Diocesi – vol. II

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    Autore: Giorgio Feliciani

    Fin dai primi anni del Regno d’Italia governo e parlamento si rivelano talmente sensibili all’esigenza di giungere a una notevole riduzione del numero delle diocesi, giudicato decisamente eccessivo, da promuovere studi ed elaborare progetti in tal senso, senza peraltro riuscire a pervenire ad alcun risultato concreto a causa, soprattutto, della indisponibilità della Santa Sede.

    La questione viene riproposta durante le trattative per il Concordato del 1929 che non manca di dedicarvi ampia e specifica attenzione. Da un lato prevede «una revisione della circoscrizione delle diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Stato». Dall’altro sancisce il principio che «nessuna parte del territorio soggetto alla sovranità del Regno d’Italia dipenderà da un Vescovo, la cui sede si trovi in territorio soggetto alla sovranità di altro Stato; e che nessuna diocesi del Regno comprenderà zone di territorio soggette alla sovranità di altro Stato» (art. 16).

    L’attuazione di quest’ultima disposizione non incontra particolari difficoltà. Invece il previsto adeguamento delle circoscrizioni diocesane alle province civili si rivela subito quanto mai problematico sì che negli anni successivi si registrano ben pochi provvedimenti diretti a valorizzare i capoluoghi di provincia e a rivedere i confini tra le diocesi per farli coincidere con quelli delle province civili.

    La questione assume nuova attualità quando Paolo VI, nell’allocuzione del 23 giugno 1966 all’episcopato italiano, dichiara di avere disposto un serio e maturo esame del problema da parte della Congregazione Concistoriale, rimettendone i risultati a un’apposita commissione della CEI per i necessari approfondimenti.

    I criteri indicati sono di due tipi. Da un lato occorre «dare alla Diocesi una dimensione demografica ed ecclesiastica sufficiente per adempiere pienamente le funzioni, che le sono affidate dal Diritto Canonico e che sono richieste dai bisogni pastorali moderni». Dall’altro è necessario «tener conto delle circoscrizioni civili, facendo coincidere, ove possibile, i confini diocesani con quelli delle Province dello Stato italiano».

    In ossequio alle direttive così ricevute, il Consiglio di Presidenza della CEI nella riunione del 25-27 ottobre 1966 definisce i criteri generali da seguire per porre ogni diocesi in «condizioni di efficiente funzionalità». In tale prospettiva si prevede, innanzitutto, che le diocesi «autosufficienti» con più di duecentomila abitanti «rimangono nella loro autonomia». Quanto, poi, a quelle con popolazione più ridotta, se hanno meno di cinquantamila abitanti, verranno «aggregate alle diocesi vicine», se superano tale consistenza demografica saranno «unite ad una diocesi principale». In ogni caso si porrà specifica attenzione all’esigenza di rispettare i confini delle province civili.

    Ma le speranze di una rapida e positiva conclusione della vicenda vanno ben presto deluse. L’insabbiamento del progetto – che riduceva le circoscrizioni diocesane a sole 119 circa – non appare dovuto a limiti e carenze intrinseche, ma all’intervento di fattori esterni che si è ritenuto di identificare, nelle preoccupazioni del governo italiano circa possibili «riflessi politici negativi» (A. Bobbio, E la politica, 87).

    Nonostante tutte le difficoltà la Santa Sede non desiste dal suo proposito di dare un assetto più razionale alla organizzazione territoriale della Chiesa in Italia. Peraltro nel 1976, dalle direttive impartite alla CEI dal prefetto della Congregazione per i Vescovi, risulta evidente che la Santa Sede non annette più particolare importanza alle circoscrizioni civili provinciali, e dedica invece nuova e specifica attenzione a quelle regionali. I motivi di questo mutamento di indirizzo sono sufficientemente chiari: da un lato le province hanno perso molta della loro rilevanza, dall’altro le regioni italiane hanno ottenuto rilevanti funzioni in settori di notevole interesse per la Chiesa. E poiché il compito di stabilire gli opportuni rapporti con le autorità civili delle regioni spetta alle conferenze episcopali regionali, istituite da Leone XIII nel 1889 con la instructio «Alcuni Arcivescovi», è evidente l’opportunità di far coincidere il più possibile i rispettivi territori. In tale prospettiva il decreto emanato il 12 settembre 1976 dalla Congregazione per i vescovi, da lato sopprime le regioni pastorali beneventana e lucano-salernitana, e, dall’altro, istituisce la regione pastorale Basilicata. Inoltre l’8 dicembre si dispone l’unificazione delle regioni pastorali emiliana e romagnola.

