Autore: Marina Garbellotti
Sono così numerose le opere assistenziali promosse in seno alla Chiesa da renderne impossibile in questa sede un’esposizione esaustiva; pertanto si darà spazio prevalentemente alle iniziative più significative in materia di assistenza, intesa nello specifico quale soccorso nei confronti dei bisognosi, mentre si accennerà marginalmente alle pratiche sanitarie, affrontate più dettagliatamente nella voce ‘ospedali’.
Nella Chiesa delle origini i grandi promotori dell’assistenza furono i vescovi, considerati ‘padri dei poveri’, e i monasteri. Di particolare impulso per l’attività caritativa esercitata dai monasteri fu la regola di S. Benedetto che dettava precise norme sull’ospitalità: poveri e pellegrini dovevano essere accolti con estremo riguardo, «quia in ipsis magis Christus suscipitur». Sebbene i capitoli benedettini non abbiano incontrato un’applicazione uniforme, il messaggio trasmesso influenzò il movimento monastico medioevale e la cultura della carità. Il cristiano era invitato a portare soccorso ai poveri sia per alleviarne i patimenti sia per poter riscattare i propri peccati mediante l’elemosina. Consentendo ai credenti di redimersi, l’indigente assumeva un’importante funzione sociale.
I monasteri non erano le uniche istituzioni a offrire soccorso e rifugio ai bisognosi. A partire dal XII secolo, in concomitanza con l’intensificarsi dei commerci e della mobilità, si assistette alla nascita di molti ospizi, dove pellegrini, viandanti, mercanti, soldati, potevano riprendersi dalle fatiche del viaggio e ottenere assistenza materiale e spirituale. Alcuni si dovettero all’iniziativa degli ordini ospitalieri, sorti nei secoli XII e XIII in relazione ai pellegrinaggi e alle crociate; altri furono l’espressione di quel réveil évangelique, manifestatosi tra la fine del secolo XI e i primi decenni del secolo XIII, che si tradusse nella proliferazione di associazioni confraternali dedite alla cura delle frange più misere della popolazione. Intervenendo in un settore della società pressoché scoperto, l’azione di questi sodalizi permise alla Chiesa di irrobustire la propria funzione, guadagnando una posizione significativa e altra rispetto a quella della cura delle anime. Nel corso del Trecento, e con modalità più marcate nel Quattrocento, tale presenza nel campo assistenziale iniziò a risultare ingombrante agli occhi delle autorità civili, gradualmente orientate a intervenire e a controllare i vari ambiti della società; le associazioni caritative e le loro concrete pratiche di soccorso finirono per essere considerate strumenti irrinunciabili alle politiche sociali di contenimento della miseria.
L’attività delle confraternite fu fortemente influenzata anche dalle proposte pastorali degli Ordini mendicanti, la cui presenza divenne capillare a partire dal secolo XIII. Pur non fondando direttamente istituti assistenziali, queste congregazioni furono determinanti nel promuoverne. Un esempio di questa influenza è la diretta partecipazione dei Minori Osservanti alla creazione dei Monti di pietà e dei Monti frumentari. Grazie alla predicazione dei frati, dalla seconda metà Quattrocento, i Monti sorsero in diversi centri e località con il duplice fine di aiutare i poveri, accordando loro prestiti in denaro o di grano, e di opporsi all’usura in chiave antiebraica: la lotta contro i tassi di interesse mirava, infatti, a ridurre la fiorente pratica feneratizia esercitata dai banchieri ebrei. Come è noto, però, progressivamente i Monti di Pietà snaturarono la valenza caritativa che ne aveva connotato la nascita e iniziarono a concedere prestiti su pegno dietro la corresponsione di un interesse, giustificato dalla spese gestionali, e a selezionare la clientela escludendo dal circuito creditizio le persone più indigenti.
