Rinascimento carolingio – vol. I

    image_pdfimage_print
    Autore: Paolo Fusar Imperatore

    Il panorama italiano del IX secolo non appare così marcatamente mutato da poter parlare di un vero e proprio rinascimento carolingio italiano: l’incertezza politica fra Roma, Costantinopoli e Pavia, capitale longobarda, non faciliterà l’intervento legislativo e uniformante di Carlo magno nella penisola. I Franchi, invitati da papa Stefano per fermare il pericolo longobardo e per garantire la libertà delle terre del patrimonium Petri, si guarderanno bene, infatti, dal gestire la situazione italiana da padroni di casa. L’intervento carolingio provocherà una definitiva frattura politica della penisola e introdurrà alcuni elementi della cultura franca, portando alle estreme conseguenze ciò che i longobardi non erano riusciti a fare, ossia, con una parola che vuole essere soltanto un comodo concetto generale, l’impostazione feudale del territorio, con i privilegi e le immunità. Il trascorrere del IX secolo, in linea generale, segna un forte declino della realtà italiana, accentuato dal fatto che l’imperatore abitava al di là delle Alpi e in controtendenza solo nelle terre del pontefice. I Franchi, soprattutto nell’area orientale dell’Italia settentrionale, dove più forte era la presenza longobarda, avevano la necessità di creare nuove figure di governo, ma, in generale, si erano guardati bene dal sostituire interamente le vecchie strutture: l’Italia del X secolo presenterà una grande e confusa molteplicità di poteri, fra duchi e gastaldi longobardi, conti e marchesi franchi, esarchi e temi bizantini, che di volta in volta andranno ad assommarsi, perdendo i significati propri, ma mantenendo intatta la loro memoria di dominio e potere. Dall’altro lato della medaglia, proprio la debolezza politica dell’impero farà del IX secolo un periodo di ripresa economica, rilanciato dalle autonomie locali appena formate.

    Il punto di vista culturale può permetterci di individuare altri aspetti contraddittori dell’epoca carolingia. L’ambiente italiano del secolo precedente, sebbene non fosse particolarmente promettente viste le asperità del regno longobardo, era ancora caratterizzato da alcuni centri culturali particolarmente attivi e vivaci, che la presenza franca tenderà a limitare entro i propri schemi. Il regno longobardo, soprattutto dopo la conversione al cristianesimo, si era vivamente impegnato nell’edificazione e nell’arricchimento dei centri monastici con lo scopo di preparare posti pregevoli per i figli cadetti della nobiltà, non destinati a succedere nei ducati o nei ranghi del regno: la scelta degli irlandesi di Bobbio e di altri centri di nuova fondazione era finalizzata a garantirsi luoghi protetti e liberi dagli influssi di Roma e Costantinopoli. Con l’apporto della paleografia vediamo, così, la crisi dei grandi centri culturali monastici del secolo precedente: Bobbio, splendida abbazia fondata da Colombano e custode della cultura classica, riduce inesorabilmente i propri spazi e la propria influenza; Montecassino e san Vincenzo al Volturno vedono la distruzione e dispersione del proprio patrimonio a causa dei saccheggi degli Arabi, vero flagello del secolo; altri monasteri saranno irreggimentati nelle strutture imperiali franche, come, ad esempio, Farfa. La cultura carolingia, al contempo, non si impone con la stessa forza e coerenza con cui si è proceduto oltralpe, e la riforma benedettina promossa da Benedetto di Aniane non fu sufficiente a bilanciare l’introduzione degli “abati laici” nei monasteri. Il monachesimo italico, dopo l’opera di Gregorio magno e con due secoli di sperimentazione longobarda, cominciava a raggiungere livelli di splendore invidiabili e soprattutto quella fama di santità che rendeva i monaci consiglieri, maestri e protettori. L’uniformità linguistica, culturale e spirituale che l’impero carolingio cercherà di portare in Italia non farà altro che appiattire un panorama molto ricco e capace anche di uomini colti e validi come fu lo stesso consigliere di Carlo magno, Paolo diacono, o il vescovo Paolino d’Aquileia. Paradossalmente “rinascimento carolingio” in Italia significò una grande contraddizione: l’irrimediabile morte di strutture antiche, provocata dai continui mutamenti di potere e la conseguente nascita di nuove strutture, anche ecclesiastiche, di notevole durata e rendimento. La forza ideale ed ideologica di un nuovo impero romano, suscitata anche dall’apporto simbolico di un rapporto con Roma, non fu sufficiente per restituire all’Italia un vero e durevole rinascimento, servì tuttavia al lento consolidarsi di quanto era sopravvissuto del passato, romano, longobardo e franco.

