Autore: Tommaso di Carpegna
Con questa espressione, coniata da Augustin Fliche negli anni Venti del secolo scorso e ormai abbandonata dalla medievistica, ma ancora persistente in ambienti meno avvertiti, si intendeva rappresentare il grande movimento di riforma della Chiesa compreso tra gli anni Quaranta del secolo XI e i primi due decenni del secolo successivo, interpretandolo come premessa, esecuzione e compimento di un progetto unitario di Gregorio VII (1073-1085), già avviato prima ancora che questi divenisse pontefice (le prime notizie su Ildebrando di Sovana risalgono ai primissimi anni Cinquanta del secolo XI) e proseguito attraverso l’operato dei suoi successori. La centralità di Gregorio VII nel vasto e articolato movimento di riforma del suo tempo era già avvertita da molti contemporanei, come Bonizone di Sutri, che proprio in quel papa riconobbe il protagonista dell’imponente cambiamento che avrebbe portato, nel corso di pochi decenni, all’affermazione del primato della Chiesa romana e della libertas Ecclesiae contro l’imperatore. L’errore di Fliche e dei numerosi studiosi che da lui hanno preso le mosse risiede nell’aver accettato la lettura proposta in seno alla linea risultata poi vincitrice come la verità storica. Ne discendono numerose aporie, opportunamente corrette in primo luogo da Gerd Tellenbach, Ovidio Capitani e Cinzio Violante: ritenere che l’imperatore fosse un semplice laico, che la sua azione politica fosse di rottura rispetto alla tradizione, che lo scontro si svolgesse sul piano della lotta fra spiritualità (Chiesa) e temporalità (Impero, laici) e che il movimento di riforma della Chiesa e nella Chiesa fosse organico e unitario. Al contrario, gli studiosi contemporanei hanno concluso che, lungi dal ristabilire un ordine violato, Gregorio VII voleva sovvertire il sistema ereditato dalla tradizione. Infatti l’attribuzione di prerogative di controllo e tutela della Chiesa all’imperatore, persona consacrata, era perfettamente in linea con una tradizione che si era affermata almeno a partire dall’età carolingia e che risaliva al modello di Costantino. Anche il sistema della Chiesa imperiale (Reichskirche), imperniato su vescovi e grandi abati, era percorso da fervide aspirazioni di riforma, promosse e realizzate dapprima su scala locale dai vescovi, quindi dallo stesso imperatore Enrico III (1039-1056), il propugnatore di una dura lotta contro la simonia, che rafforzò il papato e gettò le basi del protagonismo della Sede Apostolica, che a partire dagli anni Sessanta del secolo XI cercò di catalizzare e coordinare le molte anime, anche contrapposte, del movimento riformatore. Insomma, per non fare che un esempio inerente allo stesso fronte riformatore romano, per analogia possiamo affermare che Ildebrando di Sovana e Pier Damiani stanno alla Riforma come Cavour e Mazzini al Risorgimento italiano: le enormi differenze di idee ed azioni furono in entrambi i casi sottostimate dal giudizio storico, al fine di costruire l’idea di movimenti unitari e condivisi.
