Autore: Mariano Dell’Omo
Monachesimo prebenedettino. In Italia la parabola evolutiva del monachesimo anteriore a quello benedettino, che dall’eremo va verso il cenobio, è incarnata dall’esperienza dello stesso s. Benedetto da Norcia (ca. 480-ca. 547), che dalla solitudine anacoretica di Subiaco passa all’organizzazione pienamente cenobitica di Montecassino, comunità centralizzata sotto un unico abate e una sola regola. Due furono i testi che più di altri ebbero successo tra i monaci della penisola come del resto in tutto l’Occidente, essendo già noti negli anni 420-430: il De institutis coenobiorum e le Conlationes di Cassiano, scaturiti dall’esperienza del deserto tra gli anacoreti della Palestina e dell’Egitto, sì da costituire un punto di riferimento per la vita dei monasteri che andavano sorgendo, a Roma in primo luogo, nel corso del sec. V, a partire da quello di S. Sebastiano sulla via Appia fondato da Sisto III (432-440), seguito da altri presso le principali basiliche e le antiche diaconie. Il modello anacoretico rappresentato dall’isola di Lerins nella Gallia meridionale (Cannes) segna la vita del monachesimo italico tra IV e VI sec., come testimoniano gli eremi di Monteluco nei pressi di Spoleto, di Eutizio in Val Castoriana non lontano da Norcia, e ancora quelli costituiti da Equizio, facenti capo alla fondazione di Amiterno vicino L’Aquila. Allo stesso ambito di tradizioni appartiene anche il monastero fondato nel castrum Lucullanum di Napoli dall’africano Eugippio († poco dopo il 536), discepolo del monaco s. Severino, apostolo del Norico. Ad una tradizione monastica tendente alla separazione dalla società, si giustappone in Italia una seconda, fiorente all’interno della comunità ecclesiale, grazie a vescovi come s. Eusebio a Vercelli, s. Ambrogio a Milano, s. Paolino a Nola. Caso isolato infine, sincrono sebbene del tutto estraneo all’esperienza benedettina di Montecassino, è quello di Vivarium presso Squillace in Calabria, dove Cassiodoro, già ministro di Teodorico, reduce da Costantinopoli, fondava intorno al 554 un monastero i cui monaci si dedicavano specialmente allo studio della Bibbia, coltivando al tempo stesso per una retta intelligenza delle lettere sacre quelle profane, in un nobile seppur troppo precoce tentativo di mediazione e sintesi tra antichità pagana e novità cristiana.
Da Benedetto di Montecassino a Benedetto d’Aniane (secc. VI-IX). L’abbazia di Montecassino fondata da s. Benedetto verso l’anno 529 fu il punto iniziale di un’avventura monastica che condusse nel corso del medioevo alla formazione in terra italiana di vere e proprie congregazioni, ispirate in misura diversa da quella Regola benedettina che Gregorio Magno nel II libro dei Dialogi definisce «notevole per il senso della misura e bella per la perspicuità della forma» (cap. 36). Dopo la distruzione di Montecassino nel 577 ad opera dei Longobardi, la comunità trovò rifugio a Roma, il luogo più idoneo per una precoce diffusione della stessa Regola benedettina oltre le Alpi, nel territorio della Gallia, dov’è attestata per la prima volta nella lettera inviata nel 625-630 da Venerando, fondatore del monastero di Altaripa in Aquitania, al vescovo Costanzo di Albi. Negli stessi anni, all’incirca dal 629, a Luxeuil (Haute-Saône, Francia), prima fondazione monastica dell’irlandese s. Colombano sul continente europeo, la Regola benedettina e quella colombaniana erano entrambe applicate in un regime di “regola mista” sotto l’abate Valdeberto. Proprio al nome di Colombano è collegato il fatto più notevole della storia religiosa dell’Italia del nord nel sec. VII: la fondazione del monastero di Bobbio nel 614, con il conseguente sviluppo di un monachesimo iro-franco che facilitò il graduale avvicinamento dei Longobardi, ancora ariani, all’ortodossia romano-cattolica. La svolta religiosa grazie alla quale dalla fine del sec. VII i Longobardi abbandonano gli ultimi residui di arianesimo e di scisma, rende questi ultimi protagonisti di una politica di ampio favore nei riguardi delle istituzioni monastiche sul suolo italico: da S. Pietro in Ciel d’Oro (Pavia) a Nonantola (nel contado di Modena), Farfa, S. Vincenzo al