Nel corso del Quattrocento cominciò a manifestarsi verso il povero un atteggiamento che condizionò profondamente il concetto di assistenza e i suoi destinatari. Accanto all’immagine tradizionale del povero, degno di carità e di aiuto, perché raffigurazione terrena delle sofferenze di Cristo, si profilò quella dell’indigente ozioso, misero perché ostile al lavoro e incline a comportamenti devianti. Divenne evidente che non tutti meritavano la carità. Essa doveva essere riservata solo ai veri indigenti, cioè a quanti erano inabili al lavoro per ragioni di età, per menomazioni fisiche o infermità; al contrario, i poveri abili, quindi in grado di procurarsi il sostentamento, erano esclusi dall’assistenza e soggetti a provvedimenti di espulsione.
La figura del mendicante ozioso, condannata tanto dalle autorità civili quanto da quelle ecclesiastiche, non fu un’invenzione di quest’epoca, essa affondava le sue radici nella patristica. Sin dalle origini il cristianesimo offrì una visione positiva del lavoro che, rimasta a lungo latente, aveva riacquistato vigore a partire dal XII secolo, quando all’ammirazione della vita contemplativa si era affiancato l’apprezzamento della vita operativa. Soprattutto i testi dell’apostolo Paolo – si pensi alla nota espressione contenuta nella lettera ai Tessalonicesi: «si quis non vult operari nec manducet […]» – furono ripresi per giustificare la necessità dell’uomo di lavorare. La progressiva valorizzazione della vita attiva non fu l’unico fattore a determinare la diversa visione del povero. A questo cambiamento culturale contribuì il preoccupante aumento del numero degli indigenti, registratosi tra i secoli XV e XVI e provocato, in estrema sintesi, da una serie concomitante di fattori, quali l’espansione demografica, il ristagno economico e il susseguirsi di carestie ed epidemie.
Di fronte al crescente fenomeno del pauperismo le autorità civili in collaborazione con quelle ecclesiastiche riorganizzarono il sistema assistenziale con l’intento di renderlo più efficiente e razionale: i piccoli ospizi medievali polifunzionali furono sostituiti da enti possibilmente specializzati nella cura di infermi e nell’assistenza di diverse categorie di indigenti. La mappa degli istituti assistenziali si arricchì di ospedali, intesi quali embrionali luoghi di cura, di brefotrofi, di istituti per l’educazione dei giovani, di Conservatori per la tutela delle fanciulle bisognose, e di alberghi per i mendicanti, presso i quali il soccorso materiale si intrecciava all’educazione e all’imposizione di precisi modelli di comportamento.
Con la riforma ospedaliera avvenuta alle soglie dell’età moderna le autorità civili conclusero il graduale processo avviato nel XIV secolo per amministrare i diversi ambiti della società e presero ad occuparsi in modo deciso dell’assistenza, assorbendo nella propria sfera di competenza gli istituti caritativi, compresi quelli amministrati dalle confraternite. Questo intervento, tuttavia, non comportò l’abbandono delle attività caritative da parte delle istituzioni religiose, che continuarono a fornire un contributo sostanziale. L’assistenza spirituale offerta dai religiosi rimase un servizio centrale all’interno degli ospedali anche in quelli gestiti da laici; i monasteri non rinunciarono a donare elemosine e a ospitare in strutture attigue mogli con problemi coniugali (malmaritate), prostitute pentite, donne compromesse nell’onore per aiutarle a recuperare la reputazione mediante un periodo di ritiro e di pentimento. Se infatti, come ebbe a chiarire tra gli altri l’arcivescovo di Firenze, Antonino Pierozzi (1389- 1459), la verginità corporale, indipendentemente dalle modalità con cui era stata compromessa, non poteva essere recuperata, era possibile riacquistare la verginità morale attraverso un periodo di vera penitenza. I luoghi deputati a tale scopo non avevano una significativa capacità ricettiva, essi però rivestivano un’importante funzione simbolica. La loro esistenza, infatti, testimoniava e ribadiva l’importanza del controllo sociale sul corpo femminile, nonché la necessità di tutelare la reputazione delle donne che doveva essere riscattata se macchiata.