La prima fase della Riforma della Chiesa nel secolo XI (espressione molto più adatta di “Riforma gregoriana” per abbracciare l’intero fenomeno) fu promossa da numerose sedi episcopali in Italia e fuori di essa tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo XI. Le istanze di riforma partivano dalla constatazione che i patrimoni ecclesiastici si trovavano depauperati dalla forte commistione degli interessi delle aristocrazie. La proposta di cambiamento si rivolgeva lungo due linee direttrici fondamentali, che sono poi quelle cui s’improntò l’intero ciclo di riforme nella sua lunga durata. In primo luogo si cercò di ottenere un rafforzamento dei patrimoni, e dunque della forza di intervento sia politico che spirituale degli enti ecclesiastici; in questa azione, tuttavia, non si intendeva agire, come sarebbe accaduto in seguito, considerando le aristocrazie laiche come necessariamente estranee alle Chiese, bensì organiche e necessarie al governo. In secondo luogo, si cercò di modificare il genere di vita del clero, promuovendone la vita comune a imitazione del modello monastico. Soprattutto nella seconda metà del XI secolo e durante la prima metà del successivo furono istituite numerose canoniche regolari, ove vigeva la cosiddetta Regola di s. Agostino. La pressante richiesta di una vita vissuta con maggiore rigore mirava a realizzare un modello di chierico di fatto assimilato al monaco, sovraordinato e fortemente distinto dalla comunità di cui faceva parte. Siccome non era più accettabile che persone sposate accedessero agli ordini sacri, si diffuse il principio del celibato del clero, mentre i chierici legittimamente ammogliati fino a quel momento furono accusati – benché con forti contrasti interni, per esempio nella diocesi milanese – di “nicolaismo”. Inoltre si denunciò con forza la “simonia”, cioè l’assunzione di cariche ecclesiastiche dietro corresponsione di un prezzo, e – nel caso delle canoniche regolari riformate – si esclusero i chierici dalla possibilità di avere proprietà personali, in questo imitando ancora una volta i monaci. Sotteso a queste istanze di rinnovamento vi era l’anelito di ritornare alla purezza originaria della Chiesa, di ricreare la Ecclesiae primitivae forma: da ciò l’espressione reformatio, cioè restituzione di una forma ritenuta originaria.
Negli anni dell’imperatore Enrico III (1039-1056) gli ideali e le conseguenti politiche di riforma iniziarono ad avere un centro propulsore molto più organico che non in precedenza. Come scrive Cinzio Violante, «Enrico III […] fu l’ultimo imperatore che […] poté difendere incontrastato un ideale di collaborazione perfetta tra regnum e sacerdotium, fondato sulla sostanziale fusione di queste due realtà nella persona dell’imperatore». Durante il suo regno assistiamo al momento apicale della forza e unitarietà della Chiesa imperiale. Sceso in Italia nell’ottobre 1046, Enrico tenne un sinodo antisimoniaco a Pavia. Il suo atto più significativo fu però il sinodo di Sutri del dicembre successivo, celebrato poco tempo prima di essere incoronato imperatore. Il sovrano rimosse i tre papi che si contendevano la sede apostolica e ne scelse un quarto, Clemente II, che era l’arcivescovo di Bamberga. Da allora e per un decennio – fino alla morte di Vittore II nel 1057 – il papato romano fu sostanzialmente controllato dall’imperatore (nonostante la strenua opposizione delle aristocrazie locali), la riforma iniziò ad avere l’Urbe come centro di irradiamento e il papa e l’imperatore come suoi principali propagatori. In quel periodo, soprattutto Leone IX (1049-1054) fu il pontefice che maggiormente si indirizzò verso concrete azioni di riforma..
Sarebbe peraltro erroneo cogliere nelle iniziative imperiali un desiderio di “riforma della Chiesa” nel senso solitamente attribuito a questa espressione, poiché alla sua base non vi era una nuova ecclesiologia, bensì l’uso di schemi carolingi che a loro volta evocavano, nel rapporto imperatore-papa, il modello costantiniano. Si voleva infatti il rinnovamento dell’Impero in quanto contenitore istituzionale dell’intera societas christiana. Per questa ragione, per il periodo di Enrico III può essere più espressivo ricorrere al termine “restaurazione” piuttosto che al termine “riforma”.
