Soppressioni – vol. II

    image_pdfimage_print
    Autore: Emanuele Boaga †

    Le soppressioni liberali postunitarie. Se per le corporazioni religiose era stato duro il colpo ricevuto dai governi del periodo illuministico, non meno duro fu quello abbattutosi nel periodo risorgimentale e negli anni immediati dopo la istituzione del regno d’Italia. Già nel corso del 1848 si ebbe nel Regno di Sardegna (che allora comprendeva Piemonte, Lombardia, Liguria e Sardegna) la polemica atroce contro i Gesuiti e la loro espulsione, e nel 1855 la legge di soppressione degli ordini e istituti religiosi, eccettuati quelli dediti in modo specifico alla predicazione, all’istruzione e all’assistenza dei malati. Questa legge, che trovava le sue motivazioni soprattutto in quelle ideologiche anticlericali e anche avverse alla vita religiosa, veniva seguita da una serie di disposizioni legislative, applicate variamente agli stati e territori che man mano che, con i plebisciti, venivano annessi al Regno di Sardegna. Dopo la proclamazione dell’unità d’Italia il 17 marzo 1861, per sopperire al grave e disastroso deficit economico in cui l’Italia si trovava a causa della terza guerra d’indipendenza intrapresa contro l’Austria conquistando ai suoi confini il Veneto e anche per uniformare la pluralità legislativa che riguardava la soppressione delle corporazioni religiose, il Parlamento senza il successivo esame del Senato proclamò la legge del 7 luglio 1866 di soppressione degli ordini e corporazioni religiose. A questa legge si aggiunse quella del 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’asse ecclesiastico. Seguirono poi i relativi regolamenti e decreti d’applicazione. Tutta questa legislazione venne anche estesa e applicata nel 1873 a Roma e alle province una volta formanti lo Stato Pontificio. Le case religiose colpite da queste leggi furono 4.474.

    Lo Stato con la suddetta legislazione, definita come “leggi eversive”, operava per la prima volta una forma d’intervento diretto nell’economia, togliendo il riconoscimento di ente morale a tutti gli ordini, corporazioni nonché congregazioni di carattere ecclesiastico, sicché il demanio dello Stato acquisì tutti i relativi beni ecclesiastici. I fabbricati conventuali che vennero incamerati dallo Stato furono poi concessi ai Comuni e alle Province, previa richiesta di utilizzo per pubblica utilità entro un anno dalla presa di possesso. Nelle leggi del 1866 e 1867 non furono previste forme particolari di tutela dei fabbricati monastici, provocando spesso la dispersione dei beni artistici di molte chiese conventuali, mentre biblioteche e archivi erano destinati a musei e biblioteche pubbliche. Per evitare gli effetti dell’art. 33 della legge del 1866, e cioè la chiusura e l’acquisizione al demanio, alcune chiese vennero allora indicate come “monumentali”. Così si salvarono tra le altre le grandi abbazie di Montecassino, Cava dei Tirreni, S. Martino della Scala a Palermo, la Certosa di Pavia.

    L’intervento istituzionale di privatizzazione operato nel 1866-1867 non era isolato. Già nel 1861 il nuovo Stato italiano iniziava a incidere sull’assetto della proprietà con la cosiddetta quotizzazione dei demani comunali, e nel 1862 con una legge del demanio dello Stato. Azione che culminava nel 1866 e 1867 con le due leggi di eversione dell’asse ecclesiastico. Complessivamente furono immessi nel mercato oltre 3 milioni di ettari (di cui ben 2,5 nel Sud) con modalità che vennero criticate.

    In base ai dati ormai acquisiti dalla storiografia uno studioso osserva: «L’obiettivo delle leggi di eversione era quello di attuare una generale privatizzazione: ma il modo come venne attuata l’eversione dei beni ecclesiastici non poteva raggiungere l’obiettivo – probabilmente mai realmente perseguito – di risollevare le classi più povere, che nella maggior parte dei casi non si trovavano nelle condizioni di accedere alle vendite e che, anzi, ne furono escluse poiché era previsti che i beni nazionali andavano venduti esclusivamente ai creditori dello Stato, in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico. Si ottenne così l’effetto di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: i vecchi nobili, gli appartenenti alla borghesia degli affari e gli alti funzionari dello Stato. Pochi privilegiati, dunque, riuscirono ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici, aggravando in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine, che videro soppressi i precedenti usi civici», ossia i secolari diritti di pascolo, legnatico e erbatico. Lo Stato pertanto non ricavò tutti quei benefici economici che si attendeva dall’ingente massa delle proprietà ecclesiastiche.