Volturno, la stessa Montecassino che rinasce intorno al 717/718 grazie al bresciano Petronace, con il contributo della vicina abbazia di S. Vincenzo e il sostegno di papa Gregorio II. Nel frattempo in un atto di donazione del gastaldo senese Vuarnefredo per S. Eugenio di Siena nel 730, si legge esplicitamente per la prima volta in Italia che i monaci di quel cenobio erano tenuti a vivere nell’osservanza della Regola di s. Benedetto. Ormai si registra al sud come al nord della penisola una graduale affermazione del codice benedettino su tutte le altre regole, come testimonia il fatto che da Montecassino, durante l’abbaziato di Teodemaro (777/778-796), su richiesta di Carlo Magno re dei Franchi e Longobardi, è inviata ad Aquisgrana una copia dell’esemplare della Regola. Sarà poi lo stesso Carlo a favorire nel regno franco l’ascesa di una grande personalità monastica come Benedetto d’Aniane (†821), al quale, con il successivo determinante appoggio dell’imperatore Ludovico il Pio, si deve il definitivo primato della Regula Benedicti su tutte le altre nei territori dell’Impero, in base a quanto era stato sancito nel primo e secondo sinodo di Aquisgrana (816, 817). Nessun abate italico fu presente in quell’occasione, ma la riforma anianense, pur interrotta dalla prematura morte di Benedetto, avrà modo di diffondersi anche in Italia (Nonantola, Montecassino). Nel frattempo l’abbazia di Cluny, fondata l’11 settembre 909, va perfezionando l’ideale monastico anianense mediante l’osservanza integrale della Regola e il principio del raggruppamento di più case in una istituzione centralizzata (Ecclesia o congregatio Cluniacensis, divenuta tra XII e XIII sec. un vero e proprio Ordo come quello cistercense).
Primi influssi cluniacensi a Roma e in Italia. In Italia l’influsso cluniacense si registra in primo luogo nell’opera di riforma compiuta a Roma dall’abate Oddone di Cluny a partire dal 936, specialmente a S. Paolo fuori le mura e S. Maria sull’Aventino, non senza riflessi anche a Montecassino. Pochi anni dopo, richiamato in Italia dal papa nel 939, Oddone estese la sua opera ad altri centri monastici del nord Italia come S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. Grazie poi all’azione vigorosa del successore Maiolo (948-994) l’influenza cluniacense toccò altri centri monastici: S. Salvatore di Pavia, Pomposa, ancora S. Paolo di Roma, S. Apollinare in Classe a Ravenna, S. Giovanni di Parma. Usi cluniacensi sono testimoniati a Farfa nella Sabina (Liber tramitis aevi Odilonis, 1027-60) come pure a Cava dei Tirreni presso Salerno. Tra i tanti monasteri italiani tuttavia il solo che fece parte della congregatio cluniacense con il titolo di abbazia fu S. Benedetto di Polirone (San Benedetto Po, Mantova), mentre altri pur notevoli, come Pontida o Vertemate, mantennero il carattere di priorati. E ancora nel quadro dell’influsso cluniacense, notevole fu la fondazione (1003) del monastero di S. Benigno di Fruttuaria (San Benigno Canavese, Torino) ad opera di un discepolo di Maiolo, Guglielmo da Volpiano, il cui impulso riformatore è alla base della vasta rete monastica fruttuariense.
- Romualdo e gli inizi dell’esperienza camaldolese. Mentre in Italia tra X e XI sec. l’ideale cenobitico riceve l’apporto di correnti monastiche d’oltralpe, s. Romualdo, nato a Ravenna nel 952, rilancia nuovamente in Occidente l’ideale anacoretico nato in Oriente, sebbene la sua organizzazione di tipo eremitico sia basata sul riferimento esplicito alla Regola cenobitica di Benedetto. Il suo progetto consiste infatti nello stretto legame tra cenobio ed eremo sotto la guida di un unico superiore vivente in quest’ultimo. Il cenobio doveva servire alle varie attività destinate al sostentamento materiale dei monaci, svolgendo tuttavia in primo luogo una funzione propedeutica, di preparazione all’eremo. Approvata da papa Pasquale II nel 1113 la nascente congregazione, il cui superiore era lo stesso priore del Sacro Eremo camaldolese, contava già diversi eremi e cenobi, tra i quali i più importanti erano quelli di Camaldoli in Toscana (Poppi, Arezzo) e di Fonte Avellana sul Monte Catria (Serra Sant’Abbondio, Pesaro) in diocesi di Gubbio.
