Lotta per le investiture – vol. I

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    Autore: Tommaso di Carpegna

    Con questa espressione, presente da oltre un secolo nella storiografia, si indica la serie di conflitti combattuti per quasi un cinquantennio (1075-1122) tra il papato riformatore e l’Impero per il conferimento dei benefici ecclesiastici (soprattutto vescovati e abbazie). Si tratta di una contesa giuridica ben percepita dai contemporanei al livello di superficie, ma sotto la quale si agitava uno scontro di fondo e dalle dimensioni molto più ampie: se cioè la società cristiana dovesse riconoscere l’Impero oppure la Chiesa come l’istituzione unitaria che le dava forma e da cui riceveva direzione. La posizione dell’imperatore (e, dietro di lui, di tutta la Chiesa imperiale, la Reichskirche) era di tipo tradizionale: il sovrano, persona consacrata, re e sacerdote come Davide e Cristo, aveva il diritto di investire i chierici di una funzione sacra e di provvederli di benefici, in quanto costoro, oltre a ricoprire ruoli di governo civile (e dunque potendo naturalmente ottenere l’incarico in quanto officiali regi o imperiali), erano parte integrante dell’Impero, questa volta inteso come istituzione sacra. Non si trattava dunque di procedere all’ordinazione dell’eletto (atto sacramentale che fu sempre riservato al clero), né, almeno in linea teorica, di sceglierlo, poiché al contrario vescovi e abati avrebbero dovuto essere eletti canonicamente, gli uni dal clero e dalla popolazione della loro città, gli altri dai confratelli. L’imperatore, però, poteva conferire all’eletto sia l’ufficio civile sia quello religioso. Questo avveniva attraverso la cerimonia della traditio o investitura, durante la quale il sovrano consegnava all’eletto l’anello e il pastorale, intendendo così che la dignità episcopale era al contempo spirituale e temporale. Questa procedura comportava, di fatto, che l’imperatore non solo fosse in grado di approvare l’eletto conferendogli l’incarico, ma che godesse altresì della prerogativa di scegliere le persone cui attribuire le dignità: cosa che in effetti avveniva dal tempo degli Ottoni in buona parte dell’Impero, dove la Reichskirche formava l’ossatura dell’amministrazione.

