Autore: Silvia Scatena
Pochi anni prima dell’inizio del periodo considerato, nel solco dell’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI, l’idea che la libertà di coscienza e di culto rappresentasse «un diritto proprio di ciascun uomo» – e che come tale dovesse essere proclamata e stabilita per legge «in ogni ben ordinata società – veniva annoverata dal Syllabus di Pio IX fra i «principali errori del nostro tempo». Respingendo l’idea che la chiesa potesse «venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà», il documento di Pio IX sollecitava di fatto una totale opposizione fra i principi cattolici ritenuti dogmaticamente irrinunciabili e i principi che stavano alla base del moderno costituzionalismo occidentale.
Con le encicliche Immortale Dei (1885) e Libertas praestantissimum (1888) di Leone XIII, il rifiuto opposto dalla Chiesa cattolica alle sfide della modernità politica non mancò di registrare alcune sfumature, soprattutto in direzione di una maggiore attenzione alla diversità dei contesti reali in cui il principio dei diritti esclusivi della verità – e della trasposizione di ques’ultimo nell’istituzione legale dell’unica religione di Stato – si doveva concretamente realizzare. Papa Pecci formulò in particolare esplicitamente la nota distinzione fra tesi ed ipotesi, cioè fra l’ideale eterno in cui si prevedeva che la validità esclusiva della religione cattolica fosse riconosciuta dallo Stato, se necessario con la coercizione, ed i contesti, religiosamente pluralistici, nei quali, in assenza di una maggioranza cattolica, i legislatori potevano tollerare l’esistenza e l’attività di altre confessioni in vista di un bene ulteriore o per evitare danni sociali maggiori: se solo i cattolici avevano un diritto autentico e inalienabile alla libertà religiosa, in talune circostanze gli stati potevano cioè garantire, in linea di ipotesi, i diritti civili religiosi, fermo restando il principio che l’errore come tale non poteva avere gli stessi diritti della verità.
Per un secolo gli interventi del magistero romano continuarono ad intonarsi sostanzialmente su questo registro, proponendo la restaurazione di un ordine tradizionale affatto idealizzato, in cui la società si conformasse in toto agli insegnamenti della Chiesa. Anche nel nuovo clima ecumenico che l’esperienza del secondo conflitto mondiale e della cooperazione intra-cristiana contribuì notevolmente ad alimentare, chi chiedeva di ripensare le coordinate con cui tutta la questione della tolleranza religiosa e dei rapporti Chiesa-Stato era stata tradizionalmente impostata dovette puntualmente scontrarsi con la permanente validità della teoria della potestas indirecta in temporalibus, perno di tutta una manualistica di diritto pubblico ecclesiastico su cui si erano formate generazioni di seminaristi e di studenti delle università pontificie. Ancora agli inizi del 1958, il padre Gagnebet, già segretario della Commissione degli studi dell’ordine domenicano e dal 1954 «ufficiale» del S. Uffizio, ultimava in particolare un elenco di quarantadue proposizioni erronee contenute nelle elaborazioni di alcuni autori cattolici – il filosofo francese Jacques Maritain, in primis, e il teologo statunitense John Courtney Murray – da anni impegnati in un ripensamento complessivo del problema della libertà religiosa: ridotte a ventuno da un’apposita commissione e tradotte in latino, esse costituirono la seconda parte di un documento di condanna stampato nel giugno 1958 di cui solo la morte di Pio XII sembra aver poi impedito la definitiva pubblicazione.
Fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, la tradizione di studi riconducibile al filone dello ius publicum eclesiasticum fece dunque sentire tutto il suo peso nell’elaborazione degli schemi, concettuali ed operativi, con cui considerevoli settori del mondo cattolico italiano affrontano in particolare la questione dello statuto giuridico delle minoranze religiose; schemi che a loro volta a lungo si coniugano con la pesante eredità di una prassi amministrativo-giurisprudenziale segnatamente discriminatoria quale quella fascista, inaugurata dalle disposizioni sull’«esercizio dei culti ammessi» della legge del 24 giugno 1929, dalle norme di attuazione della stessa emanate con il regio decreto del 28 febbraio 1930 e da alcuni articoli del Testo unico di Pubblica Sicurezza del 1931. Sottoponendo le confessioni acattoliche ad un’imponente mole di controlli e di autorizzazioni, tale normativa aveva introdotto infatti delle pesanti limitazioni alla libertà delle confessioni acattoliche, in particolare dei protestanti, contribuendo ad accentuare una mentalità ed una prassi restrittiva reiteratamente incoraggiata dai vertici ecclesiastici, che a più riprese chiesero alle autorità di contenere la diffusione ed il proselitismo dei culti protestanti. Una prassi, questa, che di fatto sopravvisse al tornante della guerra, del passaggio dal fascismo alla repubblica e della successiva stagione costituente per riproporsi soprattutto nella prima metà del «decennio freddo».
Fra il 1943 e il 1945 molta di questa legislazione sui culti acattolici introdotta dopo gli Accordi lateranensi del 1929 era in realtà passata di fatto in desuetudine e negli articoli 8 e 19 la carta costituzionale aveva lasciate aperte molte possibilità sul terreno del riconoscimento dei diritti afferenti la sfera religiosa; secondo le note specificazioni di Giuseppe Dossetti in sede costituente, lo stesso secondo comma dell’articolo 7 sui rapporti fra Chiesa e Stato in Italia – quello che conteneva il riferimento ai Patti Lateranensi del 1929 – avrebbe dovuto prevedere sostanzialmente il vincolo per lo Stato a non disciplinare unilateralmente le materie comprese dai Patti, non già «costituzionalizzarne» tutti gli specifici contenuti.
La sottolineatura della natura strumentale di tale norma da parte di Dossetti, così come i richiami all’esemplarità dell’esperienza del costituzionalismo americano da parte di un altro autorevole giurista cattolico italiano, Costantino Mortati, relatore in sede costituente dei lavori della Commissione sui diritti pubblici soggettivi, non ebbero però corso allo schiudersi degli anni ’50: i mutamenti nel frattempo intervenuti nel panorama politico interno e nel più ampio scenario internazionale ebbero infatti una certa indiretta, ma puntuale ricaduta anche sulle soluzioni raggiunte in sede costituente nell’ambito della politica ecclesiastica. Col mutare degli scenari complessivi – il sostanziale accantonamento del patto sociale e politico che aveva retto la Resistenza e la redazione della Costituzione e quindi l’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico – e con il progressivo ingessarsi delle dinamiche interne e internazionali, anche la questione della libertà religiosa diventò cioè progressivamente una questione «congelata». Con la grande affermazione elettorale del partito cattolico nell’aprile 1948 si riaccese così in significativi ed autorevoli ambienti ecclesiastici italiani la speranza in una limitazione del valore e della portata di quelle istanze del dettato costituzionale non conformi alle aspettative di uno sviluppo in direzione confessionale della società italiana del dopoguerra. Il grande consenso cattolico sembrò infatti inaugurare una nuova fase, carica di possibilità per la realizzazione concreta di una forma statuale più vicina alla tradizionale tesi cattolica, e la pluralità delle aspettative che da più parti si erano accese in sede costituente dovette misurarsi con l’emergente individuazione in un’interpretazione estensiva dell’articolo 7 dell’asse centrale dell’intero sistema di relazioni Stato-Chiesa/e a cui subordinare la disciplina complessiva del fenomeno religioso.
