Autore: Carlo Pioppi
Il concilio provinciale è un istituto assai antico nella vita della Chiesa: esso è la riunione solenne, convocata e presieduta dal metropolita, dei vescovi di una stessa provincia ecclesiastica, e ha come scopo la produzione di una legislazione canonica locale, volta a offrire una migliore struttura pastorale e disciplinare dell’organizzazione e dell’attività ecclesiastiche, nonché a incrementare e difendere la fede dei cristiani e a migliorarne i costumi. Nell’età moderna e contemporanea una norma tridentina (sess. 24a, decr. di riforma, can. 2) stabiliva che tali raduni di vescovi dovessero essere convocati ogni tre anni (la frequenza fu portata a 20 anni dal can. 283 del Codice del 1917), ma essa fu quasi ovunque disattesa, risultando nella pratica impossibile o troppo gravosa; dal 1588 al 1967 gli atti, decreti, costituzioni di questi concili furono inviati alla S. Congregazione del Concilio (dal 1850 ca. al 1908 affiancata dalla Congregazione Speciale per l’Esame dei Concili e delle Adunanze Provinciali) per il processo di recognitio: ricevuta l’approvazione romana, essi erano pubblicati e divenivano una guida pratica per il clero nell’adempimento del suo ministero pastorale.
Con l’unificazione politica della penisola, la Chiesa italiana si trovò ad affrontare notevoli difficoltà, per lo più dovute al radicale cambiamento ambientale avvenuto per il passaggio da sistemi politici di Ancien Régime a uno stato liberale: il tutto fu poi aggravato dallo scontro dovuto all’irrisolta Questione Romana, che rese spesso tesi i rapporti tra autorità civili ed ecclesiastiche. Questa situazione insicura e avversa, insieme con numerosi casi di sedi diocesane vacanti, riconducibili anch’essi allo scontro in atto, fece sì che i concili provinciali – già non numerosi nella prima metà del sec. XIX – divenissero assai rari. Infatti, a fronte di sette concili provinciali convocati prima dell’unificazione (Firenze, Pisa e Siena nel 1850; Ravenna nel 1855; Capua, Urbino e Venezia nel 1859), tra la proclamazione del Regno d’Italia e lo scoppio della 1a Guerra Mondiale si rinvengono solamente due concili provinciali: quello di Cagliari del 1886 e quello di Milano del 1906; quest’ultimo ebbe la sua causa nello zelo pastorale del card. A.C. Ferrari che, ispirandosi al modello borromaico, dispiegò una grande attività in termini di adunanze conciliari e di visite pastorali. Inoltre va ricordato quello di Benevento del 1895, riguardo al quale però non è chiaro se vi sia stata o meno l’approbatio romana. Va ricordato anche il diffondersi della più agile figura dei conventus episcoporum, o conferenze episcopali, che nacque e si sviluppò proprio nel sec. XIX: essa permetteva ai vescovi di zone vicine d’incontrarsi in maniera informale, aggirando in tal modo le difficoltà spesso poste dai governi liberali, mostratisi di solito, in continuità con precedenti tradizioni regaliste, sospettosi verso i concili provinciali.
