Proprietà ecclesiastica – vol. I

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    Autore: Fiorenzo Landi

    All’inizio del ’200 il canonico Guglielmo di Sant’Amore sintetizzò con particolare efficacia quale era la funzione della proprietà ecclesiastica: la Chiesa non è fondata, se non è dotata. In altri termini la Chiesa ha bisogno di risorse economiche senza le quali mancano le fondamenta della sua presenza nella società. Quindi l’esigenza di risorse economiche particolarmente rilevanti è legata a una delle caratteristiche peculiari della strategia pastorale della chiesa cattolica incentrata sulla creazione di una fitta rete territoriale di istituzioni finalizzate all’esercizio delle attività di culto, al proselitismo, al disciplinamento e al controllo sociale. Per questo il significato della proprietà non si esaurisce sul piano puramente economico ma coinvolge nella forma e nella sostanza la quantità e la qualità dei “servizi” erogati e la tipologia dell’esperienza religiosa che viene proposta.

    Nel corso dei secoli il clero secolare, il clero regolare e le altre istituzioni ecclesiastiche in un processo di stratificazione progressiva hanno realizzato sul territorio una delle più complesse e articolate costruzioni istituzionali della storia moderna, differenziata per obiettivi specifici, ma unitaria nello sforzo comune di sostegno e di affermazione della propria missione pastorale in una dialettica continua con le istituzioni laiche. Il territorio italiano in questo contesto ha almeno due particolarità: la prima è costituita dalla presenza del papato e di uno Stato della Chiesa, la seconda dal frazionamento in numerosi Stati, ognuno dei quali si distingue anche per la posizione specifica nei confronti della Chiesa.

    In generale la proprietà ecclesiastica aveva la funzione di produrre una rendita che doveva consentire il mantenimento del personale religioso nello svolgimento delle sue funzioni. In questo modo le istituzioni del clero secolare e regolare dovevano farsi carico del reperimento delle risorse che servivano al loro funzionamento. Il clero regolare è la componente che ha assorbito maggiori risorse patrimoniali e che ha sperimentato le strategie patrimoniali più complesse e variegate in virtù delle sua particolari forme di diffusione e di insediamento.

    Dalle origini fino alla metà dell’Ottocento si possono individuare almeno tre fasi evolutive che corrispondono all’affermazione di differenti concezioni del ruolo dei regolari all’interno della Chiesa e della società.

    La prima fase vede come protagonisti gli ordini monastici tradizionali che si prefiggono come compito quello di fornire esempi di perfezione religiosa da proporre come modello alla società laica. Dal punto di vista del funzionamento economico i monasteri e le abbazie che accolgono i monaci hanno come elemento comune una dotazione iniziale che serve per la costruzione degli edifici e la creazione di un’entrata annuale. I beni di prima erezione sono in genere donati da imperatori, sovrani e nobili. In base alla rendita che consentono, si individua un costo procapite di mantenimento che determina il numero dei religiosi prefissati. In questo caso l’unica fonte di rendita è costituita dal patrimonio e il modello economico di funzionamento è molto statico.

    Ciononostante esistono diverse possibilità di intervenire per correggere eventuali squilibri. In caso di crisi economiche si può ridurre il numero dei religiosi presenti coprendo solo una parte dei posti prefissati. In questo modo, stabilmente o limitatamente allo stato di necessità, diminuisce l’entità della rendita di funzionamento in proporzione della entità della riduzione dei membri della famiglia dei religiosi. In secondo luogo si possono fare investimenti orientati a rendere temporaneamente più produttivi beni sottoutilizzati: ad esempio si possono bonificare aree soggette a disordini idraulici, oppure disboscare e appoderare aree boschive.

    Infine, a partire dal ’500, con l’istituzione di congregazioni che raccolgono e coordinano l’attività di monasteri e di abbazie appartenenti a una stessa famiglia, come ad esempio i Cassinesi o i Camaldolesi, si possono creare meccanismi di compensazione che consentono alle strutture in difficoltà di superare periodi congiunturali negativi o eventi traumatici di carattere bellico, attraverso prestiti di denaro o accensione di piani di accumulo.