Fu solo il difficile avvio dei lavori della Corte costituzionale nel 1956 a modificare significativamente i termini della questione della libertà religiosa in Italia e ad innescare un processo di «costituzionalizzazione» del diritto ecclesiastico. Sebbene sintonizzato con le più generali trasformazioni in atto nella società italiana, il processo stentò tuttavia a trovare positivi segnali di ricezione a livello politico-parlamentare e non mancò di suscitare tensioni, che a loro volta ben evidenziavano la grande difficoltà di un raccordo tra una certa maturazione della coscienza civile in fatto di diritti di eguaglianza e di libertà e le coordinate con cui la S. Sede e l’episcopato italiano nel suo complesso affrontavano in quegli anni l’avvio di dinamiche nuove nella società. Di questo difficile raccordo fu esemplare espressione il «caso» del vescovo di Prato Pietro Fiordelli, rinviato a giudizio nell’ottobre 1957 a seguito della querela da parte di due coniugi da lui accusati di concubinaggio per la scelta di sposarsi civilmente, quindi condannato per diffamazione aggravata e poi assolto l’anno successivo con due successive sentenze che, nella loro contraddittorietà, vennero quasi a prefigurare equilibri nuovi fra Concordato e società civile. Oggetto dell’ultima mobilitazione cattolica di stampo geddiano, ma, ad un tempo, anche segnale del definitivo infrangersi del sogno pacelliano di fare dell’Italia il centro propulsore di una nuova civiltà cristiana, la vicenda di Fiordelli segna per molti versi un punto di «non ritorno» e coincide con l’emergenza di sensibilità e gruppi animati da un evidente desiderio di mutamento e di riflessione critica sull’interventismo delle gerarchie nella sfera pubblica, l’autonomia del laicato, la distinzione fra il piano dell’azione politica e religiosa, last but least sulla questione cruciale della libertà religiosa e dei diritti delle minoranze. La ravvicinata successione cronologica, per fare un esempio, della nascita del gruppo fiorentino che si raccoglie attorno alla rivista «Testimonianze» nel gennaio 1958, del gruppo di «Questitalia» del veneziano Wladimiro Dorigo, impegnato sin dall’inizio sulla questione del rapporto concordatario fra Stato e Chiesa, dell’uscita di Esperienze pastorali di don Milani, sempre nel 1958, rivela in questo senso ben più di una semplice coincidenza, testimoniando piuttosto la convergenza di inquietudini e istanze di rinnovamento di voci ed espressioni diverse, per natura e dislocazione, del cattolicesimo italiano di questo ultimo tornante degli anni ’50.
Lo scenario complessivo cominciò d’altra parte effettivamente a mutare soltanto con le nuove prospettive aperte dal pontificato giovanneo, dalla Pacem in terris e, soprattutto, dall’inattesa scelta di papa Roncalli di affidare al mezzo conciliare il suo programma di aggiornamento della Chiesa: una scelta che aprì allora anche gli spazi per un significativo «avanzamento» del magistero cattolico sul tema dei diritti universali dell’uomo e in particolare di quello alla libertà religiosa e che mutò quindi anche i termini della discussione italiana.
Direttamente sollecitato dai rappresentanti delle comunità separate, l’inserimento della questione della libertà religiosa nell’agenda del Segretariato per l’unità – l’organismo originariamente deputato al compito di aiutare i cristiani non cattolici a seguire lo svolgimento del Vaticano II – avviò in particolare un intenso dibattito che, pur con fatica, non mancò di aprire delle brecce anche in un episcopato, come quello italiano, che nell’insieme aveva profondamente introiettato le fondamentali coordinate teoriche ed ideali del diritto pubblico ecclesiastico; coordinate rispetto alle quali lo stesso partito cattolico, nella fase di reviviscenza concordataria degli anni ’50, era sembrato restare nell’insieme tributario, attingendovi schemi concettuali e criteri più immediatamente operativi. Un ulteriore elemento di ritardo rispetto a una sintonizzazione della Chiesa italiana con alcuni dei temi nuovi e più controversi messi sull’agenda del concilio era inoltre costituito da una certa sua sostanziale impermeabilità alle istanze del movimento ecumenico; questa «latitanza» fece sentire tutto il suo peso anche nei confronti dei nuovi fermenti di riflessione in materia di libertà religiosa, che in altri paesi avevano trovato il loro naturale luogo di innesto proprio negli ambienti ecumenici.
