Filosofia – vol. II

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    Autore: Stefania Pietroforte

    Nella seconda metà dell’Ottocento l’Italia era ormai uno Stato unitario e laico, in rapporti complessi e problematici con la Chiesa e il suo Stato. I fenomeni filosofici che caratterizzarono quest’epoca rispecchiavano, almeno in parte, questa problematicità. Forse non fu un caso che proprio due ex sacerdoti, Bertrando Spaventa e Roberto Ardigò, divenissero i rappresentanti rispettivamente dell’Idealismo e del Positivismo, le due correnti più importanti e più fortemente contrapposte al Neotomismo dell’agguerrita Compagnia di Gesù. Inoltre una schiera numericamente non scarna di pensatori diversi da questi era riprova del fatto che anche altre idee e interessi si muovevano nell’orizzonte, a volte combinandosi in percorsi personali di incerta coerenza, altre volte evolvendo sulla spinta di un tormento intellettuale che stentava a trovare adeguata risposta. Appartenevano a questo gruppo Ausonio Franchi e Giuseppe Ferrari; meglio ancora, per la qualità filosofica della ricerca, Giovanni Maria Bertini e Francesco Bonatelli, questi ultimi sostenuti da un profondo bisogno spirituale che in Bonatelli cercava espressione in una concezione fenomenologica che della coscienza faceva il centro propulsivo della vita spirituale, mentre in Bertini si atteggiava a ricerca del nesso possibile tra assoluto ed esistenza del mondo. C’era inoltre Carlo Cattaneo, la cui concezione filosofica -improntata a intendere il mondo come essere sociale indagabile dalle singole scienze e dalla filosofia solo come sapere ulteriore rispetto ad esse- portava con sé un senso di concretezza e vicinanza ai bisogni umani. A rendere il quadro più variegato c’era poi la dottrina di Francesco Fiorentino e del suo allievo Felice Tocco, pregevoli storici della filosofia, che con profondità e erudizione interpretarono Platone, Bruno, Kant e Hegel.

    Ma in questo panorama multiforme e senza centro apparente una filosofia più di altre, sia pure sotterraneamente, ebbe forza d’irraggiamento e reazione, quella di Bertrando Spaventa. Infatti il filosofo di Bomba, muovendo dall’Idealismo hegeliano, sviluppò una critica della trascendenza, e dell’idea platonica di cui questa si sostanziava, capace di alimentare, con modalità non sempre evidenti, le spinte antimetafisiche che sul finire del secolo si facevano largo e che si coloravano socialmente facendosi portatrici del bisogno di risolvere i gravi problemi del Paese. Da Spaventa infatti prese le mosse Labriola, rappresentante di un Marxismo inteso come materialismo storico; il filosofo hegeliano seppe apprezzare le intenzioni del nascente Positivismo e instaurare con esso un dialogo; infine, con la tesi della circolazione del pensiero europeo reinterpretò in chiave immanentistica pensatori dal profondo respiro religioso come Bruno, Campanella e Rosmini, aprendo attorno a essi un alone di nuovo possibile interesse. Insomma il segno impresso da Spaventa nella cultura filosofica del secondo Ottocento italiano fu probabilmente più forte e pervasivo di quanto nell’immediato non si comprendesse.

    Formatosi nell’ambito dell’Idealismo hegeliano molto vivace a Napoli, dove aveva conosciuto Ottavio Colecchi e Stefano Cusani, Spaventa era giunto a una filosofia del tutto diversa da quella di colui che, all’epoca, era il più famoso hegeliano italiano, Augusto Vera. Forse non alieno da simpatie nei confronti dei Tradizionalisti francesi, Vera intendeva Hegel come filosofo della trascendenza. Per Spaventa, invece, proprio la negazione della trascendenza era la cifra distintiva della filosofia di Hegel e più in generale della modernità. Nel concetto bruniano di Assoluto, essenzialmente correlato al finito, Spaventa rinveniva il nucleo da cui era scaturito il pensiero che, grazie a Kant, aveva poi trionfato con Hegel. Il frutto maturo di questa speculazione era, in particolare, l’idea che l’Assoluto fosse identità in sviluppo. Questo concetto, legato a doppio filo a quello di contraddizione, si traduceva sul piano storiografico nella tesi della circolazione del pensiero europeo. Era, questa, un’intuizione di vasta portata nella quale la tradizione italiana recuperava insieme nobili origini e un ruolo fondamentale. La tesi consisteva nella dimostrazione che la filosofia del Rinascimento fosse stata ripresa e inverata nella sua radice profonda dall’Idealismo tedesco. Cardine dell’interpretazione era il concetto di Assoluto che si imponeva come negazione radicale della trascendenza. La perizia e l’acume filosofico che sostenevano l’operazione era notevole, come quando di Rosmini si esaltava la sintesi conoscitiva riconoscendola simile a quella di Kant, e si tralasciava il motivo platonico dell’idea dell’essere. Era acqua portata al mulino dell’immanenza, idea centrale della modernità che Hegel sembrava aver messo definitivamente affermato.