    In questo modo i monasteri e le abbazie hanno una vita lunghissima che viene generalmente interrotta solo da confische e soppressioni. Il modello economico di funzionamento garantisce una sopravvivenza senza particolari difficoltà anche in considerazione della dimensione mediamente molto vasta della ricchezza patrimoniale. Nell’economia preindustriale la dimensione dei beni immobili è un requisito di particolare stabilità soprattutto perché lo sfruttamento effettivo ha margini elevati di ampliamento che vengono dilatati solo in caso di necessità.

    Nella sottoutilizzazione delle potenzialità patrimoniali e nei rapporti di solidarietà tra istituzioni della stessa congregazione sta il limite dinamico della gestione economica degli ordini tradizionali. I beni sono ben gestiti e la solidarietà tra i monasteri consente di superare le difficoltà contingenti, ma da una parte l’obbligo di ricambiare l’aiuto e dall’altro il ricorso a interventi di potenziamento della rendita solo in caso di emergenza non produce accumulazione se non finalizzata all’accrescimento dei membri della famiglia dei religiosi che comporta evidentemente l’assorbimento delle quote di rendita eccedenti.

    Il tipo di esperienza religiosa che è legato a questa modalità economica e organizzativa ha soprattutto la funzione di proporre un modello di perfezione che dovrebbe servire alla società nel suo complesso per seguire un percorso elitario di elevazione spirituale.

    Agli inizi del ’200, quando il modello economico fondato sulla rendita patrimoniale dei beni di prima erezione ha perso gran parte del suo slancio, si afferma una nuova strategia di funzionamento economico legata agli ordini mendicanti. In questo caso l’avvio dell’iniziativa di fondazione prescinde da un patrimonio iniziale e dalla rendita conseguente per affidarsi alla ricerca della carità quotidiana. I frutti dell’elemosina devono servire per i bisogni essenziali dei religiosi e, in caso di un’eccedenza rispetto a tali bisogni , devono essere re-distribuiti ai poveri.

    In base a questa strategia si ipotizza una “rendita” senza patrimonio frutto della carità dei fedeli che ha una sua logica funzionale in due direzioni: da una parte si inserisce all’interno del mondo dell’autoconsumo e dello scambio in natura e dall’altro funziona come uno strumento di redistribuzione delle risorse. Nel dualismo della società preindustriale esistono due mondi paralleli, quello dell’autoconsumo e dello scambio in natura e quello del mercato e del denaro che ha un ruolo dominante. Gli ordini mendicanti si collocano nell’area della povertà e dell’autoconsumo con una funzione particolarmente importante dal punto di vista sia sociale sia religiosa. Essi, infatti, assorbono attraverso la cerca il superfluo di cui il donatore si priva, ne utilizzano una parte per il funzionamento del convento e re-distribuiscono quanto resta per aiutare chi non ha il necessario per vivere. Questa funzione di cerniera e di riequilibrio delle risorse assume un ruolo particolarmente rilevante sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista dell’esperienza religiosa,che da esempio elitario di perfezione diventa fenomeno di massa vissuto collettivamente a contatto diretto con i fedeli .

    Per la rapidità e l’entità della diffusione gli ordini mendicanti in pochi decenni diventano la componente quantitativamente di gran lunga dominante del clero regolare.

    I Francescani e i Domenicani, i Carmelitani scalzi e gli Agostiniani scalzi iniziano la loro attività quasi contemporaneamente e partono con lo stesso obiettivo: quello della povertà non solo individuale, ma anche collettiva. Ma la loro evoluzione li trasforma progressivamente in una alternanza tra adattamenti e radicalizzazione della regola che caratterizza soprattutto la componente francescana.