    Per l’Italia settentrionale la grande novità carolingia fu quella dei “vescovi conti”: il termine designa l’impostazione voluta dai sovrani franchi nella gestione dei propri territori, con la concessione di potere politico ai vescovi, fino alla creazione di veri e propri feudi episcopali. L’idea che soggiace a questa visione è quella della sacralità del sovrano e della conseguente commistione fra regno e chiese: i vescovi erano, così, eletti dal sovrano e insigniti di una giurisdizione. È vero che la situazione italiana non corrisponde molto alla Francia o a ciò che verrà a crearsi ai tempi di Ottone I di Sassonia nel X secolo, ma non si può certo negare che la politica carolingia in Italia non abbia favorito e potenziato la figura del vescovo. In contrapposizione al regno longobardo che sopravviveva come federazione di duchi affiancati al prestigio di grandi e potenti monasteri, i nuovi signori restituirono potere civile ai vescovi e alle loro giurisdizioni: persone valide e preparate, senza dubbio prive di eredi, e capaci di un alto concetto di fedeltà. La nuova situazione impedirà un ricambio altrettanto valido e l’innescarsi della valanga degli episcopati di ceto nobiliare, a lungo termine, porterà l’episcopato ad una insignificanza culturale e religiosa. La riforma carolingia delle diocesi, efficiente in via teorica, segnò anche la scomparsa definitiva delle strutture patriarcali antiche, con il lato positivo di annientarne anche gli atavici conflitti. In contrapposizione alla cultura dei monasteri il governo carolingio obbligò i vescovi ad avere una propria scuola per la formazione dei chierici e degli impiegati del proprio tribunale: si tratta di un notevole sforzo di unitarietà e controllo, volto a limitare gli spazi longobardi e a migliorare le effettive condizioni di governo. Il caso più evidente riguarda la capitale longobarda, Pavia, dove venne nominato amministratore l’abate benedettino Waldo, con l’incarico di istituire una scuola vescovile. La rapida rovina dell’impero porterà però il degrado di queste neonate istituzioni, che poterono sopravvivere solo in presenza di qualche abile vescovo e di un patriziato cittadino autorevole. La feudalità ecclesiastica scadrà nella creazione delle cappelle private e del clero canonicale delle grandi collegiate esenti: vescovi funzionari e signori territoriali in lotta con la nobiltà vassalla. Bisognerà cercare nel clero pievano e nella riorganizzazione ecclesiastica locale gli aspetti positivi di un’epoca che ha tutta l’aria di una grande decadenza. Sul piano organizzativo si può scorgere la preoccupazione di creare unità territoriali più compatte e meglio amministrabili: la Chiesa delle pievi, dipendente dai vescovi, ma sufficientemente strutturata per reggersi anche senza di loro, portò avanti per tutto il medioevo l’espansione e la presenza del cristianesimo nelle campagne.