    Il pericolo che questa filosofia rappresentava per i principi del Cristianesimo non sfuggì ai Neotomisti, che lo fronteggiarono direttamente ingaggiando una battaglia senza requie contro l’Idealismo. I timori già suscitati dall’Illuminismo trovavano ora conferma in una filosofia che annunciava la modernità come liberazione dalla trascendenza. La reazione provocata da questa minaccia fu così estrema che padre Giovanni Cornoldi per anni si fece araldo di una crociata contro il pensiero come sviluppo, contro l’immanentismo, contro la modernità, che appariva ai suoi occhi come errore di una ragione traviata e vera e propria diavoleria. Era, quella di Cornoldi, l’esasperazione di una filosofia che con Serafino Sordi, Gaetano Sanseverino e Matteo Liberatore, aveva voluto riproporre il pensiero di S. Tommaso come fonte principale di ogni verità teoretica. Era l’inasprimento ideologico che spingeva verso l’identificazione di una dottrina filosofica con la dottrina stessa della fede. Era anche il punto estremo di allontanamento e contrapposizione tra quella che veniva propugnata come dottrina della Chiesa e ciò che nel resto del mondo e della storia degli uomini era comunque andato avanti. Ma la teoria dell’astrazione o quella dell’anima come forma del corpo, le categorie di potenza e atto di cui i Neotomisti si servivano, sembravano del tutto inadeguate e insufficienti a soddisfare la richiesta di un sapere che, se non riusciva a precorrere i tempi, doveva almeno stare al passo con essi. A questo bisogno rispondeva invece una nuova corrente di pensiero che della sintonia con il mondo delle scienze faceva il suo vanto: il Positivismo.

    L’importanza del Positivismo fu grande. Il richiamo alla concretezza dell’esperienza, la considerazione del limite fisico imprescindibile in ogni atto spirituale, la necessità di costruire su queste basi un nuovo sapere filosofico, più aderente alla vita materiale e sociale dell’uomo, configurarono l’idea di una filosofia consona alle esigenze di una umanità avvertita del suo sviluppo storico accelerato. Se l’Idealismo di Spaventa rinvigoriva l’orgoglio filosofico nazionale, il Positivismo dal canto suo prometteva quell’innovazione culturale di cui il giovane Stato italiano aveva bisogno. Se si aggiunge poi che questa filosofia aveva tra i suoi tratti distintivi la negazione di ogni finalismo, tutto sembrava concorrere perché essa rappresentasse al meglio il carattere laico della nuova nazione. Pasquale Villari, non filosofo di professione ma studioso di fatti e leggi storiche che incarnavano lo spirito umano, ben evidenziava un tratto caratteristico del Positivismo italiano: la storicità del mondo umano, dello Spirito che era fatto di tempo e privo di un fine assoluto. L’Assoluto di cui Hegel aveva fatto il Soggetto della storia lasciava ora il campo a una storia senza Assoluto, alla storia tout court. Fu Ardigò, ex sacerdote convinto del valore morale della ricerca filosofica, a segnare con precisione i capisaldi della nuova concezione. Anzitutto l’intrascendibilità del “fatto”, ossia del dato d’esperienza, che la scienza sperimentale o sociale indaga e classifica. Questa intrascendibilità era intimamente connessa con la spinta al trascendimento. Ma nessun inconoscibile era ammesso, se non come limite della conoscenza umana, segnale della sua relatività. La coscienza non si offriva più come alveo di rivelazione della trascendenza; al contrario, costituiva l’ambito dove avveniva la presa d’atto della realtà primigenia del “fatto”, di ciò che l’esperienza fornisce e impone come inoppugnabile. Il correlato del “fatto” in campo gnoseologico era la sensazione, quel dato primario nel quale soggetto e oggetto si trovavano ancora indistinti. La lezione di Hume si rivelava preziosa per Ardigò: se la sensazione era indistinzione, non si potevano ammettere sostanze, ma spirito e corpo rappresentavano solo serie distinte formate dal lavorìo psicologico. Così il mondo prodotto dalle metafisiche d’ispirazione idealistica veniva cancellato e altrettanto ogni concezione finalistica del reale. Anche la prospettiva trascendentalistica di Kant risultava negata, perché la logica non dipendeva da forme apriori ma era costituita da schemi psichici empiricamente ricostruiti. Il Positivismo si posizionava così agli antipodi della filosofia fatta di astrazioni e reclamava l’importanza di fatti, limite e materialità per la vita dell’uomo, proponendosi come riscatto di ciò che in passato era stato troppo vile per rientrare nella vita del pensiero. Il riscatto ideale andava poi di pari passo con quello che il Socialismo e le dottrine di Marx rivendicavano in campo sociale, motivo per cui, soprattutto nella vulgata, Positivismo e Socialismo furono spesso accomunati.