    La Chiesa romana seguì l’indirizzo imperiale fino al 1058-1059. In quel periodo si colgono le prime avvisaglie del cambiamento: l’opera Adversus simoniacos di Umberto di Silvacandida proclamò che i prìncipi non avevano alcun diritto di conferire l’investitura di uffici religiosi, e in una versione del Decretum in Nomine Domini non si ricordò la necessità dell’intervento imperiale nell’elezione del papa. Tanto l’opera di Umberto di Silvacandida quanto il decreto di Nicola II non delineavano affatto uno scontro frontale con l’Impero, quale si sarebbe prodotto solo a partire dal pontificato di Gregorio VII; tra l’altro, l’opera del cardinale Umberto ebbe un impatto molto limitato. Si andava però delineando in quel tempo una ridefinizione complessiva del concetto di Chiesa: un concetto via via più esclusivo e gerarchico, tendente alla separazione tra la sacralità del clero e la profanità dei laici e che, soprattutto nell’ambiente più rigoroso, intendeva escludere questi ultimi da qualsivoglia intervento nella sfera ecclesiastica (anche quando, come in questo caso, l’elemento temporale era indissolubilmente legato a quello spirituale). Dietro a questa concezione vi era la costruzione di un’idea di corpo sociale corrispondente non più all’Impero, bensì alla Chiesa romana, il cui capo, il pontefice, avrebbe dichiarato di rappresentare il vertice della Cristianità. Gregorio VII (1073-1085) portò la lotta per le investiture al grado di incandescenza con i sinodi del 1075, 1078 e 1080, con la deposizione e scomunica dell’imperatore (1076), con l’equiparazione tra investitura laica ed eresia e con la minaccia di delegittimare tutti i chierici che avessero ricevuto investiture dal potere pubblico. La reazione imperiale e della Reichskirche, d’altro canto, fu durissima e portò alla deposizione di Gregorio VII e all’elezione di un altro pontefice, Guiberto di Ravenna-Clemente III (1080-1100). In quel periodo, numerosissimi furono i libelli politici scritti per difendere o per attaccare le due posizioni contrapposte. La contesa non si spense con la morte di Gregorio VII (1085) ma continuò con toni aspri sotto Urbano II, che la allargò ai regni di Francia e d’Inghilterra. Dei suoi anni è la Collectio canonum del cardinale Deusdedit, in cui sono espresse posizioni radicali. Una via verso la composizione cominciò a delinearsi al tempo di Pasquale II ed Enrico V, che tentarono un accordo nel 1111, subito fallito. Preso prigioniero dal sovrano, Pasquale II fu obbligato a emanare un privilegio in cui gli riconosceva il diritto di investitura, che fu immediatamente chiamato “pravilegium” dagli oppositori. Callisto II ed Enrico V ripresero le trattative tentando di distinguere, nell’investitura, l’elemento religioso da quello temporale, così come suggerivano i grandi canonisti parigini. Proprio su questa via si poté finalmente giungere al Concordato di Worms (23 settembre 1122). Si tratta di un documento compromissorio che contiene due dichiarazioni congiunte. L’imperatore Enrico V dichiarò di rimettere alla Chiesa l’investitura con l’anello e il pastorale e di riconoscere a tutte le chiese dell’Impero la libera elezione e consacrazione dei chierici. Di converso, papa Callisto II dichiarò di consentire che i vescovi e gli abati del regno di Germania fossero eletti in presenza del re e che in caso di discordia fosse il re ad arbitrare la scelta. In Germania il re avrebbe accordato i regalia (cioè i diritti regi) prima della consacrazione; in Italia e Borgogna (le altre regioni dell’Impero), avrebbe proceduto entro sei mesi dalla consacrazione. In tal modo si lasciava al sovrano libertà di azione in Germania, mentre questa veniva limitata in Italia e in Borgogna, cosicché l’accordo di Worms fu di fatto favorevole alla Chiesa romana. Benché in seguito le ostilità riprendessero anche in forma accesa, si era però ormai giunti alla definizione di un principio cardine che avrebbe informato tutta la storia politica basso medievale: all’imperatore, seppure al massimo grado, spettava solo il governo delle cose temporali. La tradizionale simbiosi tra regalità e sacralità già si avviava al tramonto. La storiografia che affronta questo tema ha da gran tempo selezionato alcuni episodi narrativamente evocativi, tra i quali spicca soprattutto, come emblematico, l’incontro di Canossa tra il pontefice e l’imperatore penitente (gennaio 1077). Attualmente si discute se questa scelta nella linea del racconto corrisponda davvero alla complessa dinamica degli accadimenti e sia utile alla comprensione del fenomeno generale di crisi e rinnovamento al cui interno si colloca la lotta per le investiture.

    Fonti e Bibl. essenziale

    A. Fliche, La riforma gregoriana e la riconquista cristiana, 1057-1123, SAIE, Torino 1959 (ediz. orig. La Réforme grégorienne, Spicilegium sacrum Lovaniense, Louvain 1924-1937); O. Capitani, Papato e Impero nei secoli XI e XII, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, II/2, Il Medioevo, UTET, Torino 1983, 117-163 ; G. Tellenbach, Reich und Kirche vor dem Investiturstreit, a cura di K. Schmid, Thorbecke, Sigmaringen 1985; U.-R. Blumenthal, The Investiture Controversy: Church and Monarchy from the Ninth to the Twelfth Century, University of Pennsylvania Press, Philadelphia (PA) 1988; G.M. Cantarella, Dalle chiese alla monarchia papale, in G. M. Cantarella, V. Polonio, R. Rusconi, Chiesa, chiese, movimenti religiosi, a cura di G.M. Cantarella, Laterza, Roma-Bari 2001, 3-79; M. Miller, The Crisis in the Investiture Crisis Narrative, «History Compass», 7/6 (2009), 1570-1580.


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