In quegli stessi anni si andava formando in seno alla Chiesa un gruppo di ecclesiastici (tra cui Bruno di Toul, Pier Damiani, Ugo Candido, Umberto di Silvacandida, Stefano di Lorena, Odilone e Ugo di Cluny, Anselmo da Baggio, Ildebrando di Sovana, Guiberto di Ravenna, Bonizone di Sutri) di idee molto diverse gli uni rispetto agli altri. Alcuni, per esempio Pier Damiani, apprezzavano l’operato dell’imperatore; altri (tra i quali soprattutto Ildebrando di Sovana) preparavano il terreno a un distacco tra gli ideali dell’Impero e quelli della Chiesa romana. Dopo la morte improvvisa di Enrico III, cui seguì la lunga minorità del successore Enrico IV, Roma iniziò a prendere in mano l’iniziativa in modo sempre più indipendente dall’Impero, che versava in uno stato di grave debolezza. Nel 1059, il Decretum in Nomine Domini stabilì nuove regole per l’elezione pontificia escludendone i romani e attribuendone il diritto ai soli cardinali. Anche se il decreto faceva salvi l’honor e la reverentia del re, è evidente che la Chiesa romana (o meglio, un ben individuato gruppo di cardinali vescovi con alcuni altri cardinali, tra i quali Ildebrando, allora arcidiacono) rivendicava ormai una larga autonomia, che stava per diventare la netta affermazione della Libertas Ecclesiae e la lotta senza quartiere tra Regnum e Sacerdotium. Il “sistema”, però, ancora non era strutturato e il movimento seguiva varie direzioni, non essendo per nulla omogeneo. Tant’è che, per esempio, Pier Damiani, rinunciò al cardinalato, Ugo Candido passò dalla parte imperiale, Guiberto di Ravenna, sottoscrittore del decreto del 1059, nel 1080 fu eletto papa contro Gregorio VII.
Entrando dunque nello specifico dell’operato di Ildebrando di Sovana – Gregorio VII (ché solo a lui si può attagliare perfettamente – secondo Ovidio Capitani – il concetto di “Riforma gregoriana”), possiamo riassumere la sua azione in quattro principi fondamentali e interdipendenti. Il primo di essi è la cosiddetta “clericalizzazione del clero” (l’espressione è di Pierre Toubert), ovvero la sempre più evidente volontà e capacità di distinguere i membri del clero rispetto agli altri gruppi sociali, nonché di assumere, da parte degli ecclesiastici, il controllo capillare dello spazio, dei simboli, delle liturgie e di tutti gli aspetti legati alla sacralità. Il secondo principio, che ne è diretta conseguenza, è la volontà di estromettere i laici da tutto ciò che riguarda il governo della Chiesa. Il terzo principio, diretta conseguenza degli altri due, è l’estromissione dell’imperatore, ritenuto equiparabile a un laico, da tutto ciò che riguarda la gestione del sacro, a cominciare dalle investiture dei vescovi (contrasto che provoca la “Lotta per le Investiture”). Infine il quarto principio è la sostituzione dei quadri di riferimento generali: da una idea di societas christiana ordinata nell’appartenenza all’Impero romano, si passa a un’idea della medesima societas ordinata nell’appartenenza alla Chiesa romana. La centralità della Chiesa romana e del suo vertice, il pontefice, fu dunque la grande novità che, a ben guardare (come ha fatto G.M. Cantarella), rappresentò una vera e propria rivoluzione. Naturalmente, i contrasti furono fortissimi e, alla resa dei conti, nell’immediato non portarono alla vittoria di Gregorio VII. Deposto nel 1076, egli riuscì a portare l’imperatore a chiedere il perdono a Canossa (1077), ma fu nuovamente deposto nel 1080 e si vide contrapposto l’arcivescovo di Ravenna Guiberto Clemente III (1080-1100). Sebbene fosse effettivamente stato un grande papa riformatore, propugnatore di un’idea altissima del pontificato romano e convinto della necessità che esso si ponesse alla testa della cristianità (suoi sono i Dictatus papae, ventisette proposizioni che dichiarano l’assoluta preminenza della Chiesa romana), esaltato o denigrato con toni accesi dai suoi fedeli e dagli oppositori, in realtà la sua capacità operativa fu relativamente limitata. L’ultimo suo atto, il tentativo di recuperare Roma con l’ausilio dei Normanni, portò a un immane saccheggio della città (1084) e alla fuga verso Salerno, dove morì e fu sepolto nel 1085.