    Di sicuro non condivise questa opinione Antonio Labriola, esponente di spicco del movimento socialista che seppe interpretare il pensiero di Marx con sensibilità filosofica e profondità di pensiero. Egli riteneva che il materialismo storico, vera essenza del Marxismo, avesse fatto giustizia di ogni finalismo, sia che venisse da Hegel sia che persistesse in certo evoluzionismo distorto e male inteso. L’idea su cui Labriola si basava era che la storia fosse il risultato di un agire umano caratterizzato in maniera determinante, ma non esclusiva, dai rapporti economici e di classe. In questa concezione il rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura ad essa corrispondente non era un determinismo meccanico ma era un gioco aperto di reciprocità che, senza negare la preminenza della sfera economica, restituiva alla realtà non economica un ruolo importante. Come nocciolo e scorza, struttura e sovrastruttura costituivano una sola unità. E se Marx bene aveva fatto a denunciare che le idee non cadono dal cielo e non vivono di vita propria, tuttavia non per questo si doveva ritenerle la mera proiezione della sfera di produzione materiale della vita. Lo svincolamento della dialettica dal rigidismo economicistico produceva così un effetto davvero rilevante. Se da una parte la pretesa della metafisica veniva spenta nel ricondurla al fondamento dei rapporti reali di produzione, dall’altra Labriola sosteneva che la sfera ideale giocava comunque un ruolo specifico nella dialettica storica. Il reale era immanente ma non determinismo meccanico. La storia non aveva un Fine e anche il pensiero era segnato dalla finitezza. La valorizzazione della sfera ideale stavolta serviva a corrodere le tentazioni metafisiche oscuramente annidate nel meccanicismo della dialettica, estenuandone ogni assolutezza.