Le confraternite proseguirono la loro opera assistenziale, per un verso soccorrendo altre tipologie di bisognosi quali i condannati a morte, i poveri cosiddetti vergognosi, cioè persone declassate socialmente, i poveri laboriosi, e le ragazze sprovviste di dote; per l’altro, conformandosi ai principi caritativi dominanti, regolarono l’elargizione degli aiuti secondo criteri selettivi. Tendenzialmente, infatti, i sussidi erano destinati ai poveri meritevoli (bambini, fanciulli, fanciulle, vedove, infermi, anziani), e ad adulti abili lavoro, purché questi potessero dimostrare di essere privi di un mestiere per ragioni indipendenti dalla loro volontà, di essere cittadini o residenti da molti anni, e di aver esercitato un lavoro. In sostanza, la carità era concessa a quanti rispettavano i valori costitutivi della società, riassumibili nel rispetto dell’etica del lavoro e dell’onore, o avevano contribuito alla crescita economica della stessa.
Mentre nel corso del Cinquecento le autorità civili rafforzarono gli interventi sulle strutture assistenziali riconducendole nella propria sfera di competenza, nuovi ordini religiosi si affacciarono sulla scena sociale potenziando le attività caritative. Alcuni si caratterizzarono per una spiccata vocazione assistenziale sanitaria, quali i Camilliani, i Fatebenefratelli, i Teatini (cfr. voce ospedali), pur non rinunciando ad altre forme di sostegno. I Teatini, ad esempio, conferirono ampio spazio al conforto dei condannati a morte; altri, quali i Gesuiti, i Barnabiti, i Somaschi, gli Oratoriani o Filippini, gli Scolopi, individuarono nel campo educativo il terreno primario della loro attività rivolgendosi a bambini e a giovani di diversa provenienza sociale. In particolare nei confronti dei molti fanciulli di umili condizioni, abbandonati a se stessi e inclini a comportamenti devianti, l’educazione divenne un importante strumento di disciplina. A tale scopo furono create strutture che all’aiuto materiale univano la persuasione ai costumi cristiani e l’attitudine al lavoro: gli orfanotrofi aperti negli anni Trenta del Cinquecento in varie città della Repubblica di Venezia, del Ducato di Milano e a Roma da Girolamo Miani, fondatore dei Somaschi, si orientarono in questa direzione.
Le mansioni educative assorbirono l’impegno anche di molte congregazioni femminili. Se sino ai primi decenni del Cinquecento l’accesso delle donne alla cultura era numericamente ristretto e avveniva prevalentemente in casa o presso i monasteri, dagli anni Trenta del secolo si possono cogliere elementi innovativi testimoniati dalla nascita di compagnie femminili, collegi e conservatori dediti all’insegnamento dei principi religiosi e dei primi rudimenti di lettura e scrittura. Rilevante in questo campo fu l’opera della Compagnia di Sant’Orsola, fondata nel 1535 a Brescia da Angela Merici. Inizialmente coadiutrici dei parroci nella catechesi, nella seconda metà del Cinquecento le Orsoline si qualificarono come maestre emergendo nel settore dell’istruzione primaria e di quella superiore fondando collegi con educandato interno e scuola esterna. Benché l’azione delle religiose risulti più circoscritta rispetto a quella messa in atto dai religiosi, a motivo dell’obbligo della clausura imposto a molte di loro, essa non si esauriva nell’insegnamento. La riabilitazione delle ex prostitute, l’assistenza degli ammalati a domicilio e negli ospedali, l’aiuto prestato alle giovani e ai poveri, completano il ventaglio dei loro interventi. Le Figlie della carità, sorte a Parigi nel 1633 per volontà di Vincenzo de’ Paoli grazie alla collaborazione di Luisa de Marillac, costituiscono l’esempio forse più illuminante appunto per l’ampio spettro delle forme assistenziali esercitate.
