Autore: Alessandra Costanzo
Nel 318 il vescovo Alessandro di Alessandria fa scomunicare da un sinodo, convocato nella sua stessa città, il prete Ario. La sentenza viene confermata all’inizio del 325 dal sinodo di Antiochia e, nel maggio – giugno dello stesso anno, dal concilio di Nicea. Ario viene condannato per una dottrina trinitaria troppo subordinazionista, che volendo salvaguardare l’originalità dell’unico vero Dio, il Padre, il solo ad essere non generato, considera il Figlio non coeterno rispetto al Padre, da cui riceve vita, e riduce così il Figlio al livello delle creature. Il concilio di Nicea, condannando Ario e i suoi seguaci, sottolinea la consustanzialità del Figlio rispetto al Padre (homousios) e la loro unità di ipostasi.
Ma la condanna non arresta l’eresia: Ario trova sostenitori non solo in Egitto, ma anche in Siria e in Palestina, e di lì a poco in Occidente, grazie all’appoggio di Costanzo, rimasto unico imperatore. Così, dopo la metà del IV secolo, i teologi occidentali affrontano la controversia ariana, che segna gran parte della loro attività.
In Italia, fra i primi che contrastano l’arianesimo sul piano dottrinale, troviamo Mario Vittorino, di origine africana, ma che fu retore a Roma intorno al 355. Interviene nella polemica con una serie di scritti che egli presenta in relazione a quelli di un amico ariano, Candido, probabilmente un personaggio fittizio introdotto da Vittorino per dare ai propri testi una parvenza di obiettività. Così, ad una lettera di Candido, che offre un’interpretazione filosofica della dottrina di Ario, segue la risposta di Mario Vittorino, che presenta la fede nicena con toni altrettanto filosofici; alla Professione di fede di Ario ad Alessandro, inviata da Candido, Mario Vittorino risponde con i tre libri Adversus Arrium e il breve De homousio recipiendo.
Ma Roma, dove è attivo Mario Vittorino, resta piuttosto a latere della controversia ariana. Altre città risultano maggiormente coinvolte: Rimini, nel 359, vede l’affermarsi di una formula – «Il Figlio è genericamente simile al Padre» – che, voluta da Costanzo e da una minoranza filoariana, si impone alla maggioranza dei vescovi, celando un effettivo arianesimo.
Ma è soprattutto Milano la città in cui si accende di più il contrasto tra ariani e cattolici. Qui, nel concilio del 355, la minoranza filoariana, sostenuta da Costanzo, spinge la maggioranza dei vescovi alla condanna di Atanasio, tenace avversario dell’arianesimo. Ed è ancora a Milano che si concentra l’attività di alcuni tra i più decisi difensori dell’ortodossia.
In questa città infatti nel 364 si trova Ilario di Poitiers, nel vano tentativo di allontanare il vescovo filoariano Aussenzio, di cui mette in rilievo la mala fede nell’opera scritta in questa occasione, il Contra Auxentium. Del resto, l’ostilità di Ilario nei confronti dell’arianesimo si era già manifestata negli anni precedenti: tra il 356 e il 359, avendo organizzato la resistenza dei vescovi della Gallia contro il metropolita Saturnino di Arles, fautore dell’arianesimo, Ilario era stato mandato in esilio nell’Asia Minore dall’imperatore Costanzo. In questa condizione aveva composto il De Trinitate, in 12 libri: nei primi tre, pur polemizzando con sabelliani e ariani, esponeva in forma positiva la dottrina cattolica, nei restanti libri confutava la Professione di fede di Ario ad Alessandro. Gli anni dell’esilio avevano dato modo ad Ilario di capire la complessità della situazione in Oriente, dove la dottrina nicena dell’homousios e dell’unità di ipostasi faticava ad essere unanimemente accettata perché sospetta di sabellianismo. Per evitare questo pericolo, gli orientali, inclini ad insistere più sulla distinzione delle persone divine che sulla loro unità, preferivano considerare il Figlio non homousios (uguale quanto alla sostanza) rispetto al Padre, ma homoiousios (simile quanto alla sostanza). Essere antiniceno non significava dunque necessariamente essere ariano.
Ilario lo aveva capito, e così, in preparazione del concilio di Rimini del 359, scrive il De synodis, in cui tenta di appianare le incomprensioni terminologiche tra gli antiariani d’Oriente e quelli d’Occidente perché possano collaborare più efficacemente tra loro in modo da fronteggiare insieme il comune “nemico”. L’opera si distingue in due parti: nella prima, indirizzata ai vescovi d’Occidente, Ilario chiarisce che i vescovi d’Oriente non devono essere ritenuti ariani solo perché restii ad accettare la dottrina nicena dell’homousios; nella seconda parte si rivolge ai vescovi d’Oriente, rassicurandoli sull’ortodossia dell’homousios e mettendoli in guardia rispetto all’homoiousios, che può prestarsi a false interpretazioni. Il tentativo conciliante di Ilario, in vista del concilio di Rimini, non trova, come abbiamo visto, un effettivo riscontro negli esiti di quel concilio. Ed anche la sua iniziativa di allontanare da Milano il vescovo filoariano Aussenzio non va a buon fine.
Ambrogio continua l’azione di Ilario. Compiuti gli studi a Roma, intorno al 370 lo troviamo a Milano come consularis con l’incarico di governare l’Italia settentrionale. Nel 374, quando muore il vescovo ariano Aussenzio, Ambrogio, ancora catecumeno, interviene per smorzare i contrasti tra cattolici e ariani per l’elezione del successore e, non ancora battezzato, si vede acclamato vescovo. Da quel momento combatte l’arianesimo, ancora resistente a Milano, avvalendosi dell’appoggio degli imperatori che, dopo Valentiniano (neutrale alle questioni religiose) e Valente (favorevole all’arianesimo) sono aperti sostenitori della Chiesa cattolica.