    Se Marxismo e Positivismo si caratterizzarono per un atteggiamento fortemente antimetafisico e l’Idealismo di Spaventa curvò la metafisica dentro la prospettiva dell’immanenza; se il Neotomismo non trovò il modo di rinvigorirla e ne accentuò perciò il senso di caducità; tuttavia la metafisica non diede partita vinta. Dal di dentro di ciascuna di queste correnti di pensiero faceva ancora sentire la sua spinta. Malgrado il giudizio irrevocabile di Kant, il pensiero filosofico si sentiva costretto a contrastarne il continuo risorgere in forme nuove. Così, quando all’inizio del Novecento fiorì la filosofia di Benedetto Croce, volle essere anch’essa una alternativa reale alla metafisica. Sia per la ricchezza culturale di cui si sostanziava, sia per la profondità e l’equilibrio delle risposte fornite ai bisogni spirituali, la riflessione di Croce divenne un punto di riferimento imprescindibile per tutti, anche per chi se ne distanziava fortemente. Il tema della storia, che Labriola aveva affrontato a partire da Marx, ma senza trascurare Hegel e Herbart, fu ripreso da Croce per affermare però un senso diverso della creatività umana. Croce intese la storia come arte, l’arte come intuizione-espressione. Malgrado il richiamo alla concretezza, Positivismo e Marxismo non erano immuni dal pericolo di una deriva metafisica. Non bastava muovere dal “fatto” o dai rapporti di produzione per sgombrare il campo dalla coercizione di un Assoluto. L’insofferenza verso questa prospettiva aveva trovato espressione, all’inizio del secolo, nei Pragmatisti. Ma fu la Filosofia dello Spirito di Croce a spazzar via il rischio che essa rappresentava per l’individuo, riconoscendo a questi il suo valore spirituale e la responsabilità morale che ne conseguiva. A partire dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale il filosofo napoletano sviluppò un discorso sulle forme dello Spirito coniugando la libera creatività umana con le circostanze dell’esperienza storica e concepì un ritmo dialettico del reale scevro da finalismi e meccanicità, un sistema aperto -come la vita e la storia che non hanno fine e conservano un loro mistero- nel quale confluivano istanze positivistiche ed idealistiche, parole d’ordine dello Storicismo tedesco e del Neokantismo, il tutto però in una formula nuova, dove preminente era la spontaneità spirituale e assicurato il divenire. Quello di Croce intendeva essere uno Storicismo assoluto in lotta contro ogni assolutizzazione.

    Ma quale era il significato della filosofia in questo sistema? Essa sembrava avere due diversi profili. Da una parte era teoria delle forme teoretiche e pratiche del fare umano, l’Unità dei Distinti nella quale la storia si articolava; dall’altra quella stessa teoria si diluiva in un sistema di indagini particolari, estetiche, storiche, linguistiche, politiche, letterarie. La tensione tra queste due spinte rappresentò, in certo senso, la logica interna della Filosofia dello Spirito, che sembrò rompersi quando, nella tarda riflessione del filosofo, un Distinto, l’Utile, acquistò maggior rilievo giungendo quasi a venare di accenti esistenzialistici il suo pensiero. Quella sorta di “religione laica” che la filosofia di Croce aveva rappresentato evolveva infine, con il prevalere dell’Utile sugli altri Distinti, in una visione pessimistica delle sorti umane.

    Sul piano degli studi particolari l’opera di Croce s’incontrò felicemente con quella di Giovanni Gentile e i due costruirono, in lunghi anni di collaborazione, una storia della cultura italiana che rappresentò un importante elemento nella formazione dell’identità nazionale. Tale convergenza, però, non superò mai la forte differenza che caratterizzava i due filosofi e che nel 1913, sulle colonne de “La Voce”, si manifestò in una celebre polemica nella quale Croce fu accusato di rasentare l’Empirismo e Gentile di praticare una filosofia teologizzante. Per entrambi era il ritorno dei fantasmi della metafisica. Pochi anni dopo, la divergenza si sarebbe trasferita dal piano della riflessione teorica a quello delle scelte politiche, dove diventò vera contrapposizione, quando Gentile aderì al fascismo e Croce scelse la strada dell’antifascismo del quale sarebbe stato una bandiera.

