Autore: Gennaro Cassiani
Il liberalismo, le matrici filosofiche del quale si riconoscono nelle tradizioni giusnaturaliste e contrattualiste e nella dottrina della divisione e dell’equilibrio dei poteri dello Stato, può dirsi una dottrina dei limiti del potere civile, tutrice dei diritti naturali e delle libertà individuali.
Alla fine del Settecento, nella cornice dell’Illuminismo e della fioritura degli ideali di tolleranza, libertà ed eguaglianza, i paradigmi del liberalismo promossero le rivendicazioni del terzo stato e ispirarono l’erosione dei secolari privilegi delle aristocrazie e del clero, inducendo il tramonto dell’edificio politico-istituzionale di antico regime. Contrapposto all’assolutismo dinastico rinato dalle sue ceneri e fortemente critico rispetto all’esperienza della democrazia giacobina, il movimento liberale ispirò i moti insurrezionali tesi a ottenere garanzie giuridiche e costituzionali da parte dei sovrani della Restaurazione. Dall’ispirazione a coniugare cristianesimo, libertà individuale e democrazia parlamentare, trasse alimento la corrente di pensiero del cattolicesimo-liberale, che ha in Hugues-Félicité Robert de Lamennais, il suo più significativo esponente.
Caratterizzati da un consenso più o meno ampio verso le dottrine socio-politiche del liberalismo, gli assunti del cattolicesimo liberale (libertà di coscienza, di culto, di insegnamento, di stampa, di associazione; allargamento del diritto di voto; decentramento amministrativo; difesa del principio di nazionalità rispetto al legittimismo), accolti con entusiasmo in ristretti circoli del clero e del milieu politico-culturale transalpino, ma osteggiati dalla maggior parte dell’episcopato e degli stessi fedeli francesi, incontrarono le solenni censure di Gregorio XVI, nell’enciclica Mirari vos (1832). Il pontefice sconfessò la necessità di un rinnovamento della Chiesa; riaffermò l’indissolubilità del matrimonio e il celibato ecclesiastico; condannò l’indifferentismo religioso che negava il principio «Extra Ecclesiam nulla salus»; sanzionò le pretese della libertà di coscienza, di pensiero e di stampa. Censurò altresì la teoria del separatismo, in base al quale l’ordine politico-civile-temporale e l’ordine spirituale-religioso-soprannaturale sono del tutto separati e Stato e Chiesa sono chiamati a convivere nei termini della formula coniata da Montalembert «Ecclesia libera in libera patria». La Mirari vos ribadì inoltre il dovere di sottomissione dei sudditi ai legittimi sovrani e l’obbligo degli Stati di proteggere la Chiesa.
Rispetto a quello francese, al cattolicesimo liberale italiano appartenne un carattere più composito, dalle intonazioni diverse, contraddistinto dal connubio tra passione patriottica e fede cristiana, componente organica del paradigma d’identità nazionale che echeggia nella manzoniana «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor». Il cattolicesimo liberale italiano espresse l’anelito a conciliare fede e libertà e giustizia sociale in nome di una religiosità autentica. Il movimento si mosse, almeno inizialmente, su un terreno letterario e storico (Troya, Cantù, Manzoni): si mantenne su posizione prudenti, pur respingendo la strumentalizzazione politica della religione e l’alleanza fra trono e altare. In un secondo momento, a valle della maturazione della coscienza nazionale di una parte considerevole della borghesia e dell’aristocrazia progressista, passò invece alla riflessione più esplicitamente politica.
Nell’alveo del cattolicismo liberale italiano è inscritto il neoguelfismo giobertiano che, attraversato dalla polemica con la Compagnia di Gesù, identificata come primario avversario della conciliazione fra liberalismo e Santa Sede, anela a una confederazione di Stati italiani sotto l’egida del papa. Parimenti partecipe della prospettiva cattolico-liberale è la visione antidogmatica, nutrita dall’aspirazione a una profonda riforma della Chiesa e tesa a una sintesi tra cattolicesimo e libertà che permea il pensiero di Raffaele Lambruschini. Istanze, sia pur più generiche, di riforma dell’istituto ecclesiastico, di correzione di abusi, di purificazione del culto e di distacco dal temporalismo traspaiono altresì nella produzione di Nicolò Tommaseo, raro esponente italiano di un cattolicesimo dalle venature radicali e socialisteggianti, vagheggiatore di una libertà conquistata per iniziativa popolare e in nome di una fede tornata alle origini evangeliche.