Lungo tutta l’età moderna le autorità di governo tentarono di ridurre il numero dei mendicanti ricorrendo principalmente a due provvedimenti: l’uno consisteva nel disciplinare la questua, concedendo esclusivamente ai veri poveri la licenza di mendicità e bandendo quelli abili al lavoro; l’altro si proponeva di confinare i questuanti in istituti chiamati alberghi per i poveri, nei quali erano allestiti laboratori per obbligare gli indigenti al lavoro. Fu Bologna la prima città a fondare nel 1563 un istituto per mendicanti, i cui statuti servirono da modello ad altri centri urbani della penisola. Nel corso della seconda metà del Cinquecento l’iniziativa fu seguita da Cremona, Milano, Torino, Roma, Vicenza, Verona, Modena, Venezia, Padova, e nel Seicento da Firenze, Genova, Napoli. Una legittimazione ideologica al consolidamento di tali metodiche repressive contro la mendicità fu fornita dai Gesuiti, che divulgarono opuscoli sull’efficacia della segregazione e parteciparono attivamente all’elaborazione di programmi di reclusione. Le competenze dei gesuiti Honoré Chaurand e André Guevarre, distintisi per aver collaborato attivamente alle misure per reprimere la mendicità attuate dal re di Francia Luigi XIV, non tardarono a trovare apprezzamento anche nella penisola italiana. Papa Innocenzo XII, intenzionato ad elaborare un piano per arginare il fenomeno della mendicità, li chiamò a Roma per una consulenza. Toccò poi a Vittorio Amedeo II servirsi delle conoscenze tecniche di padre Guevarre per promuovere la reclusione dei mendicanti a Torino e in altre città sabaude e piemontesi. A Modena, per «piantare» l’ospedale dei mendicanti giunse nel 1695 il gesuita fiorentino Giovanni Maria Baldigiani. In questo contesto si colloca l’iniziativa promossa da don Filippo Franci, un sacerdote legato alla Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri, il quale nel 1653 fondò a Firenze un istituto conosciuto come Quarconia per accogliere e per istruire al lavoro fanciulli abbandonati. Al suo interno fu anche organizzato un carcere per recludervi giovani ribelli all’autorità familiare, garzoni indisciplinati e borsaioli. Diversamente da altri luoghi detentivi, il carcere della Quarconia, secondo il modello conventuale, era costruito a celle singole, atte a consentire al fanciullo un’isolata riflessione spirituale via obbligata per giungere al pentimento.
Occorrerà attendere il secolo successivo perché una voce altrettanto autorevole si levi a favore di provvedimenti alternativi a quelli reclusori. Pur non negandone l’utilità, il sacerdote e storico Ludovico Antonio Muratori insistette sulla necessità di trovare opportunità lavorative per gli indigenti, compito al quale avrebbe dovuto attendere la Compagnia di Carità, un’associazione da istituire in ogni parrocchia in luogo delle tradizionali confraternite. Oltre ad assorbire le opere assistenziali praticate da tali sodalizi, la Compagnia di Carità avrebbe dovuto promuovere attività produttive per avviare i poveri al lavoro. Il progetto muratoriano non incontrò largo consenso, ma la proposta fu comunque di grande importanza per l’apporto al secolare dibattito sulla ineluttabilità delle diseguaglianze sociali. Indicando misure concrete per rimuoverle, egli rifiutava la passiva accettazione dei bisognosi discostandosi dalle posizioni ecclesiastiche più tradizionaliste. La questione, non certo nuova, fu oggetto di ampie discussione nel corso del Settecento. Secondo gli illuministi, infatti, la Chiesa contribuiva a mantenere lo stato di precarietà dei marginali inserendo la divisione tra ricchi e poveri nel disegno provvidenziale.
Il tema della predeterminazione dei poveri e della loro utilità a quanti desideravano salvarsi l’anima mediante l’elemosina assunse toni più decisi nell’Ottocento. Nonostante non mancassero istanze di segno opposto, prevalse una posizione conservatrice che associava l’eliminazione dell’indigenza all’assunzione di atteggiamenti eversivi. Espressione di questa ideologia fu l’enciclica Nostis et nobiscum emanata nel 1849 da papa Pio IX. Pur ribadendo la necessità da parte della Chiesa di aiutare i più deboli, in essa si afferma che l’esistenza dei poveri appartiene «all’ordine naturale e immutabile delle cose» e che non è dato «agli uomini di stabilire nuove società e delle comunità opposte alla condizione naturale delle cose umane».