    Il punto cruciale sul quale avviene il cambiamento è costituito dal concetto stesso di elemosina. Essa consiste in un atto solidale senza contropartita, asimmetrico rispetto al dono che caratterizza le società primitive. Nelle società primitive, infatti, il dono tra i protagonisti dello scambio implica reciprocità sia pure differita nel tempo e diversa nei contenuti. Nel caso dell’elemosina, invece, il donatore concede il suo contributo in nome della carità cristiana, per essere ricompensato da Dio e non dal beneficiario.

    Ma l’elemosina facilmente può assumere dimensioni e caratteri che ne modificano le implicazioni: invece di ottenere un pezzo di pane, si può ricevere un sacco di grano, oppure un appezzamento di terra che produce dieci sacchi di grano. È vero che l’obbligo morale imporrebbe sempre e in ogni caso di re-distribuire ai poveri tutto ciò che eccede i bisogni minimi del convento, ma la donazione di terre o di edifici non si presta a una redistribuzione immediata. In questo modo diventa un patrimonio che può produrre rendita per i poveri, ma il passaggio non è più diretto e immediato e snatura il senso della scelta iniziale di povertà assoluta. Così dal punto di vista della proprietà il convento rischia di assomigliare sempre di più ai monasteri che vivono della rendita patrimoniale e paradossalmente le potenzialità di arricchimento possono anche diventare maggiori ,perché si sommano insieme le forme di patrimonializzazione tradizionale con i proventi di una ricerca di pubblica carità.

    A questo punto chi ha fatto la scelta drastica e irrevocabile della povertà assoluta , si stacca dal proprio ordine e rilancia l’ iniziativa osservante come accade – ad esempio – per i Cappuccini, mentre i Francescani osservanti si adeguano al compromesso tra esigenze di povertà e gestione delle rendite.

    Quello che in ogni caso merita di essere sottolineato è che , così come i mendicanti si sono aggiunti agli ordini monastici tradizionali e non si sono sostituiti ad essi, allo stesso modo i mendicanti conventuali e quelli osservanti non si avvicendano, ma si sommano allargando la loro presenza e assorbendo sempre maggiori risorse.

    Con il concilio di Trento e la Controriforma si verifica un’altra ondata di insediamenti di regolari. Si tratta dei Chierici Regolari, una variante rispetto ai monaci tradizionali e ai frati mendicanti, che si caratterizza per la mancanza di una regola vera e propria, sostituita da una formula vitae, cioè da una serie di norme di comportamento e di vita comune che in particolare non comportano coabitazione e abito distintivo.

    Questi nuovi ordini, finalizzati in primo luogo a contrastare la Riforma protestante e a promuovere l’educazione scolastica godono di una particolare autonomia operativa dal punto di vista economico che consente loro di mettere a frutto la lunga tradizione gestionale di monasteri e conventi. In particolare i Gesuiti apportano nell’acquisizione, nella gestione e nella valorizzazione di patrimoni e rendite una nuova attitudine orientata in modo speciale verso l’aspetto finanziario .Nella loro disponibilità patrimoniale e di rendita le somme in denaro sono particolarmente elevate e vengono utilizzate in maniera molto più dinamica con uso di strumenti del credito e una velocità di riallocazione delle risorse fino ad allora sconosciuta.

    Dal punto di vista dell’esperienza religiosa i chierici regolari introducono ulteriori elementi di coinvolgimento collettivo con un’attenzione particolare alla spettacolarizzazione, e alla catechizzazione di massa attraverso le missioni e le scuole .

    Ognuno degli ordini e delle congregazioni era nato per rispondere a bisogni specifici di carattere pastorale, assistenziale, sociale, culturale e aveva coniugato la sua specializzazione con una o più delle strategie economiche finalizzate al reperimento delle risorse necessarie al proprio funzionamento. All’interno della società questa rete di insediamenti era diventata uno dei pilastri della stabilità d’antico regime , perché orientata a una funzione caritativa e assistenziale generatrice di obblighi e, pertanto,efficace strumento di controllo sociale oltre che religioso. In positivo la fitta rete dei Regolari, integrata da quella delle parrocchie e delle confraternite, era il fondamento di una coesione sociale e un tipo di religiosità vissuta collettivamente. In negativo la proprietà inalienabile e diffusa dei religiosi trasferiva anche sul piano economico gli stessi effetti di stabilità e di immobilismo.