La fase successiva, generalmente considerata anch’essa, in modo ovviamente improprio, parte della “Riforma gregoriana”, si situa tra la morte di Gregorio VII e il concordato di Worms (1122). Alla morte di papa Gregorio il partito riformatore, che continuò a scegliere i propri pontefici tra cardinali tutti appartenenti al monachesimo, si trovò in grave difficoltà. Mentre Vittore III (1086-1087) non ebbe neppure il tempo di procedere ad ampie riforme, il suo successore Urbano II (1088-1099) dovette competere con Clemente III, allora considerato da molti il papa legittimo e saldamente insediato a Roma. L’indebolimento dell’imperatore (al quale si ribellò anche il figlio Enrico V), la sempre più forte istituzionalizzazione della Curia romana e la sua vieppiù amplificata capacità di azione (per esempio Urbano II bandì la Prima crociata) portarono peraltro a un rafforzamento sempre maggiore del papato romano, ormai avviato su una strada di accentramento delle prerogative e di irradiamento dell’autorità che non si sarebbe interrotto fino al principio del secolo XIV. I primi due decenni del secolo XII, in particolare, pur segnalandosi per i numerosi periodi di rottura con l’Impero e per il proseguire della Lotta per le Investiture, si chiusero con una pacificazione temporanea ottenuta attraverso il concordato di Worms. Furono, quelli, in assoluto gli anni di più intensa riforma. Questa si indirizzò soprattutto verso i canonici regolari (nascita dei Premostratensi), verso i monaci (nascita dei Cistercensi) e verso i primi cosiddetti ordini monastico-cavallereschi: i Templari e gli Ospitalieri.
Fonti e Bibl. essenziale
A. Fliche, La riforma gregoriana e la riconquista cristiana, 1057-1123, SAIE, Torino 1959 (ediz. orig. La Réforme grégorienne, Spicilegium sacrum Lovaniense, Louvain 1924-1937); Studi Gregoriani (collezione curata inizialmente da G.B. Borino, edita a Roma, presso l’Abbazia di San Paolo, dal 1947, e proseguita presso il Pontificio Ateneo Salesiano); O. Capitani, Esiste un’“età gregoriana”?, «Rivista di storia e letteratura religiosa», I (1965), 451-481; G. Miccoli, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, La Nuova Italia, Firenze 1966; Il monachesimo e la riforma ecclesiastica (1049-1122), Atti della IV Settimana Internazionale di Studio (Passo della Mendola, 23-29 agosto 1968), Vita e Pensiero, Milano 1971; O. Capitani, L’Italia medievale nei secoli di trapasso. La riforma della Chiesa (1012-1122), Patron, Bologna 1984; G. Tellenbach, Die westliche Kirche vom 10. bis zum frühen 12. Jahrhundert, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1988; C. Violante, La riforma ecclesiastica del secolo XI come progressiva sintesi di contrastanti idee e strutture, «Critica Storica», XXVI (1989), 156-166; G. Cantarella, Il sole e la luna: la rivoluzione di Gregorio VII, papa (1073-1085), Laterza, Roma-Bari 2001; Riforma o restaurazione? La cristianità nel passaggio dal primo al secondo millennio: persistenze e novità. Atti del XXVI Convegno del Centro Studi Avellaniti Fonte Avellana 29-30 agosto 2004, Il segno dei Gabrielli Editori, Negarine 2006; C. Sereno, Le diverse anime della “riforma”, in Reti medievali, Repertorio, 2006, http://centri.univr.it/RM/repertorio/rm_cristina_sereno_la_riforma.html (cons. maggio 2012); N. D’Acunto, L’età dell’obbedienza: papato, impero e poteri locali nel secolo XI, Liguori, Napoli 2007.