    Nel ventennio sciagurato della dittatura di Mussolini Gentile svolse un ruolo di primo piano nell’organizzazione e promozione culturale del regime. L’Attualismo, maturato e messo a punto nei primi due decenni del Novecento, era per certi versi una filosofia essenziale, radicale, che esasperava le conseguenze della dialettica hegeliana. Gentile aveva studiato a fondo gli scritti di Spaventa e aveva fatto suo il problema del rapporto tra fenomenologia e logica; ma l’approfondimento che ne faceva non era immune da influenze rosminiane e di certo Modernismo, da lui studiato negli anni di incubazione della sua dottrina. La forte polarizzazione di pensiero concreto e pensiero astratto cui l’Attualismo era approdato sembrò ai più accorti tra i discepoli di Gentile, come Ugo Spirito e Guido Calogero, il punto di arresto definitivo della metafisica. Ben lungi dall’essere teologia, l’Attualismo poteva apparire a quei giovani filosofi come liberazione, la liberazione filosofica, da ogni dogmatismo. Anche per i Neoscolastici, che dal 1909 avevano dato vita a una importante scuola, Gentile costituì, in certo senso, un punto di riferimento. Essi realizzarono infatti un singolare incontro sia con l’Attualismo che con la filosofia di Croce. Il forte bisogno di ammodernamento, che era rimasto insoddisfatto e che era avvertito con vivezza in larghi strati del mondo cattolico, aveva subìto una vera e propria frustrazione in seguito alla repressione dei Modernisti che, soprattutto in Francia ma anche in Italia, si erano espressi con grande vivacità di idee. Quello stesso bisogno spinse il francescano Emilio Chiocchetti, nei primi anni del Novecento, ad accostarsi a Croce per dimostrare che una filosofia in sintonia con la fede cristiana non solo non era in contrasto con la Filosofia dello Spirito ma poteva addirittura trovare in quella la sua base d’appoggio. A Gentile si avvicinò, più tardi, Gustavo Bontadini, allievo di Chiocchetti, che, con intento analogo, utilizzò come piattaforma uno snodo cruciale del pensiero idealistico per erigervi un nuovo filosofema in difesa della trascendenza, confutando così la tesi che l’Attualismo fosse il peggior nemico della religione. Dopo la debacle del Modernismo e l’affievolirsi di voci importanti come quella del barnabita Giovanni Semeria, la Neoscolastica italiana, con alterne vicende e momenti ora bui ora luminosi, fu la novità filosofica più appariscente e più significativa in campo cattolico, almeno fino al Concordato.

    L’avvento del Fascismo non fu fatale solo per i rapporti tra i due filosofi più importanti del Novecento. Esso aggravò la situazione del sacerdote Ernesto Buonaiuti, che era stato l’esponente di maggior spicco del Modernismo italiano e che pagò personalmente l’ostracismo della Chiesa e quello del regime al quale si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà. Favorì l’emergere nel mondo accademico di personaggi di dubbia levatura, mentre il vecchio Piero Martinetti o il giovane Calogero così come molti altri vennero emarginati o perseguitati. Il restringimento delle libertà civili e di pensiero non favorì certo il lavoro intellettuale e, in alcuni casi, distolse dai libri per volgersi all’impegno civile e alla lotta contro la dittatura ingegni promettenti o già maturi. Prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale il fenomeno filosoficamente rilevante fu la pubblicazione de La struttura dell’esistenza, opera con la quale Abbagnano segnava la data di nascita dell’Esistenzialismo italiano. Era un testo di rottura, aria nuova che rimescolava le carte e delle categorie metafisiche salvava solo il Possibile il quale, rivisitato profondamente, assorbiva quasi completamente l’Essere. Un Esistenzialismo, quello di Abbagnano, che schivava gli esiti aporetici di Heidegger e Jaspers. Nessuno scacco o angoscia, ma la consapevolezza della possibilità di una vita autentica se aderente alla struttura profonda dell’esistenza, dunque possibilità di scelta, grazie alla quale l’uomo, immerso nell’empirico e nel tempo, poteva sopravanzarlo e trascenderlo. Era così che, secondo l’esistenzialista italiano, la ragione umana limitata ma incondizionata si mostrava capace di costruire il proprio mondo. La convergenza con l’Esistenzialismo tedesco e francese si limitava al punto da cui la riflessione prendeva le mosse, mentre Abbagnano trovava una sintonia ben più forte con esponenti della filosofia americana e con il senso del concreto che questa portava con sé. Di qui anche lo sviluppo del Neoilluminismo, che scaturì direttamente dall’interno della filosofia di Abbagnano riaffermando l’importanza delle scienze, in polemica aperta con Croce e i suoi pseudoconcetti. Sociologia, psicologia, antropologia, storiografia filosofica trovarono forte valorizzazione e personaggi della levatura di Norberto Bobbio o Ludovico Geymonat vi si impegnarono seriamente. Però il posto che restava appannaggio della riflessione filosofica apparve poi quasi residuale, esautorato a vantaggio di altre necessità umane. Ancora una volta sembrava che l’emancipazione dalla metafisica non riuscisse a trovare un approdo teoreticamente vigoroso e convincente.

