decidere in punto di dottrina e di disciplina ecclesiastica; in modo che, dopo aver detto che i concili erano utili tanto e necessari nella primitiva Chiesa, viene a provare il contrario pei tempi presenti, e dissuade indirettamente il clero e i parrochi dallo intervenire all’adunanza per cui gli invita» (Ricci, vol. I p. 401-402). In aperto contrasto con questa tradizione, nel Sinodo diocesano pistoiese del 1786 lo stesso Ricci giunse a proporre, nel contesto di un ampio progetto di riforma religiosa che spaziava dalla preparazione dottrinale del clero fino agli aspetti liturgici dell’espressione pubblica del sacro, un nuovo modello ecclesiologico fondato sulla cooperazione e l’interazione del vescovo con i suoi parroci. Condannato nel 1794 da Pio VI con la bolla Auctorem fidei, questo Sinodo ha rappresentato l’espressione più avanzata del riformismo interno alla Chiesa locale, in virtù della presenza nel suo programma di alcune istanze, che sono sopravvissute a lungo, seppure nascostamente, in alcune componenti della cultura cattolica italiana fino al Concilio Vaticano II. Intanto, nel 1787 si tenne per volontà del granduca Pietro Leopoldo una grande assemblea dei vescovi del Granducato, con il duplice intento di fondare una “Chiesa nazionale” e di accelerare le riforme ecclesiastiche grazie all’esplicito consenso della gerarchia episcopale toscana. Nell’un caso come nell’altro la politica granducale subì un’apparente sconfitta, perché i vescovi toscani, sotto l’accorta guida dell’arcivescovo di Pisa Angelo Franceschi, riuscirono a bloccare le proposte ritenute più eversive. Ma questo risultato ufficiale andrebbe poi verificato sulla base di ricerche locali, diocesi per diocesi: qui, infatti, i vescovi toscani mostrarono spesso di essere degli affidabili collaboratori del sovrano nell’applicazione concreta delle sue riforme. Anzi, Pietro Leopoldo non doveva certo essere insoddisfatto del suo episcopato, se gli affidò la gestione effettiva di tutte le nomine dei curati, già spettanti agli enti pubblici, e se nella complessa ristrutturazione di tutto il sistema della giustizia ecclesiastica regionale, seguita all’abolizione del Tribunale d’appello presso la Nunziatura Apostolica a Firenze, pose al suo vertice proprio quei tre arcivescovi di Firenze, Siena e Pisa, che pure avversavano pubblicamente le componenti “gianseniste” del riformismo religioso toscano.
Dopo la parentesi napoleonica, riprese l’attività sinodale dei vescovi italiani, pur con moderazione: Silvino da Nadro ha rintracciato centoventi edizioni di atti sinodali diocesani fino al 1878. Il sinodo pistoiese e l’assemblea dei vescovi della Toscana avevano fatto emergere due “tentazioni” fortemente invise all’ecclesiologia “romana”, decisamente assestata su una concezione gerarchica e centralistica: il parrochismo nei sinodi diocesani e il conciliarismo episcopalista nelle assisi dei vescovi su base statale. La ritrovata alleanza fra trono e altare nella Restaurazione, prima, e, dopo, il dichiarato non-interventismo dello Stato liberale negli affari interni della Chiesa consentirono alla Santa Sede di spegnere queste aspirazioni e di utilizzare i sinodi diocesani e i concili provinciali come strumento di trasmissione del diritto romano dal centro alle periferie. Come ha scritto Silvio Ferrari, «il “figurino” sinodale è unico, ispirato ad una ecclesiologia di stampo giuridico che esalta il momento gerarchico della comunità cristiana. Dopo il definitivo tramonto degli aneliti riformisti del clero parrocchiale settecentesco i vescovi sono rimasti i soli padroni del terreno sinodale: ma – sotto l’azione combinata delle spinte accentratrici interne alla Chiesa cattolica, della rigida politica di nomine episcopali inaugurata da Pio IX e del declino degli interventi sovrani nella scelta dei vescovi – questa vittoria si è risolta in una marcata tendenza ad importare ed applicare a livello locale le direttive provenienti dal centro, depotenziando il rilievo della realtà socio-religiosa diocesana che può essere colta, nei sinodi, soltanto attraverso una attenta lettura in filigrana di costituzioni largamente uniformi».
Fonti e Bibl. essenziale
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