- Giovanni Gualberto e i Vallombrosani. Anche per Giovanni Gualberto nobile fiorentino, già monaco nel monastero di S. Miniato, la scelta di ritirarsi in solitudine presso Vallombrosa (Firenze) nel 1036 diede avvio ad una forma monastica di prevalente impronta eremitica, la cui espansione tuttavia in seguito determinò la nascita di una nuova congregazione monastica di tipo cenobitico, che raggiunse il suo massimo sviluppo in Toscana, e che fu particolarmente polemica verso le degenerazioni della vita clericale, come nel caso del vescovo simoniaco Pietro Mezzabarba. Caratteristica della congregazione vallombrosana, il cui incremento dopo la morte del Gualberto si deve a Bernardo degli Uberti, abate generale, cardinale e vescovo di Parma (†1133), è il fatto che i diversi monasteri godevano di una posizione paritaria, secondo un modello di relazioni più vicino a quello cistercense, che non a quello cluniacense di tipo più verticistico.
- Guglielmo da Vercelli e S. Giovanni da Matera (Montevergine e Pulsano). Tra XI e XII sec. altri movimenti rigoristici, fondati rispettivamente da s. Guglielmo da Vercelli e s. Giovanni da Matera, si affermano in un ambito locale più circoscritto. Il primo ebbe il suo nucleo d’origine nel monastero di Montevergine (1124) sul monte Vergiliano (Avellino), destinato a divenire sede di un celebre santuario mariano oltre che capo di una florida congregazione, ufficialmente approvata da papa Alessandro III (1161-72) e confermata in particolare da Lucio III e Celestino II. Organizzata con case dipendenti forse sul modello cluniacense e osservante la Regola benedettina, la congregazione verginiana incrementò particolarmente lo spirito di fedeltà a Roma tra popolazioni che prima dell’influsso normanno avevano conosciuto una presenza ecclesiastica e monastica di derivazione bizantina. Giovanni da Matera, dopo diverse e dolorose esperienze dava inizio nel 1129 ad una congregazione monastica di orientamento eremitico e marcatamente penitenziale, detta dei Pulsanesi, dal nome di Pulsano, alle pendici del monte Gargano, via via sostenuta dal riconoscimento e dall’approvazione dei papi Innocenzo II, Eugenio III, Alessandro III, oltre che dalla protezione dei re normanni Ruggero II, Guglielmo I, e Guglielmo II, nonché dello svevo Federico II.
Nilo di Rossano (Basiliani) e Bruno di Colonia (Certosini). Altri due grandi esponenti del carisma monastico in Italia furono s. Nilo di Rossano e s. Bruno di Colonia, dalla cui vocazione alla solitudine scaturiranno poi due Ordini monastici. Nilo (†1004) dalla nativa Calabria, dopo diverse esperienze di ascetismo simile a quello praticato dai Padri del deserto (Valleluce presso Montecassino, Serperi a Gaeta), fondò infine l’anno stesso della sua morte il monastero di Grottaferrata nei pressi di Tuscolo (Frascati), divenuto infine centro della congregazione basiliana d’Italia (1579), oggi Ordine Basiliano Italiano di Grottaferrata. Bruno, originario di Colonia, dov’era nato verso il 1030, già canonico di Reims, riuscì a stabilirsi in una valle alpina, in prossimità della Chartreuse, grazie all’aiuto di Ugo vescovo di Grenoble. I suoi compagni vestiti di bianco, conducevano una vita isolata in piccole celle, riunendosi per l’ufficio comune al mattino e alla sera, e soprattutto la domenica e i giorni festivi per la celebrazione della Messa e per il pasto comune. Chiamato a Roma da papa Urbano II nel 1090, Bruno preferì tuttavia ritirarsi in Calabria, stabilendosi l’anno dopo a S. Maria della Torre (Serra San Bruno), ove morì nel 1101. Contrassegnato da un’osservanza sostanzialmente eremitica, temperata nondimeno con alcuni elementi di quella cenobitica, l’Ordine certosino ha al suo vertice il priore della Grande Chratreuse, chiamato “generale”, il quale benché eletto dalla sola comunità cui appartiene, ha giurisdizione sull’intero Ordine.