    L’operazione svolta con le leggi del 1866 e 1867 oltre a tradursi in una paurosa liquidazione dei beni dei religiosi e alla chiusura di moltissime case religiose, colpiva indistintamente moltissimi ordini e istituti religiosi, maschili e femminili, provocando gravissimi disagi sia all’organizzazione delle famiglie religiose, private di beni, di luoghi e della possibilità di accogliere novizi, sia ai singoli religiosi costretti a uscire dal chiostro, secolarizzandosi, ritornando in famiglia e, soprattutto per le vocazioni meno solide, abbandonando l’abito.

    Le leggi eversive vennero applicate in tutto il Regno in modo abbastanza rapido, seguendo una procedura formalmente cortese ma inflessibile sostanzialmente. Non vi furono manifestazioni radicali, ed anche le reazioni dei religiosi e delle popolazioni non ricorsero mai ad una resistenza ad oltranza. La soppressione dei conventi avveniva seguendo un rituale uniforme. Nel giorno stabilito dal governo e comunicato alla comunità religiosa, il commissario regio, incaricato della liquidazione dell’asse ecclesiastico, giungeva al convento, riuniva tutti i religiosi presenti in esso, consegnava loro i libretti della pensione governativa, e faceva procedere all’inventario dei locali e dei beni in esso presenti. A questo punto, il superiore della comunità, secondo le istruzioni date dalla Santa Sede, leggeva una dichiarazione con cui rivendicava i diritti del proprio Ordine, ritenendo illegittima la confisca e affermando di cedere alla violenza solo per evitare mali maggiori. Durante la minuziosa operazione dell’inventario, non mancavano discussioni e contestazioni sull’esatta portata della legge, per salvare dall’incameramento gli oggetti usati abitualmente dai singoli religiosi e non dalla comunità. Nei giorni seguenti avveniva la dispersione della comunità.

    Naturalmente le conseguenze dell’applicazione delle leggi eversive furono diverse secondo gli istituti. Con la legge del 1866 vennero soppresse 1.794 case religiose ed espulsi da esse 22.213 membri, mentre si sottrassero 385 case con 5.390 religiosi/e. Con al legge del 1873 nella provincia di Roma le case soppresse furono 131 con 2.888 religiosi, mentre rimasero in vita 87 case, di cui 15 a beneficio di stranieri, per un numero non precisato di religiosi/e. Tuttavia nessun ordine religioso scomparve interamente in conseguenza delle leggi eversive.

    Inoltre non va dimenticato che dopo una rigorosa attuazione iniziale delle leggi di soppressione, in molte parti d’Italia si ebbero fenomeni di “sopravvivenza illegale” di conventi, dovuta a una certa tolleranza da parte delle autorità governative, che occupato l’edificio conventuale utilizzava a volte solo parte di esso, permettendo ai religiosi di rimanere nei pochi locali rimasti liberi. Ciò avveniva soprattutto nei conventi annessi a chiese molto frequentate o sede di parrocchia. Anche il divieto di indossare l’abito religioso in pubblico, fu sovente violato, senza gravi conseguenze.

    La Santa Sede, al di là del conflitto giuridico con lo Stato, tenendo conto del modo con cui venivano applicate le leggi e i relativi regolamenti sulla soppressione e sui religiosi costretti a lasciare il chiostro, emanò una serie di provvedimenti-guida. In particolare raccomandava ai religiosi/e di continuare, magari in piccoli gruppi di almeno tre religiosi, la vita in comune se possibile ancora nei propri conventi o in case appositamente acquistate o affittate, rimanendo il legame con i propri superiori. Confermava anche la loro soggezione ai rispettivi superiori, e per chi fosse costretto a vivere da solo, la sottomissione all’Ordinario diocesano. Più interventi furono rivolti dalla Sacra Penitenzieria Apostolica ai religiosi di voti solenni esclaustrati a motivo del voto di povertà, concedendo non solo la possibilità di ricevere la pensione stabilita dalle leggi statali, ma anche quella di acquistare beni immobili a proprio nome o per interposta persona, purché venissero devoluti a beneficio di rispettivi ordini, una volta tornata la normalità. Si suggeriva anche per dare legale esistenza alle comunità religiose, di ricorrere al sistema escogitato da Don Bosco, la società tontitaria. Per lo Stato italiano la questione della pensione divenne un problema, come dimostrano le non poche cause intentate da religiosi contro il governo per dimostrare il loro diritto a riceverla.