    D’altra parte non fu l’Esistenzialismo, che ebbe accenti importanti e profondi anche con Luigi Pareyson, a dare il crollo ai sistemi idealistici di Croce e Gentile. Fu piuttosto un evento esterno, potente quant’altri mai, che ne segnò la crisi e il rigetto. La fine della Seconda Guerra mondiale segnò infatti un discrimine netto. Gli eventi tragici della dittatura e della guerra richiedevano di aprire un nuovo corso storico. Il dolore, l’orrore, la distruzione materiale e morale esigevano e reclamavano una ricostruzione anche culturale. Mentre pensatori isolati come Luigi Scaravelli o Enrico De Negri cominciavano a mostrare le falle dei filosofemi idealistici e della dialettica in particolare, prevaleva in campo filosofico un bisogno prepotente e complesso di allontanare definitivamente quello che era sembrato dominante nella prima metà del secolo. Così cadde drasticamente la censura su Gentile, troppo compromesso col Fascismo, e si abbandonò anche la filosofia di Croce perchè inadeguata al compito di cambiare il mondo, incapace di soddisfare le richieste dell’umanità nuova. A questa esigenza rigenerativa dava invece risposta il Marxismo, che emergeva proponendosi come vendicatore dei veri bisogni umani. Al Marxismo di Gramsci o Rodolfo Mondolfo -che avevano studiato Marx tenendo conto della lezione di Labriola, di Croce e di Gentile- si affiancava ora quello di pensatori distanti da questa tradizione che considerava Marx in stretta continuità con Hegel. In particolar modo Galvano Della Volpe volle svincolare Marx dal contesto idealistico, rimarcando che ciò che veniva in primo piano per il filosofo comunista era la questione del rapporto tra pensiero e realtà e che la filosofia non poteva più essere una faccenda del pensiero con se stesso. Questo “furore antiplatonico”, come ebbe a definirlo Eugenio Garin, puntava a mostrare come Marx, nonché essere epigono di Hegel, fosse stato il distruttore dell’Idealismo, lo smascheratore, una volta per tutte, dell’ideologia. Una luce negativa veniva gettata così sulla dialettica e su tutta la filosofia che da Hegel era passata per Spaventa e Gentile, aveva lambito Croce e toccato in profondità anche il marxismo italiano. Questa indicazione, sviluppata negli anni Settanta da Lucio Colletti, avrebbe portato il più famoso allievo di Della Volpe fuori del Marxismo e vicino a posizioni “realistiche” ispirate al Neopositivismo di Popper.

    Nella ricerca di una razionalità diversa da quella idealistica s’impegnò anche Giulio Preti, che testimoniò il senso di crisi emerso con la vicenda europea e mondiale delle dittature e della guerra e che dall’Empirismo logico e dal Pragmatismo attinse elementi per una migliore definizione del rapporto tra pensiero e realtà, attento comunque a dotare le sue dottrine di impegno etico e sociale. Analogamente Enzo Paci prese le mosse dall’Esistenzialismo positivamente inteso, come Abbagnano aveva fatto capire che potesse essere, per spingersi a concepire l’esistenza come evento, anzi, come relazione di eventi senza sostanzialità, esperienza pura non assolutizzabile. Le nuove esigenze non lasciarono indenne neanche il campo cattolico, dove fu soprattutto il tema dell’esistenza come storia a sollecitare la riflessione di personaggi come Luigi Stefanini e Michele Federico Sciacca. Ma fu Pietro Prini che, successivamente, giunse a sostenere che la storicità costituiva il quid proprio della filosofia cattolica. La storia, diceva Prini, deve essere vissuta e non giudicata. Essa non è il campo di un fare malefico dell’uomo che si tratterebbe di ridurre alla ragione, ma la base della vita spirituale. Contingenza, finitezza, possibilità di essere e non essere, solo da qui muove la ricerca di un senso assoluto da riconoscere alla vita. Movenze esistenzialistiche, legato del Modernismo e tradizione rosminiana si combinavano in Prini in evidente contrapposizione con quanto la Neoscolastica di Francesco Olgiati aveva costruito dagli anni Trenta in poi. Infatti Monsignor Olgiati, lasciatasi alle spalle la lezione di Chiocchetti, era giunto a concepire la storia del pensiero come rigido rapporto di Verità ed Errore negando in sostanza un vero sviluppo storico, riecheggiando quasi certe modalità del Neotomismo ottocentesco, sia pure con dottrina e concetti più avveduti dei tempi. Erano, queste, concezioni inconciliabili tra loro, non esaustive del panorama cattolico dal quale emersero pure, con decisa originalità, personaggi come Gustavo Bontadini e Augusto Del Noce, che in un serrato confronto con il pensiero moderno e con l’Idealismo in particolare, giungevano ad esiti di possibile sintesi o, invece, di radicale divaricazione. La questione della storia e del suo rapporto con l’Assoluto fu quindi il problema che toccò corde profonde nel cuore dei cattolici e che le fece vibrare con modalità molto divergenti.