Sia in Lambruschini che in Antonio Rosmini, l’idea che l’Italia dovesse al papato la sua funzione preminente nella civiltà europea del Medioevo, una missione di civiltà da rilanciare attraverso una sintesi fra i valori religiosi e i principi di libertà e di progresso civile, si intreccia con l’aspirazione a una riforma delle istituzioni ecclesiastiche. Se però Lambruschini, nella sua pietà sentimentale, si limitò ad aspirare a un minimalismo dogmatico che liberasse la Chiesa dai pesi del formalismo e del temporalismo, nell’analisi di Rosmini spiccano giudizi severi e prospettive riformatrici assai nette. Nel volume Delle Cinque piaghe della Santa Chiesa (1848), il roveretano invoca una Chiesa profondamente rinnovata in senso religioso e giuridico; liberata dai vincoli contratti nei secoli dell’antico regime e che condividesse sino in fondo la condizione dei poveri e degli esclusi. Rosmini si spinge sino ad auspicare il ritorno al metodo della prima cristianità che eleggeva i vescovi; la restituzione ai fedeli dei poteri di controllo sull’amministrazione dei beni ecclesiastici e la destinazione delle rendite di questi ultimi a finalità caritative. In Rosmini, il principio di carità è in relazione con la vita religiosa come il principio di libertà con la vita politica.
Nel 1850 – a valle del soffocamento della Repubblica romana per mano francese – con l’avvio della reazione nello Stato della Chiesa e l’esaurimento della mitologia di Pio IX pontefice liberale ed antiaustriaco, sull’aspirazione cattolico-liberale a un connubio tra patria e religione calò il sipario. Svanita l’illusione di saldare il programma nazionale con gli ideali del cattolicesimo tradizionalista, il lascito dell’idea neoguelfa favorì il superamento dell’inerzia delle forze che ambivano a una rinascita civile pur rifiutando la prospettiva della rivoluzione. Ne guadagnarono in coesione le tendenze riformiste riconducibili ad esempio, nell’area toscana, ad aristocratici come Capponi, Ridolfi e Ricasoli o, in ambito piemontese, a D’Azeglio e a Balbo, i quali si collocavano sulla scia del pensiero di Gioberti, pur non riconoscendosi del tutto nelle tesi dell’abate.
Nel corso degli anni decisivi in vista del completamento del processo di unificazione nazionale, la contrapposizione fra Stato e Chiesa coniugata al rovello della Questione romana, alimentò l’antagonismo tra il liberalismo e l’intransigentismo prevalente nella gerarchia ecclesiastica in tutto il periodo risorgimentale. Il clima dei rapporti tra Stato liberale e Santa Sede, segnato dalla nota del conflitto e del risentimento, ingenerò una profonda lacerazione, destinata a una lunga durata, tra la coscienza patriottica e la coscienza religiosa degli italiani. La Chiesa patì la perdita per mano piemontese della sovranità temporale sulle Legazioni, le Marche e l’Umbria (1860); sofferse la diffusione di testi demistificanti quali la Vita di Gesù (1863) di Renan; subì una serie di interventi legislativi di stampo giurisdizionalistico che, già perseguiti dal Regno di Sardegna, sfociarono nelle leggi eversive dell’asse ecclesiastico (1866-1867). Quelle misure, nel 1890, furono completate dalla legge sulle opere pie, la quale stabilì la conversione dei beni dei sodalizi confraternali, mentre già un’altra serie di provvedimenti aveva condotto all’esclusione dell’insegnamento religioso dalla scuola, alla soppressione delle facoltà di teologia, alla cessazione della giurisdizione ecclesiastica sui cimiteri, all’estensione del servizio militare ai chierici.