All’origine dei Cistercensi in Italia. Il primo ambito territoriale fuori della Francia nel quale si espande la congregazione cistercense è l’Italia, quando nel 1120 un gruppo di monaci per opera dell’abate Pietro di La Ferté, una delle quattro “figlie” di Cîteaux, fonda S. Maria del Tiglieto (diocesi di Acqui, Alessandria). L’anno precedente (1119) papa Callisto II aveva approvato il documento costitutivo dell’Ordo cistercense, la Carta Caritatis di Stefano Harding. Un nuovo sistema organizzativo circa le relazioni tra casa fondatrice e casa affiliata, e al tempo stesso l’istituto del capitolo generale, erano destinati a caratterizzare da questo momento la vita monastica anche in terra italiana, dispiegando gradualmente il loro influsso su altri monasteri e specialmente sulle nuove congregazioni di Regola benedettina sorte fra XIII e XIV sec.
Gioacchino da Fiore e la congregazione dei Florensi. Nato verso il 1130 a Celico in Calabria (Cosenza), Gioacchino da Fiore (†1202) era entrato poco più che ventenne nel monastero benedettino di S. Maria Requisita, in seguito occupato dai monaci cistercensi di Casamari. Trasferitosi nell’abbazia benedettina di S. Maria di Corazzo (Carlopoli, Catanzaro), Gioacchino vi fu eletto abate nel 1177. Intanto poiché il suo desiderio di affiliazione all’Ordine cistercense non poté essere accolto, dopo essersi fermato a Casamari (1183) e aver incontrato papa Lucio III che lo incoraggiò nello studio della Bibbia, egli tornò a Corazzo. Qui infine rassegnate le dimissioni da abate, con alcuni compagni si ritirò fra i monti della Sila, dando inizio ad una nuova esperienza monastica, poi culminata nella fondazione di S. Giovanni in Fiore. Respinta anche questa dal capitolo generale cistercense, che nel 1195 dichiarava Gioacchino apostata e fuggitivo, non avendo egli obbedito all’ordine di ritirarsi a Corazzo, nasceva così la nuova congregazione chiamata florense, destinata ad ottenere l’appoggio dei sovrani svevi, e a svilupparsi in Calabria, Lucania, Puglia, Campania, Lazio, Toscana. Personalità eccezionale, Gioacchino con la sua opera letteraria e monastica, specialmente per la sua concezione di vivere le primizie di un’epoca dello Spirito, avrebbe esercitato un forte influsso sulla spiritualità dei nuovi Ordini religiosi, Francescani e Domenicani, e dell’intero sec. XIII, così animato dall’ansia di riforma e di rinnovamento della vita religiosa e dell’intera Chiesa.