    Storicità dell’esistenza e piena coincidenza di essa con l’Essere tout court fu il pensiero pervasivo di tutta l’opera storiografica di Eugenio Garin, nella quale si avvertivano pulsare insieme motivi positivistici, crociani e marxisti. Il dissolvimento della Categoria sembrava qui, più che altrove, il compito del filosofo in vista del recupero di una realtà tutta umana del pensiero e delle idee. Era, insomma, ancora una volta il tentativo di abbattere definitivamente ogni pretesa di Assoluto e di reductio ad unum. Tale posizione presentava similitudini con quella di un altro filosofo storiografo, Bruno Nardi, grande maestro del pensiero medievale che, mettendo tra parentesi la radice religiosa della sua ricerca, con grande rigore filologico abbatteva i confini della filosofia e ne dilatava l’identità andandone a ricostruire il profilo in ambiti diversi, come per esempio nella teologia. Ma nell’opera di Nardi restava acceso il senso del trascendentale, incarnato dai tanti studi dedicati all’intelletto aristotelico. Il compito teoretico implicito nell’esercizio storiografico dello studioso toscano è stato proseguito poi da Tullio Gregory, che ha ampliato il concetto del maestro estendendo lo studio al campo della scienza naturale e del linguaggio e ha dato vita con il Lessico Intellettuale Europeo a un grande istituto di ricerca storica.

    Insomma, tra sviluppi originali e influenze fortemente sentite la filosofia italiana è andata ben oltre la metà del secolo. Il dialogo con la Fenomenologia e l’Esistenzialismo tedeschi e francesi, gli studi di filosofia del linguaggio e la ricezione della filosofia analitica hanno avuto un posto di rilievo nella seconda metà del Novecento. Non solo Banfi, anche Sofia Vanni Rovighi ha apprezzato Husserl e ne ha aperta la conoscenza in ambito neoscolastico. Quanto a Heidegger, moltissimi e da sponde diverse hanno attinto all’opera del filosofo di Marburgo. In modo originale, Gianni Vattimo ne ha esaltato il tratto antimetafisico indicandolo come la fonte più immediata del suo “pensiero debole”. La filosofia del linguaggio con Tullio De Mauro e Umberto Eco ha creato vere e proprie scuole di pensiero. La filosofia analitica ha trovato e trova interesse crescente, in un panorama nel quale la spinta preponderante sembra ancora quella del contrasto alla metafisica che, bandita ormai da secoli, dal numero dei nemici che raccoglie farebbe credere di non essere morta mai. Assoluto, Verità, sono categorie abbandonate dalla maggior parte dei filosofi italiani a favore di un più sobrio impegno con concetti meno altisonanti e più vicini –si dice- ai bisogni reali degli uomini. A questa linea di tendenza fanno eccezione Emanuele Severino e Gennaro Sasso che, diversi per formazione e atteggiamento, convergono nella critica alla tradizione metafisica che non è però critica alla metafisica tout court, e anzi la rivisitano in una nuova comprensione delle sue radici e della sua intima essenza. Così, al bisogno di uscire dai confini nazionali fortemente sentito da larga parte degli autori più giovani, fa riscontro l’insistenza di una riflessione, minoritaria ma incisiva, che trova linfa nel riesame di segmenti strutturali del pensiero metafisico indagati in punti cruciali della storia della filosofia, non da ultimo di quella italiana.


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