Dopo la Grande Guerra si assiste invece a una fioritura conciliare che sarebbe durata sino al Vaticano II, dovuta in primis alla promulgazione del Codice nel 1917 e alla necessità di adeguarvi la legislazione locale. Il codice (cann. 281-282) prevedeva, accanto al concilio provinciale, la figura di quello plenario, riunione di vescovi di varie provincie ecclesiastiche vicine presieduta da un legato pontificio. Al fine di dare un impulso a quest’attività conciliare, la Congregazione Concistoriale nel 1919 divise l’Italia in 15 regioni ecclesiastiche (escludendo però Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, dove sarebbero stati ancora convocati concili provinciali); si ebbe così, fino al Vaticano II, una serie di 16 concili plenari di tali regioni: 1° Siciliano 1920 (Palermo), Umbro 1923 (Assisi), Sardo 1924 (Oristano), Abruzzese 1924 (Chieti), 1° Salernitano-lucano 1925 (Salerno), 1° Piceno 1928 (Loreto), Pugliese 1928 (Molfetta), Campano 1932 (Napoli), Emiliano 1932 (Bologna), Etrusco 1933 (Firenze), 1° Calabrese 1934 (Reggio), 2° Siciliano 1952 (Palermo), Laziale Superiore 1953 (Viterbo), 2° Salernitano-lucano 1955 (Salerno), 2° Piceno 1956 (Loreto), 2° Calabrese 1961 (Reggio). Mancarono quindi all’appello tre delle 15 regioni: Beneventano, Lazio Inferiore e Romagna; a Benevento però fu tenuto nel 1927 un concilio provinciale. Nelle quattro zone rimaste esenti dal regime regionale-plenario, si tennero i concili provinciali di Milano nel 1934 e di Genova nel 1950. In Piemonte, invece, si tenne alla fine un plenario, che includeva le provincie ecclesiastiche di Torino e Vercelli, nel 1927; lo stesso avvenne nel Veneto, dove si tennero due plenari: nel 1923 (con le provincie di Venezia e Udine) e nel 1951 (Venezia, Udine e Trento). Un’attività conciliare così intensa è un fenomeno piuttosto singolare nel panorama ecclesiale europeo del periodo tra le due guerre.
In totale, tra il 1861 e il 1961, si tennero 24 concili plenari e provinciali (senza contare il beneventano del 1895), così distribuiti per regioni: 4 in Campania-Lucania; 2 in Lombardia, Veneto, Marche, Calabria, Sicilia e Sardegna; uno in Piemonte, Liguria, Emilia, Umbria, Toscana, Lazio, Abruzzo, Puglia.
Un caso a parte è il Sinodo Intereparchiale di Grottaferrata del 1940; questo, voluto da Pio XI, ebbe come scopo di riunire gli ordinari dei tre territori di rito bizantino presenti in Italia: il Monastero Esarchico di Grottaferrata e le eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi. Gli atti e decreti del concilio furono approvati in questo caso dalla Congregazione Orientale, e non da quella del Concilio. Il Secondo Sinodo Intereparchiale si è riunito nel 2004-2005.
Dopo il Vaticano II, i concili plenari e provinciali nella penisola divennero eventi alquanto rari, forse in quanto furono soppiantati dall’attività della Conferenza Episcopale Italiana, sorta nel 1954 come Conferenza dei Vescovi Presidenti delle Regioni Conciliari e trasformata in conferenza plenaria nel 1964. Tale situazione fu per così dire assunta dal Codice del 1983, che nel can. 440 rinunciò a esigere la cadenza ventennale. Una caratteristica che contraddistingue i plenari tenuti dopo il Vaticano II rispetto ai precedenti è la loro lunga durata, come il Concilio Marchigiano del 1985-1988; e quello Sardo, annunciato nel 1987, indetto nel 1992 e concluso nel 2001.
Il sinodo diocesano è la riunione del clero di una diocesi sotto la guida del vescovo. Il Concilio di Trento (sess. 24a, decr. di riforma, can. 2) prevedeva che il sinodo fosse convocato ogni anno: anche in questo caso si trattò di una norma non praticabile; se il Codice del 1917 impose una frequenza decennale (can. 356), quello del 1983 (can. 461) non determina scadenze. Ovviamente si tratta di riunioni molto più facili da organizzarsi rispetto ai concili provinciali e plenari e dunque se ne riscontra un numero notevolmente più elevato. S. Ferrari ha censito per l’Italia, dal 1860 al 1959, 401 sinodi diocesani: 185 tra il 1860 e il 1914 (nel suo studio v’è una discordanza di dati: egli propone il numero di 195, ma la somma della distribuzione per regioni ammonta a 185), e 216 tra il 1915 e il 1959. La ripartizione geografica per regioni amministrative attuali è la seguente: 11 in V. d’Aosta, 37 nel Piemonte, 17 in Liguria, 47 in Lombardia, 1 nel Trentino-A.Adige, 26 nel Veneto, 5 nel Friuli-V.Giulia, 37 in Emilia-Romagna, 35 in Toscana, 22 nelle Marche, 11 in Umbria, 27 nel Lazio, 17 in Abruzzo, 6 nel Molise, 36 in Campania, 21 in Puglia, 3 nella Basilicata, 13 in Calabria, 19 in Sicilia e 10 in Sardegna. Accorpando i dati, si trova dunque un’attività sinodale che presenta 181 sinodi al nord, 105 al centro e in Sardegna e 115 al sud.