La vita monastica nei secc. XIII e XIV tra difficoltà e novità (Albi, Umiliati, Silvestrini, Celestini, Olivetani). Al declino dell’antica istituzione monastica, particolarmente in Italia più che nei territori d’oltralpe, corrisponde nei secc. XIII e XIV una nuova fioritura di congregazioni, il cui punto di riferimento disciplinare resta la Regola di s. Benedetto, seppure ormai in un contesto civile e religioso diverso da quello altomedievale, caratterizzato da istanze sociali emergenti dal basso, da un clima spirituale escatologico e penitenziale, nonché dai nuovi Ordini mendicanti. Di tali novità si segnalano in particolare l’Ordo dei monaci albi di S. Benedetto di Padova, fondato dal b. Giordano Forzatè, in crisi già nel sec. XIV, e gli Umiliati, che si ispiravano al modello cistercense, sul principio (1201) distinti in tre Ordini formanti un unico organismo (chierici e religiose, uomini e donne laici con vita in comune, laici in famiglia), soppressi infine nel 1571. Silvestro Guzzolini (ca. 1177-†1267), canonico della cattedrale di Osimo nella Marca di Ancona, ritiratosi in età matura nei pressi di Valdicastro, da dove poi si trasferì nell’eremo di Montefano (Fabriano), già prima del 1248 adottò per i suoi discepoli la regola di s. Benedetto. Approvato il nuovo Ordo da papa Innocenzo IV nel 1248, esso mostrò ben presto la sua capacità di mettersi in relazione con le nuove forme di organizzazione cittadina rappresentate dai Comuni. Come sui Vallombrosani, anche sui Silvestrini l’abate generale esercitava un potere centralizzato e vitalizio, che solo nel sec. XVI diverrà temporaneo. Caso raro se non unico di un abate temporaneo è invece quello dell’Ordo S. Spiritus de Maiella, che in seguito, dopo la canonizzazione del suo fondatore Pietro del Morrone (ca. 1209-†1296), futuro papa Celestino V, assunse la denominazione di Ordine dei Celestini. L’istituto dell’abate ad tempus avrà un seguito illustre nell’esperienza organizzativa della congregazione olivetana. Iniziata secondo una prassi assai diffusa come esperienza eremitica ad Accona nel 1313, la fondazione di Monte Oliveto (Siena) da parte dei tre nobili senesi Bernardo Tolomei, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini viene sancita ufficialmente dalle due lettere apostoliche del 21 gennaio 1344, con le quali papa Clemente VI dava la sua approvazione alla nascente congregazione olivetana, concedendo altresì la facoltà di fondare dei priorati dipendenti da Monte Oliveto. Segno distintivo del nuovo istituto, destinato ad influire sull’evoluzione stessa della costituzione monastica, è la durata annuale dell’ufficio abbaziale (senza proroghe dal 1349), poi triennale (dal 1351): un’assoluta novità rispetto alla tradizione precedente, che non conosceva, in linea di principio, la temporaneità dell’ufficio abbaziale. Inoltre annualmente il capitolo generale olivetano provvedeva al rinnovo delle cariche e ricostituiva le comunità dei singoli monasteri, i cui membri quindi non erano più legati dal consueto vincolo della stabilità ad un particolare cenobio. Si delinea così il modello organizzativo al quale si ispirerà nel secolo successivo la congregazione benedettina di S. Giustina di Padova.
Il sec. XV: la congregazione di S. Giustina e le nuove congregazioni monastiche di Osservanza. Il secolo XV fu ricco di grandi novità per il mondo benedettino, a partire dal pontificato di Martino V, eletto l’11 novembre 1417 nel conclave riunitosi durante il concilio di Costanza, che poneva così fine allo scisma d’Occidente. Fin dal 1419, pur tra gravi problemi, egli non tralasciò la questione della disciplina degli Ordini religiosi: non a caso in questo stesso anno egli istituiva la nuova congregazione di S. Giustina di Padova, dal nome del monastero di cui era abate Ludovico Barbo, già canonico secolare di S. Giorgio in Alga a Venezia. Dopo alcuni anni di difficile rodaggio, e dopo aver superato la sua prima crisi istituzionale, determinata dal diverso modo di interpretare l’originaria costituzione pontificia circa l’esercizio dell’autorità da parte dei vari abati, la nuova congregazione fu denominata de Observantia S. Iustinae de Padua, trovando appoggio e protezione in papa Eugenio IV che ne approvò il definitivo assetto interno con le costituzioni Etsi ex sollicitudinis debito del 23 ottobre e 23 novembre 1432. Tutti i monaci, pur appartenendo a monasteri diversi e professando per il rispettivo monastero, costituivano un solo corpo, il quale, come dispone la bolla del 23 ottobre 1432, veniva rappresentato nella sua globalità – superiori e sudditi – dal capitolo generale annuale che eleggeva 9 definitori – 2 abati e 7 conventuali –, come rappresentanti dell’intero capitolo. Tra l’altro i definitori nominavano gli abati dei singoli monasteri, la cui carica durava un anno, e vigilavano attraverso i visitatori sull’osservanza della Regola all’interno dei monasteri aderenti, i quali dipendevano direttamente dal papa, con l’esclusione perciò di ogni altra interferenza ecclesiastica o laica. Gli influssi del nuovo assetto istituzionale di S. Giustina si estesero anche ad altre nuove congregazioni italiane, come quella cistercense di S. Bernardo in Italia (1497), camaldolese di S. Michele di Murano (1474), degli Eremiti camaldolesi di Monte Corona (1525), nonché di S. Maria di Vallombrosa (1485).