    La causa era legata prevalentemente alla natura del possesso e in speciale modo alla sua dimensione .Per quanto riguarda il primo aspetto, trattandosi di beni finalizzati a particolari funzioni religiose e sociali, godevano di privilegi fiscali e soprattutto erano inalienabili. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il processo plurisecolare di stratificazione aveva dilatato la dimensione soprattutto della proprietà fondiaria fino a raggiungere livelli locali talmente vistosi da diventare oggetto di polemica e di scandalo.

    La quantificazione dei beni posseduti dalla Chiesa in Italia nella seconda metà del settecento , quando inizia il processo di confisca, è impossibile da definire con precisione sia in termini assoluti che in termini relativi. Infatti non si può calcolare il significato economico della proprietà immobiliare, che costituiva il settore patrimoniale assolutamente dominante , in termini di pura e semplice estensione , perché il valore effettivo dipendeva evidentemente dalla qualità dei beni, piuttosto che dalla loro quantità. In secondo luogo il contesto polemico all’interno del quale avvennero le soppressioni toglie gran parte del significato alle valutazioni dei contemporanei sui quali si sono basate generalmente le valutazioni storiografiche.

    In termini di larga approssimazione e sottolineando l’esistenza di differenze sostanziali a seconda degli Stati e delle aree regionali, possiamo comunque ricavare dai dati emersi dalle ricerche locali un ordine di grandezza dell’incidenza media relativa della proprietà ecclesiastica dell’ordine di almeno un 10-15 per cento del totale che , però, non esclude concentrazioni molto più elevate nelle aree soprattutto urbane ad alta densità demografica. Si tratta di una valutazione di molto inferiore a quella prodotta dalle polemiche del periodo illuminista, ma in ogni caso dal significato economico rilevante soprattutto in ragione della quantità elevata di diritti d’uso aggiuntivi goduti dagli enti ecclesiastici su beni di uso comune, che si sommano alla proprietà esclusiva, e soprattutto grazie della qualità degli edifici posseduti.

    Fonti e Bibl. essenziale

    Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi sulla proprietà ecclesiastica soprattutto per quanto riguarda il clero regolare. In questa sede ci limitiamo a segnalare i contributi di carattere generale che possono essere utilizzati per ogni eventuale ulteriore approfondimento. Per un orientamento bibliografico: DIP. Dizionario degli Istituti di perfezione religiosa , a cura di G. Pelliccia – G. Rocca, Roma (1974-2003); E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento Milano 1985; Storia d’Italia, Einaudi (1986), Annali , IX, La Chiesa e il potere politico, Torino 1986; F. Landi, Storia economica del clero in Europa (secoli XV-XIX), Roma 2005; M. Rosa, Clero cattolico e società europea, Bari 2006. Per approfondimenti a livello nazionale e regionale: G. Borelli, Aspetti e forma della ricchezza negli enti ecclesiastici e monastici di Verona tra secc. XVI e XVIII, Verona 1980; A. Placanica, La Calabria nell’età moderna , Vol. II, Chiesa e società, Napoli 1988; M. Spedicato, Redditi e patrimoni degli enti ecclesiastici nella Puglia del XVIII secolo , Galatina 1990; F. Landi, Il paradiso dei monaci .Accumulazione e dissoluzione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Roma, 1996; M. Taccolini, L’esenzione oltre il catasto: beni ecclesiastici e politica fiscale dello Stato di Milano nell’età delle Riforme, Milano 1998; G. Poidomani, Gli ordini religiosi nella Sicilia moderna. Patrimonio e rendite nel Seicento, Milano 2001; M. Giannini, L’oro e la tiara :la costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa Sede, 1560-1620, Bologna 2003.


    LEMMARIO