L’insufficiente «alfabetizzazione» ecumenica della grande maggioranza dell’episcopato italiano condizionò non poco i modi e i tempi con cui la Chiesa italiana al Vaticano II si lasciò nell’insieme interpellare da un tema e da un dibattito, come quello sulla libertà religiosa, che al concilio ebbe anche istituzionalmente un’evidente genesi ecumenica. Presentato per la prima volta ai padri conciliari nel novembre 1963 come V capitolo del testo sull’ecumenismo, lo schema sulla libertà religiosa venne per lo più freddamente accolto dall’episcopato italiano, generalmente accostato a quello spagnolo per l’atteggiamento diffidente nei confronti delle prospettive soggiacenti al testo del Segretariato per l’unità. Nel novembre 1963 a distinguersi fra le voci italiane fu in particolare quella dell’arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit, che espresse in aula forti perplessità nei confronti di un testo che poneva a suo avviso il problema dell’esistenza o meno di un diritto alla diffusione dell’errore. L’anno successivo, a prendere le distanze dai toni fortemente critici di buona parte della componente italiana al Vaticano II nei confronti dello schema sulla libertà religiosa, furono soprattutto l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro, intervenuto ad un convegno ad Assisi sul tema La Chiesa e la libertà organizzato dalla «Pro Civitate Christiana»; il teologo di fiducia di Paolo VI, Carlo Colombo, eletto vescovo nel 1964 e dal settembre di quell’anno direttamente coinvolto nelle vicende redazionali del De libertate; il professore dell’Università Lateranense Pietro Pavan, che contribuì in modo significativo ad avvicinare il testo del Segretariato al nodo costituzionale della questione, favorendo un ripensamento dei principi della limitazione dell’esercizio del diritto alla libertà religiosa ed una più chiara incompetenza dell’autorità civile in materia religiosa.
I loro interventi e contributi non erano senz’altro rappresentativi degli orientamenti più diffusi fra l’episcopato italiano, che anche nel dibattito dell’autunno 1964, pur con varietà di toni, si distinse soprattutto – penso in particolare agli interventi dei cardinali Ottaviani e Ruffini – per la riproposizione della bontà della soluzione concordataria e per la messa in guardia dalla trascuratezza della realtà dell’ordine oggettivo, norma suprema per la coscienza. Contestualmente però, fuori dall’aula conciliare, il dibattito che il Vaticano II innescò in materia di libertà religiosa cominciò d’altra parte ad interessare e a coinvolgere settori sempre più significativi del cattolicesimo italiano; le vicende conciliari dello schema sulla libertà religiosa stimolarono in particolare diversi gruppi e riviste ad avviare un ripensamento complessivo sull’idoneità del principio concordatario come strumento atto a regolare i rapporti fra società civile e società religiosa. Si trattò inizialmente di posizioni assai circoscritte e per lo più distanti dalla sensibilità della maggioranza dei vescovi italiani; di posizioni, però, che, dopo il solenne riconoscimento conciliare del diritto alla libertà religiosa inteso quale duplice immunità dalla costrizione e dalla restrizione in materia religiosa da parte dei pubblici poteri, acquistarono quindi nuova autorevolezza, spessore e diffusione.
Complessivamente, anche in materia di libertà religiosa, nonostante i flussi e i riflussi incontrati nella stagione postconciliare, il Vaticano II – e in particolare il lungo e complesso iter redazionale che ha portato all’approvazione della dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa – ebbe in altri termini un impatto profondo sulla chiesa italiana, veicolando un mutamento a volte incerto, ma inarrestabile, dello stesso modo di porsi dei cattolici, sia nei confronti del consorzio civile, sia nei confronti delle altre confessioni religiose.
Sarà questo lo sfondo complessivo nel quale andranno quindi collocati, nella seconda metà degli anni ’60, anche l’avvio del lungo processo di revisione concordataria, conclusosi con l’accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984 e la firma del nuovo Concordato fra Italia e S. Sede, e l’apertura della stagione delle «intese» con le altre confessioni non cattoliche, a cominciare da quella firmata con le chiese rappresentate dalla Tavola valdese del 21 febbraio 1984, che ha offerto il modello per gli accordi successivi con altre chiese e confessioni non cattoliche.
Fonti e Bibl. essenziale
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