    Il regime di soppressione si andò attenuandosi progressivamente in concomitanza della nuova fase dei rapporti tra Stato e Chiesa. dalla seconda metà della decade degli anni ‘80, il nuovo corso instaurato da Leone XIII, il timore dell’avanzante socialismo e l’attenuazione del bieco anticlericalismo degli anni precedenti, un diverso clima internazionale e il consolidamento delle alleanze di politica estera del Regno d’Italia, resero più fluida la situazione. Così le famiglie religiose soppresse ripresero lentamente a ricostruirsi e si aggiunse la nascita di nuove congregazioni religiose maschili e femminili, modellando diversamente la vita religiosa italiana. Sintomatico risulta un intervento alla Camera dei Deputati nel 1895, in cui si ammetteva che lo Stato aveva perduto la sua battaglia contro gli ordini religiosi.

    Le questioni nei rapporti tra Chiesa e Stato per l’incameramento dei beni ecclesiastici e per altre materie furono alla fine superate con gli accordi del Concordato del 1929.

    Le soppressioni decretate dalla S. Sede. Nel periodo che stiamo considerando su ebbe la soppressione e l’estinzione conseguente di alcuni istituti religiosi da parte della S. Sede.

    Le Missionarie adoratrici e riparatrici del s. Cuore di Gesù, fondate poco prima del 1930, furono soppresse dal S. Uffizio il 2 luglio 1930 per la mancanza di elementi validi per vivere in comunità religiosa. Non ottemperando le prescrizioni ricevute la loro soppressione venne confermata il 1 febbraio 1933. Seguì il 12 gennaio del 1933 la soppressione degli Eremiti di S. Gerolamo del b. Pietro Gambacorta, che contava allora 7 conventi con un totale di soli 15 sacerdoti e 4 laici. A causa della degenerazione in cui si trovava l’Ordine della Penitenza di Gesù Nazareno, i cui membri popolarmente erano detti gli Scalzetti, dopo numerose visite apostoliche si giunse alla sua soppressione de estinzione con il breve apostolico “Romanorum Pontificum” di Pio XI in data 20 aprile 1935. Infine, per l’esiguo numero dei membri furono soppressi il 13 febbraio 2972 i Frati della Carità, più noti come Frati Bigi.

    Anche, se non proprio di soppressioni se si può ricordare l’operazione delicata e non priva di difficoltà operata dopo il 1929 dalla S. Sede per una revisione della consistenza e distribuzione delle diocesi. Fino agli anni ’50 scomparsero attraverso l’accorpamento o unione di sede e titoli, una trentina di diocesi. Infine il processo iniziato negli anni ‘60 giunse alla sua realizzazione con la ristrutturazione del 30 settembre 1986 con l’eliminazione (fusione) di un centinaio di diocesi. Con questo nuovo assetto le diocesi italiane risultano attualmente in numero di 225.

    Fonti e Bibl. essenziale

    G. Martina, Soppressioni: 1866 – Italia: s. liberali, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VIII (Roma 1988), 1872-1876; G. Romanato, Le leggi antiecclesiastiche begli anni dell’unificazione italiana, in Studi storici dell’Ordine dei Servi di Maria, 56-57 (2006-2007), 1-120; G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli Istituti religiosi in Italia dalla soppressione del 1866 a Pio XII (1939-58), in Problemi di storia della Chiesa, dal Vaticano I al Vaticano II, Edizioni Dehoniane, Roma, 1998, 239-294; C. Mirabelli, I progetti parlamentari di soppressione degli enti regolari e di riforma dei patrimoni ecclesiastici (1864-1867), in Atti del congresso celebrativo delle leggi amministrative di unificazione, II, La legislazione ecclesiastica, a cura di P.A. D’Avack, Neri Pozza, Vicenza, 1967; R. Astorri, Leggi eversive, soppressione delle corporazioni religiose e beni culturali, in La memoria silenziosa (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 62), Ministero per i beni e le attività culturali – Uffici centrale per i beni archivistici, Roma, 2000, 42-69; C.A. Jemolo, La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia, Il Mulino, Bologna, 1974; E. Boaga, Per la ricerca storica e archivistica sulle diocesi italiane, in Rivista di scienze religiose, 7 (1993), n. 1, 119-120.


    LEMMARIO