Il Cinquecento. Nel sec. XVI la congregazione di S. Giustina, ormai dal 1504 dopo l’ingresso di Montecassino denominata “cassinese”, era destinata ad una notevole fioritura nel corso dell’intero secolo. Non a caso all’apertura del Concilio di Trento (1545) i soli abati benedettini presenti erano cassinesi (Isidoro da Chiari, Luciano degli Ottoni da Goito, Crisostomo Calvini da S. Gemiliano). La congregazione costituiva ormai un rilevante fattore di unità religiosa e culturale in un’Italia politicamente divisa tra regno di Napoli e ducato di Milano sotto il predominio spagnolo, granducato di Toscana, ducato di Parma, repubblica di Venezia, repubblica di Genova, Stato pontificio: dal 1409 al 1596 sono infatti ben 75 i monasteri facenti parte della congregazione, e altri 13 vi aderiranno nel corso del ‘600.
Il Seicento. Tra le novità del sec. XVII si registra la divisione della congregazione cassinese in 7 province, decretata da papa Paolo V nel 1607: romana, veneta, lombarda, toscana, ligure, napoletana e siciliana. Nella congregazione 16 erano i monasteri destinati agli studi “formali”, sebbene le dichiarazioni del 1642 disponessero che in tutti i monasteri con almeno 12 monaci si tenessero tra le altre lezioni relative ai casi di coscienza oltre che di Sacra Scrittura. Tra le diverse congregazioni spicca quella olivetana, che possedeva monasteri e santuari, spesso abitati da monaci illustri per virtù e dottrina, in tutte le principali città italiane. Segni del prestigio di cui godeva la congregazione di Monte Oliveto sono alcuni tentativi, non accolti, di unione ad essa da parte della congregazione di Montevergine nel 1580 e nel 1629. Ugualmente non coronata da successo fu lʼunione tra Vallombrosani e Silvestrini, disposta nel 1662 da papa Alessandro VII, e dopo appena cinque anni revocata da Clemente IX. La generale tendenza alla divisione in province raggiunge anche i Cistercensi d’Italia: nasce così la congregazione cistercense romana, approvata da papa Gregorio XV nel 1623. Le costituzioni furono ratificate solo nel 1643, ma dopo un decennio, forse a causa dell’esiguo numero dei monaci, la nuova congregazione fu soppressa il 5 marzo 1660 da Alessandro VII che la unì a quella toscana, mentre trascorso un secolo nel 1762 Clemente XII separava ulteriormente le due province. Altra congregazione cistercense è quella calabro-lucana, sorta nel 1605, raggruppante i monasteri della Calabria e della Lucania, tra cui la fondazione di Corazzo, celebre per la memoria di Gioacchino da Fiore. Nel 1630 inoltre papa Urbano VIII ratifica la decisione della congregazione cistercense dei Foglianti di dividersi in due rami autonomi: la Congregatio Beatae Mariae Fuliensis Ordinis Cisterciensis per la Francia, facente capo allʼabbazia di Feuillant, e per l’Italia la Congregatio monachorum reformatorum sancti Bernardi Ordinis Cisterciensis, la cui sede rappresentativa fu lʼabbazia di S. Pudenziana a Roma. Paolo V nel 1607 distribuì i cenobiti camaldolesi nelle quattro province romana, toscana, veneta e marchigiana. Poco dopo nel 1629 Urbano VIII, riconoscendo lʼimpossibilità di una pacifica coesistenza tra eremiti e cenobiti, dispose il distacco dei monasteri di tipo cenobitico dal Sacro Eremo di Camaldoli: a partire da questo momento fino alla loro soppressione, decretata dalla costituzione apostolica Inter religiosos coetus del 2 luglio 1935, i cenobiti restarono così distinti dagli eremiti.