Sull’altro versante, subito dopo la proclamazione dell’unità, il disappunto dei liberali verso la Chiesa, ben più che dalle scomuniche comminate dal pontefice ai protagonisti del Risorgimento, trasse argomento della sdegnosa opposizione di Pio IX verso ogni prospettiva di rinuncia al potere temporale (il «Non possumus» del 19 gennaio 1860, nella cornice dell’enciclica Nullis verte verbi) e di riconciliazione con lo Stato liberale, espressione – nelle parole pronunciate dal papa nell’allocuzione del 17 marzo 1861 – della civiltà moderna, «madre e propagatrice di infiniti errori e di massime opposte alla fede cattolica». Di quegli «errori» offrì puntigliosa elencazione e solenne riprovazione il Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores allegato all’enciclica Quanta cura (1864) ma, a differenza di quest’ultima, non di diretta paternità di Pio IX.
Silloge di già esposti pronunciamenti papali rispetto ai più pericolosi errori moderni, il Sillabo, del quale tanto il governo italiano quanto quello francese proibirono la lettura pubblica, censurò panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto e moderato. Così pure: indifferentismo, latitudinarismo, socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali. Il documento prosegue col sanzionare le dottrine limitative dei diritti e dei privilegi tradizionali della Chiesa; le dottrine sull’autonomia della società civile quale unica fonte del diritto; quelle relative all’etica naturale e cristiana; quelle che osteggiavano il matrimonio religioso; le dottrine negazioniste della sovranità temporale pontificia. Infine, il Sillabo condannò il liberalismo moderno, le dottrine della sovranità popolare, quelle separatiste e quelle inerenti l’uguaglianza di tutte le fedi dinanzi alla legge.
Apparso tre mesi dopo la stipula della Convenzione di settembre tra Italia e Francia, che riaccendeva la determinazione dei garibaldini a portare a compimento manu militari la Questione romana, il Sillabo vibrò un colpo definitivo al cattolicesimo liberale e allargò, anche fra i politici e gli intellettuali cattolici, i consensi verso la formula «Libera Chiesa in libero Stato» tante volte rilanciata da Cavour, la più solennemente il 27 marzo 1861, nella cornice del discorso tenuto nel parlamento subalpino a sostegno dell’ordine del giorno Boncompagni che proclamava Roma capitale d’Italia.
Significativa è l’adesione all’orientamento separatista da parte del bolognese Marco Minghetti, il quale, già ministro di Pio IX, nel 1859, dopo i moti popolari e la seconda guerra di indipendenza, assunse il dicastero degli Interni del Regno con Cavour e Ricasoli, poi quello delle Finanze con Farini, infine, nel 1863-64 e tra il 1873 e il 1876, fu presidente del Consiglio. Ancor più significativo appare il percorso intellettuale e politico di Carlo Passaglia. Già gesuita e docente presso il Collegio romano, avvicinatosi a Cavour, nel 1861, Passaglia dette alle stampe l’anonimo Pro causa italica ad episcopos catholicos, nel quale invitava il pontefice a rinunciare al potere temporale. Successivamente, docente di filosofia morale a Torino, Passaglia continuò a battersi contro il potere temporale pontificio; divenne figura di primo piano fra le file del clero liberale italiano; pubblicò, anonimi o con lo pseudonimo di Ernesto Filalete, altri opuscoli; fondò i periodici «Il mediatore» (1862-66) e « La pace» (1863-64), ancora una volta intenti a ricercare la conciliazione fra la Santa Sede e la nuova Italia. Infine, depose l’abito ecclesiastico e, nel 1864, fu eletto deputato.
La via del compromesso era assai stretta. E di certo la proclamazione del dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e di morale sancita il 18 luglio 1870, non facilitò il suo dispiegamento. Settimane più tardi, maturarono le circostanze politico-diplomatiche ideali per la conquista militare di Roma da parte italiana. Episodio culminante di un decennio contrassegnato da contrapposizione frontale, l’evento del 20 settembre 1870 innalzò uno “storico steccato” fra cultura liberale e cultura cattolica che, perdurato nei decenni seguenti, avrebbe avuto profonde ripercussioni nella vita civile del Paese.
L’ottantenne e affaticato Pio IX si dichiarò prigioniero in Vaticano. Il papa spodestato e privato con la forza dei suoi diritti temporali, ne uscì solo in feretro, nel 1878, dopo otto anni di esilio volontario dalla città e dal mondo vissuti nella condizione di ostaggio degli usurpatori e delle loro sedicenti Guarentigie (13 maggio 1871) sdegnosamente respinte nel loro carattere unilaterale nell’enciclica Ubi nos arcano (15 maggio 1871).
Fonti e Bibl. essenziale
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