Come Ilario, Ambrogio affianca la sua attività pastorale con quella letteraria in difesa dell’ortodossia. Su invito dell’imperatore Graziano, tra il 378 e il 380 scrive il De fide, in cui, contro gli ariani, difende la divinità del Figlio. L’opera è articolata in cinque libri: i primi due vengono composti nel 378 e gli ultimi tre nel 380 per contrastare le obiezioni ariane. Ambrogio completa la trattazione trinitaria nel 381 con i tre libri De Spiritu Sancto, in cui sottolinea la piena divinità ed uguaglianza dello Spirito con le altre due Persone della Trinità.
Contro gli ariani è pure il De incarnationis Dominicae sacramento, dove Ambrogio ribadisce l’unità di umanità e divinità nella persona di Cristo. L’impegno a contrastare l’arianesimo si manifesta anche in un’orazione, il Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis, relativa agli eventi del 385-386, quando Ambrogio, con il popolo di Milano, si oppose agli ariani che, sostenuti dall’imperatrice Giustina, madre di Valentiniano II, pretendevano la consegna di una chiesa per l’esercizio del loro culto. L’Aussenzio di cui si parla in quest’opera non è il vescovo ariano che Ilario aveva tentato di allontanare, ma un discepolo del goto Ulfilo, che gli ariani avevano eletto come successore di Aussenzio I in opposizione ad Ambrogio.
La controversia ariana in Italia, insieme ad Ilario e Ambrogio, vede coinvolte anche personalità di minor rilievo, attive in altre città al di fuori di Milano: Eusebio di Vercelli, Zenone di Verona, San Mercuriale di Forlì, San Rufillo di Forlimpopoli, San Leo di Montefeltro, San Gaudenzio di Rimini, San Pietro Crisologo di Ravenna, San Geminiano di Modena, Lucifero di Cagliari. Quest’ultimo in particolare è noto per essere stato il punto di riferimento di quanti, come lui, mostravano un attaccamento intransigente alla fede nicena, spesso organizzandosi, in Italia, ma anche in altre parti dell’impero, in conventicole separate dalla comunità cattolica: a Roma, intorno al 380, questi settari vengono chiamati “luciferiani” dal nome di Lucifero, malgrado non si possa dimostrare la sua partecipazione al movimento. Tra i luciferiani di Roma si ricorda il prete Faustino, autore di alcuni scritti: intorno al 380, su richiesta di Flaccilla, moglie di Teodosio, compone un breve De Trinitate, in cui, dopo aver presentato la dottrina ortodossa, discute alcuni passi scritturistici oggetto di controversa interpretazione nella polemica. Faustino scrive anche una Professio fidei e una supplica, il Libellus precum, che è fonte principale per la nostra conoscenza dello scisma luciferiano. L’autore infatti lamenta le angherie subite dagli intransigenti niceni in varie parti dell’impero e chiede per i luciferiani libertà di culto, che Teodosio, in un rescritto riportato in appendice, sembra accogliere favorevolmente.
Nel 381 il concilio di Aquileia sancisce la disfatta dell’arianesimo in Occidente, come il concilio di Costantinopoli, tenuto nello stesso anno, faceva in Oriente. Ma come spesso accade, la sentenza magisteriale non coincide con la fine dell’eresia. In Italia l’arianesimo rimane attivo almeno fino al VII secolo, sostenuto dagli invasori barbarici che, a partire dalla predicazione di Ulfila, traduttore della Bibbia in lingua gotica, diffusero l’eresia fra i popoli germanici, specialmente Goti, Vandali e Longobardi. Fu ariano il re ostrogoto Teodorico, che nel V secolo fece costruire a Ravenna il battistero degli ariani, vicino all’antica cattedrale ariana (oggi chiesa dello Spirito Santo) e solo con la regina Teodolinda i Longobardi si convertiranno al cattolicesimo.
Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo è attivo dall’Illiria all’Africa il vescovo ariano Massimino, che ricordiamo perché, pur non trovandosi in Italia, scrive la Dissertatio Massimini contra Ambrosium, in cui commenta gli atti del concilio di Aquileia del 381, dove Ambrogio aveva fatto deporre alcuni vescovi ariani illirici, e riporta varie testimonianze di parte ariana, tra cui quella di Aussenzio di Durostorum (l’avversario di Ambrogio) sulla vita e l’insegnamento del goto Ulfila.
Nel VI secolo, nel convento di Bobbio, nell’Italia settentrionale, viene raccolta ampia documentazione ariana, tra cui più di venti frammenti di varie opere, presumibilmente di uno stesso autore, rilevanti dal punto di vista dottrinale in quanto spesso polemizzano con gli scrittori antiariani. Da Bobbio provengono anche il Tractatus in Lucae evangelium e il Sermo Arrianorum, una breve esposizione della dottrina ariana.
Ancora nel XIII secolo, a Genova, Jacopo da Varazze racconta nel suo Chronicon Ianuense, la leggenda del basilisco, ritenuto simbolo del male rappresentato dall’eresia ariana. Jacopo riferisce che in un pozzo, nei pressi della basilica dei XII Apostoli, dimorava un animale con la testa di gallo e il corpo di serpente. Il vescovo Siro, dopo aver calato nel pozzo un secchio, ingiunse al mostro di entrarvi per essere estratto. Il basilisco ubbidì e accettò anche di gettarsi in mare. Da quel momento la bestia non fu più veduta, a conferma della vittoria definitiva sull’eresia ariana.
Fonti e Bibl. Essenziale
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