La frequenza di sinodi in una diocesi dipende da diverse variabili: la presenza o meno di una consolidata tradizione sinodale (in genere poco presente nel sud, vuoi per un’incompleta recezione del Tridentino, vuoi per l’influsso del giurisdizionalismo borbonico); un secondo fattore è l’importanza concessa ai sinodi da singoli vescovi, come Gastaldi a Torino, Ferrari a Milano, Ciceri a Pavia, Scalabrini a Piacenza; una terza variabile è la connessione tradizionale tra visita pastorale e sinodo diocesano, convocato al termine di quella.
Negli ultimi decenni l’attività sinodale diocesana è rimasta abbastanza vivace. Dal 1960 al 2011 sono stati portati a termine almeno 119 sinodi; essi si caratterizzano per una durata più lunga dei precedenti. Effettivamente, sia i plenari che i provinciali e i diocesani, prima del Vaticano II, erano eventi piuttosto brevi. Ciò era dovuto a due fattori: d’un lato v’era un preciso e particolareggiato lavoro di preparazione e consultazione precedente la convocazione, nel quale praticamente si redigevano già i decreti, dall’altro un atteggiamento dirigistico delle curie che lasciava poco spazio, sebbene non lo escludesse del tutto nei provinciali e nei plenari, al dibattito durante il concilio stesso. L’aumento della durata dopo il Vaticano II va letto alla luce di una volontà di trasformare l’evento sinodale in un vero e proprio momento di riflessione, studio e dibattito di tutta la compagine ecclesiale; nella stessa linea va anche l’intervento di rappresentanti del laicato alle assise. Un’altra caratteristica dei sinodi postconciliari consiste nell’abbandono del terreno del diritto per rivolgersi alla esposizione di orientamenti pastorali giuridicamente poco delineati: segno di tale evoluzione è anche il mutamento dei documenti finali da una forma simile al codice verso espressioni diverse, caratterizzate comunque da minore precisione in campo normativo.
Tutti questi eventi conciliari hanno avuto come funzione quella di raccordare alle diverse situazioni ed esigenze locali il diritto canonico generale (o di livello superiore); per questo il loro studio è importante nell’ambito degli studi sulle Chiese locali; d’altro canto è utile, soprattutto in caso di un’attività sinodale intensa, studiare e verificare similitudini o dipendenze: a volte infatti gli atti di un concilio erano presi a modello da altri in tempi e/o luoghi diversi; un esempio è il Concilio di Cartagena (Colombia) del 1902, che presenta una singolare dipendenza dal Sinodo Diocesano di Pavia del 1878, fatto che si spiega con la presenza di un metropolita di origini lombarde, P.A. Brioschi.
Lo schema tipico di concili e sinodi presenta una suddivisione nelle seguenti parti: fede; sacramenti; persone; beni ecclesiastici. Almeno sino alla 1a Guerra Mondiale la parte sulla fede risulta di solito interessante e originale, in quanto vi sono presentate le tendenze del luogo e del tempo che possono condurre i fedeli alla sua perdita e gli strumenti per mantenerla salda: di solito in tale sezione si nota il disagio del mondo ecclesiastico di fronte a una società non più ufficialmente cattolica e un certo rifugiarsi in una mentalità da “fortezza assediata”; tracce del difficile rapporto fra politica e religione si rinvengono anche nelle parti concernenti i beni ecclesiastici. Dopo la codificazione la sezione sulla fede tese a scomparire dagli atti dei sinodi diocesani, ma non dei plenari, e non di rado si seguì lo schema del codice; dopo la 1a Guerra Mondiale si nota anche una variazione di toni dovuta alla soluzione del conflitto tra stato e Chiesa, e si trovano formule innovative nello spazio concesso all’associazionismo laicale; dopo il conflitto 1939-1945 si approdò gradualmente a una ripartizione più libera delle materie.
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Sitografia
Annuarium Historiae Conciliorum: http://ahc.pusc.it/