Per quanto concerne le pratiche assistenziali, nella prima dell’Ottocento esse si espressero secondo modalità tradizionali a conferma del ritardo con cui in Italia si realizzò lo Stato sociale. Nonostante durante la Restaurazione i governi approvarono misure repressive nei confronti delle famiglie religiose essenzialmente allo scopo di incamerarne i consistenti beni, esse riuscirono a proseguire l’opera avviata nei secoli precedenti, anzi alcune ampliarono il raggio di azione dedicandosi all’attività missionaria in altri continenti. È opportuno precisare che le soppressioni attuate dalle autorità di governo colpirono prevalentemente gli ordini contemplativi, giudicati poco utili, e non quelli dediti all’assistenza e all’istruzione della popolazione considerati socialmente importanti.
Tratto distintivo del secolo fu la straordinaria fioritura di congregazioni religiose femminili, che si affiancarono a quelle più antiche. Per queste famiglie l’educazione femminile, seppure con modalità innovative, continuò a costituire un impegno prioritario. Del resto, fu proprio nel periodo della Restaurazione che in molti paesi europei si avvertì la necessità di istruire le fanciulle di umili condizioni. Il ruolo assegnato dalla società alla donna prevedeva la sua completa dedizione alla famiglia rendendo il lavoro di insegnante incompatibile con quello di moglie e di madre. Per questa ragione le nubili, e meglio ancora, le religiose per i valori che le animavano, formavano il corpo insegnante ideale. Tra le congregazioni religiose impegnate nell’ambito educativo si possono annoverare le Figlie della Carità, ovvero le canossiane, le Figlie della Santa Fede, le Maestre di Santa Dorotea, le Suore della Provvidenza. Un forte impegno in ambito educativo fu tenacemente perseguito anche dalle contemporanee famiglie religiose maschili, basti pensare all’opera svolta dall’Istituto della carità, meglio noto come rosminiani dal nome del fondatore, e dalla congregazione dei Salesiani. Per ottenere l’approvazione della Santa Sede, almeno sino al 1860 e con eccezioni per gli asili e gli orfanotrofi, gli istituti educativi erano distinti per genere. La co-educazione, infatti, sollevava riprovazioni di natura etica e non si adattava ai programmi scolastici, elaborati con finalità educative e formative differenti per fanciulli e fanciulle in linea con quanto avveniva nelle istituzionali scolastiche laiche.
Molte congregazioni femminili privilegiarono l’assistenza a domicilio e prestarono servizio in ospedale svolgendo molteplici funzioni dall’aiuto nei reparti al servizio in cucina. Portarono il loro soccorso negli ospedali le Suore di Carità, dette di Maria Bambina, occupate anche nell’istruzione delle fanciulle e nell’assistenza agli orfani, e le Figlie di Carità. Come accennato, questa congregazione si qualificava per un’articolata opera caritativa conferendo concretezza al quarto voto che emettevano, cioè il “servizio dei poveri”. Le regole delle Figlie di Carità furono prese a modello da parecchie congregazioni femminili che ne mutuarono le finalità, come le Suore di carità dell’Immacolata concezione fondate da Maria Antonia Verna agli inizi dell’Ottocento per assistere gli ammalati a domicilio. Dagli anni Trenta del secolo, la presenza delle religiose e dei religiosi divenne una costante negli orfanotrofi e nei conservatori, trasformando questi istituti in case religiose, nelle quali, secondo un modello secolare, l’accudimento dei giovani e delle giovani ospiti – effettuato con metodi anche assai severi – si fondeva con l’educazione alla fede e con l’insegnamento di un mestiere, nell’intento di formare adulti devoti e preparati a ricoprire i ruoli di genere assegnati dalla società.
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