Il Settecento. Tra le novità più rilevanti del sec. XVIII è la nascita di una nuova congregazione di provenienza orientale, detta dei Mechitaristi, fondata da Pietro Manouk (Mechitar), originario di Sebaste in Armenia (1676-1749), che si impiantò a Venezia sull’isola di S. Lazzaro nel 1715, dopo che trasferitasi da Costantinopoli a Modone in Morea nei domini veneziani del Peloponneso, ottenne l’approvazione da Roma avendo adottato la Regola di s. Benedetto (1711). In questo secolo il 1789, anno della rivoluzione francese, rappresenta un vero spartiacque, una data epocale che segna una svolta decisiva nella storia d’Europa e delle relazioni Stato-Chiesa, con conseguenze notevoli anche sulla vita religiosa, su quella monastica in particolare. Tra il 1806 e il 1810 una serie di provvedimenti eversivi conducono in Italia alla totale soppressione di Ordini e case religiose: dal regno d’Italia alla Toscana, allo Stato pontificio (quest’ultimo annesso nel 1809 all’Impero francese), fu praticata una politica e di conseguenza emanata una legislazione antimonastica; ugualmente nel regno di Napoli, con Giuseppe Bonaparte fratello di Napoleone, il colpo definitivo fu inferto il 13 febbraio 1807, allorché venne promulgata la legge di soppressione degli Ordini monastici. —
L’Ottocento. I mali denunziati da una commissione di cinque abati istituita da papa Pio IX nel 1850 con lo scopo di indagare circa le cause della debolezza della vita monastica e porvi rimedio, non erano lievi, e con radici profonde specialmente nei monasteri siciliani, ove, in un clima pressoché ancora feudale, esisteva da tempo una serie di abusi, di interferenze, di fazioni, che impedivano ogni serio tentativo di riforma. L’elezione di Pietro Casaretto, decisamente appoggiato da Pio IX, ad abate presidente della congregazione cassinese nel 1852, non costituì di fatto il rimedio tanto atteso, favorendo anzi gradualmente il distacco del ramo sublacense dal tronco dell’antica congregazione, che rimase tradizionalmente legata al solo territorio della penisola, mentre il 9 marzo 1872 veniva eretta la nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza, sotto il governo di un abate generale residente nel monastero di S. Scolastica di Subiaco, sin dall’inizio comprendente anche monasteri fuori d’Italia, oltre che animata da uno spirito missionario. Anche per gli Olivetani si registra un declino tra i primi decenni e la metà del secolo, con una ripresa verso la fine, e ugualmente per i Vallombrosani. Infine per Silvestrini e Camaldolesi non è un segno di vitalità bensì di difficoltà il tentativo di unione, poi fallito, tra le due rispettive congregazioni, le cui trattative si protrassero dal 1818 al 1827. Intanto completatosi il processo di unificazione dell’Italia, tra il 1860 e il 1861 furono promulgati nelle diverse regioni e province annesse – esclusa la Sicilia – vari decreti, sia pure occasionali e disorganici, di abolizione di questo o di quell’Ordine. Infine la legge del 7 luglio 1866 soppressiva di tutti gli Ordini religiosi, estesa al territorio di Roma con altra del 19 giugno 1873, provocava ingenti danni morali e materiali, pur prevedendo speciali riguardi per alcune sedi monastiche più prestigiose, quali Montecassino, la SS. Trinità di Cava dei Tirreni, S. Martino delle Scale nell’arcidiocesi di Palermo, Monreale, La Certosa di Pavia.
Fonti e Bibl. essenziale
P. Lugano (ed.), L’Italia benedettina, F. Ferrari Ed., Roma 1929; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del medioevo, Jaca Book, Milano 19832; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Paoline, Roma 1968; Dall’eremo al cenobio. La civilta monastica in Italia dalle origini all’età di Dante, Scheiwiller, Milano 1987; G. Andenna (ed.), Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio. Atti del Convegno internazionale, Brescia-Rodengo, 23-25 marzo 2000, Vita e Pensiero, Milano 2001; F. Salvestrini, La più recente storiografia sul monachesimo italiano medievale (ca. 1984-2004), Benedictina, 53 (2006), 435-515; G. Spinelli, Le congregazioni monastiche del Medioevo italiano (secoli XI-XIV), in R. Cassanelli – E. Lopez-Tello Garcia (edd.), Benedetto. L’eredita artistica, Jaca Book, Milano 2007, 279-288; M. Dell’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal medioevo all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra VI e XX secolo (Complementi alla Storia della Chiesa diretta da Hubert Jedin), Jaca Book, Milano 2011; A. Rapetti, Storia del monachesimo medievale, Il Mulino, Bologna 2013.