    L’Italia centrale vide, invece, un periodo di relativo splendore, soprattutto per quanto riguarda l’ambito papale: lo scontro con l’oriente per la questione iconoclasta e lo scisma di Fozio incorniciarono una serie di papi di origine orientale, estremamente colti e capaci di buon governo, garantiti sia dall’oriente sia dalla nuova funzione acquisita dal papato in ambito franco. Solo a fine secolo, con la lontananza degli imperatori e con la fine della dinastia carolingia si avrà la caduta del papato nelle mani delle autonomie locali romane. Riorganizzare e ricostruire furono le attività preferite dai pontefici: Roma vide gli splendori delle basiliche di Pasquale I e le nuove fortificazioni cittadine della città leonina e della giovannipoli; il patrimonium Petri fu rimesso in ordine focalizzando il controllo governativo a partire dai centri di Ravenna, Perugia e Roma. Il IX secolo romano è anche l’epoca della rielaborazione di tre secoli di prassi di curia nella gestione dei rapporti con Costantinopoli, coi Longobardi e con i Franchi. Per il papato può giustamente definirsi un secolo d’oro: nulla di ciò che si era guadagnato era andato perduto. Il Franco era un alleato potente e sufficientemente lontano per garantire sicurezza ed autonomia; grazie all’appoggio papale poteva anche diventare un perfetto contraltare al potere bizantino nella penisola e alle pretese teologiche dei patriarchi e degli imperatori orientali, ma, soprattutto, era un decisivo deterrente alle mire espansionistiche longobarde, non ancora del tutto sopite dal trascorrere degli anni, anche se ridotti ai soli ducati di Spoleto e Benevento. Il papato del IX secolo è, però, meno sollecito nei confronti delle altre nazioni europee: le uniche attenzioni andarono verso le questioni di giurisdizione per i territori confinanti con l’impero Bizantino (Slavi e Bulgari), accontentandosi del legame con la dinastia carolingia per una comunione con le chiese d’oltralpe.

    Il Sud della penisola vide un netto peggioramento della situazione: il mancato ritorno delle terre pontificie di Sicilia e Dalmazia dopo la fine delle controversie iconoclaste con l’imperatore d’oriente e il conseguente inserimento nell’orbita bizantina dei temi di Sicilia, Puglia e Calabria, facilitarono l’avvento della dominazione araba. La presa della Sicilia e le ripetute incursioni costiere portarono ad un completo cambiamento geografico e religioso: l’abbandono delle località costiere e la fuga nell’entroterra furono i primi passi di quello che viene chiamato il fenomeno dell’“incastellamento”, che per tutto il secolo segnò l’intera penisola italiana. Anche Roma fu saccheggiata più volte e si giunse persino a fortificare le basiliche di san Pietro e san Paolo, facendo di Castel sant’Angelo un vero baluardo per la città eterna; i porti più esposti furono abbandonati con l’accrescersi delle difficoltà della flotta bizantina e con l’evolversi delle politiche commerciali mediterranee. L’interesse degli imperatori carolingii per la difesa delle terre del meridione italiano fu sempre mediato dalle necessità d’oltralpe e dall’evitare nuovi conflitti con Costantinopoli: le varie spedizione risultarono sempre più fallimentari e il pericolo arabo si fece sentire sempre più vicino, mentre le singole città, un tempo federate con Roma e con l’impero, diventarono realtà autonome e incapaci di collaborare. Il secolo IX vide un continuo farsi e disfarsi di alleanze e guerre di cui spesso l’arabo non era che un pretesto: le vicende delle città di Bari e di Otranto ad Est e di Napoli e Salerno ad Ovest sono esempi concreti di questa situazione. La difesa era condizionata dagli interessi locali e dai conflitti fra giurisdizioni e poteri: solo dopo un secolo di aspre lotte e grazie soltanto alla debole, ma decisiva, lega organizzata dal papa all’inizio del X secolo, si porrà fine alla presenza araba nell’entroterra della penisola con la battaglia sul fiume Garigliano. A quell’epoca in Italia dell’impero carolingio non restava altro che un lontano ricordo: solo a Nord uno spettrale e quanto mai frazionato Regno d’Italia cercava ancora di mantenere ordine e unità negli scontri dinastici, dichiarandosi, però, impotente di fronte alla calata degli Ungari.

    Fonti e Bibl. essenziale

    C. Azzara – P. Moro, I capitolari italici, Viella, Roma 1998; P. Cammarosano, Storia dell’Italia medievale. Dal VI all’XI secolo, Laterza, Roma-Bari 2008; O. Capitani, Storia dell’Italia medievale, Laterza, Roma-Bari 2004; S. Gasparri, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. I Dalle Origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1977, 144-213; C. Wickham, Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo secoli V-VIII, Viella, Roma 2009. Per gli aspetti culturali si consultino gli Atti delle Settimane di Studio per l’Alto Medioevo del Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto.


    LEMMARIO