    La Santa Sede non ritiene però opportuno realizzare una perfetta coincidenza tra regioni ecclesiastiche e regioni civili in quanto in alcune di queste ultime il numero delle diocesi risulta troppo ridotto per consentire l’istituzione della conferenza episcopale, come avviene ad esempio nel Trentino-Alto Adige, per non parlare della Valle d’Aosta che è soggetta alla giurisdizione di un solo vescovo.

    Continuano, invece, a rimanere inattuati i progetti diretti a realizzare una consistente riduzione del numero delle diocesi italiane che dalla fine della seconda guerra mondiale al momento dell’entrata in vigore dei nuovi accordi pattizi diminuisce di circa una ventina di unità. Va però segnalato come lungo questo periodo la Santa Sede proceda «al proposto riordinamento in modo indiretto e provvisorio, unendo cioè le piccole diocesi che si rendevano vacanti sotto l’Amministrazione Apostolica o nella persona del Vescovo di una diocesi vicina» (L. Moreira Neves, Un fatto storico, II).

    Una nuova fase della annosa e complessa vicenda si apre con l’Accordo concordatario del 1984, che si limita a prevedere l’impegno della Santa Sede «a non includere alcuna parte del territorio italiano in una diocesi la cui sede vescovile si trovi nel territorio di altro Stato». e, per il resto, riconosce che «la circoscrizione delle diocesi e delle parrocchie è liberamente determinata dall’autorità ecclesiastica» (art. 3).

    Ma curiosamente l’Accordo, mentre liberava la Chiesa da ogni impegno in materia, poneva anche le premesse per il più imponente riordinamento delle diocesi che la Chiesa in Italia abbia mai conosciuto. Infatti le disposizioni formulate dalla Commissione paritetica istituita dall’art 7 dell’Accordo stesso ed ed emanate dalle Parti nei rispettivi ordinamenti con legge 20 maggio 1985, n. 222 e con decreto del cardinal Segretario di Stato del 3 giugno successivo, hanno radicalmente innovato la condizione giuridica civile delle diocesi. Infatti tali disposizioni, non solo attribuiscono alle diocesi quella personalità giuridica agli effetti civili che non era loro riconosciuta durante il vigore del Concordato lateranense, ma prevedono per l’attribuzione della stessa una procedura singolarmente accelerata. Si dispone, infatti, che le diocesi acquistino la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del relativo decreto del ministro dell’interno, da emanarsi entro sessanta giorni dalla ricezione dei provvedimenti dell’autorità ecclesiastica che abbiano determinato «la sede e la denominazione delle diocesi (…) costituite nell’ordinamento canonico» (art. 29).

    Queste previsioni offrivano alla Santa Sede l’occasione per procedere, in condizioni particolarmente favorevoli, all’auspicato riordinamento. Dopo ampie consultazioni e attento studio dei diversi aspetti della questione, emergeva nelle competenti sedi ecclesiastiche la convinzione che la soluzione possibile e più opportuna fosse quella di unificare le diocesi che risultassero affidate, a qualunque titolo, allo stesso vescovo. Un criterio che presentava diversi vantaggi poiché, mentre assicurava la continuità della guida pastorale delle singole diocesi, dispensava da un lungo e defatigante esame delle loro specifiche esigenze e, al contempo, riduceva notevolmente la possibilità di contestazioni, presentandosi come una regola generale che non consentiva eccezioni. Di conseguenza esso veniva senz’altro adottato dalla Congregazione per i vescovi nel decreto del 30 settembre 1986 che riduceva le diocesi, e comunità ecclesiali assimilate, italiane da 325 a 228 di cui 39 sedi metropolitane, 21 arcivescovili, 156 vescovili, 2 prelature territoriali, 6 abbazie territoriali, 3 circoscrizioni di rito orientale, 1 ordinariato militare.

    A giudizio della Congregazione, che ha voluto «associare, nella denominazione dell’unica diocesi, i nomi delle diocesi fuse, nessuna diocesi veniva «abolita» o «assorbita», ma tutte «amalgamate» in «nuove entità» nelle quali conservavano «il proprio nome, la propria storia, le proprie tradizioni, la propria Cattedrale o Concattedrale ecc.». Peraltro lo stesso Segretario della Congregazione non poteva evitare di riconoscere che le diocesi in tal modo «fuse» perdevano la loro precedente identità, poiché «là dove erano più diocesi», veniva istituita «una sola e unica diocesi con unico Seminario, unico Tribunale, unico Consiglio Presbiterale e Pastorale, unico Coetus Consultorum, anche se con la possibilità di decentramento di alcuni servizi amministrativi» (L. Moreira Neves, Un fatto storico, III).

    La riforma operata dal decreto del 1986 è indubbiamente imponente ma la sua importanza non deve essere sopravalutata. A ben guardare la Congregazione per i vescovi, riunendo in una sola diocesi le diverse circoscrizioni affidate alla guida pastorale dello stesso vescovo, si è limitata a «codificare» la situazione esistente e a semplificarne l’organizzazione e il governo, consentendo «un risparmio di personale ecclesiastico, un suo migliore impiego, la diminuzione del tasso di burocratizzazione, almeno per le diocesi interessate, ma anche, indirettamente, per la Chiesa italiana nel suo complesso» (G. Brunetta, Riordinamento, 239).

    In ogni caso le disposizioni del provvedimento del 1986 non possano assolutamente considerarsi come risolutive come è chiaramente dimostrato dalle successive costituzioni apostoliche che, nei primi anni del nuovo secolo, hanno profondamente innovato l’assetto delle province ecclesiastiche nelle Marche, in Sicilia e in Calabria, nonché dai decreti della Congregazione per i vescovi che hanno disposto l’estinzione dell’abbazia territoriale di San Paolo fuori le mura e il ridimensionamento dei territori delle abbazie di Subiaco e Montevergine.

    L’organizzazione territoriale della Chiesa in Italia è dunque ancora ben lontana dall’avere raggiunto un assetto soddisfacente: mentre il numero delle diocesi continua a risultare decisamente eccessivo in rapporto sia al numero dei fedeli sia a quanto avviene in altri paesi, accanto a circoscrizioni di grandi dimensioni ne sussistono ancora alcune del tutto minuscole. Inoltre, nonostante gli auspici del Concilio («Christus Dominus», n. 40) e le disposizioni del Codice (can. 431 § 2) continuano a sussistere numerose diocesi immediatamente soggette. E vi sono ancora, nonostante le direttive impartite da Paolo VI con il motu proprio «Catholica Ecclesia» del 23 ottobre 1976, varie abbazie territoriali.

    Fonti e Bibl. Essenziale

    D. Barillaro, In tema di revisione delle circoscrizioni diocesane, «Il diritto ecclesiastico», 60 (1949), 112-155; G. Feliciani, Diocesi e territorio nella prospettiva di revisione del Concordato lateranense, in «Il diritto ecclesiastico», 70 (1977), parte I, 202‑221; G. Brunetta, La revisione delle diocesi in Italia, «Aggiornamenti sociali», 18 (1967), 201-220; Conferenza Episcopale Italiana, Riordinamento delle diocesi d’Italia, Dati statistici delle diocesi italiane, pro manuscripto, Roma, 1967; M.P., Il riordinamento delle diocesi, «L’Osservatore romano», 21 maggio 1976, 2; A. Bobbio, E la politica bloccò la vera riforma delle diocesi italiane, in «Jesus. Mensile di cultura e attualità cristiana», 8 (1986), n. 12, 87-91; G. Giachi, Riordinamento delle diocesi in Italia, in «La Civiltà Cattolica», 137 (1986), volume IV, quaderno 3274, 15 novembre 1986, 377-381; L. Moreira Neves, Un fatto storico: la nuova “geografia” delle diocesi in Italia, in documento Denominazione e sede delle diocesi in Italia, allegato a «L’Osservatore romano«, 9 ottobre 1986, II-III; G. Brunetta, Riordinamento delle diocesi italiane, «Aggiornamenti sociali», 38 (1987), 229-239; G. Feliciani, Le regioni ecclesiastiche italiane da Leone XIII a Gìovanni Paolo II, in (id. ed.), Confessioni religiose e federalismo, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 103-126; G. Feliciani, Il riordinamento delle diocesi in Italia da Pio XI a Giovanni Paolo II, in L. Vaccaro (ed.), Storia della Chiesa in Europa tra ordinamento politico-amministrativo e strutture ecclesiastiche, Morcelliana, Brescia 2005, 283-300. Per un quadro dettagliato della situazione, aggiornato al 2000, vedi Conferenza Episcopale Italiana, Atlante delle diocesi d’Italia, Officine grafiche De Agostini, Novara 2000.


    LEMMARIO