Congregazioni religiose femminili – vol. I

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    Autore: Gaetano Greco

    Con il termine congregazione religiosa femminile si designa un istituto religioso, i cui membri sono dediti alla vita attiva nella società e sono vincolati all’osservanza di voti semplici, perpetui o temporanei, con esclusione del voto della clausura. A proposito di queste famiglie si è parlato di un «terzo stato» femminile. Con questo paradigma s’intende una condizione della donna diversa sia dal matrimonio (caratterizzato, secondo la tradizione cattolica, dalla vita domestica e dalla funzione procreatrice), sia dal monachesimo (a sua volta caratterizzato dalla vita claustrale e dalla funzione contemplativa): una condizione attiva, incentrata su una vita non vincolata dalle mura del chiostro e dedita all’assistenza, all’educazione, all’insegnamento, al lavoro. Né sono mai mancate, nel corso dei secoli, donne che hanno scelto un’ulteriore strada: la consacrazione, in forma pubblica o anche solo privata, ad una vita religiosa, nella preghiera e nella carità verso il prossimo, conducendo individualmente ma in una dimensione spirituale e materiale ascetica e rigorosa, una vita o da recluse carcerate o dedicandosi alla cura di un edificio sacro. Sono note, a proposito si questa scelta, alcune esperienze medievali dell’Italia centro-settentrionale, come le “devotae” (per esempio s. Bona da Pisa, nella seconda metà del sec. XII) o le “mulieres incarceratae” o “cellane” (si pensi alla beata Verdiana da Castelfiorentino, morta nel 1241). Con aspetti meno radicali, ma con maggior successo, invece, si presenta il fenomeno delle cosiddette “monache di casa” dell’Italia meridionale e insulare, che dimoravano nelle abitazioni familiari e vivevano singolarmente o con i loro parenti, sotto la direzione spirituale di sacerdoti diocesani o, forse più spesso, di regolari. Si tratta di un universo femminile magmatico, dalla diffusione e dalle caratteristiche non sempre definibili: un fenomeno che che è emerso in ambito storiografico come problema di una densa consistenza a proposito dell’epoca moderna e ancora oggi è presente, sotto il manto – allora come ore – di differenti denominazioni.

    Venendo più propriamente al terzo stato, già nel Medioevo, oltre alle monache dei chiostri femminili legati agli ordini monastici e mendicanti erano presenti altre figure di religiose, con esperienze di vita a carattere comunitario, come le «ospedaliere», le «oblate», le «pinzochere», le «beghine» ed altre ancora. Oblate e ospedaliere prestavano la loro assistenza negli ospizi e negli ospedali. In parte erano vedove o zitelle, che si offrivano individualmente per servire in questi luoghi pii, ai quali donavano i loro beni in cambio del mantenimento a vita. Come nel resto dell’Europa cristiana, vi erano anche delle comunità femminili più istituzionalizzate: comunità che hanno avuto la capacità di durare nel tempo, nonostante i mutamenti normativi, come le Oblate Ospedaliere Terziarie Francescane di Santa Chiara, al servizio – ancora oggi – dell’Ospedale di S. Chiara di Pisa sorto alla metà del Duecento, o le Oblate Ospedaliere di Santa Maria Nuova, sorte a Firenze fra il 1284 ed il 1288 su ispirazione di una povera serva, Monna Tessa, per assistere gratuitamente le povere inferme. Un istituto contemplativo, ma aperto anche ad iniziative sociali, a partire dall’educazione, fu anche quello delle Oblate del Monastero di Tor de’ Specchi, fondato a Roma nel 1433 da suor Francesca Romana. Né mancarono in Italia esperienze assimilabili al grande movimento europeo del beghinaggio, come dimostra la vicenda delle Umiliate in Lombardia, le cui case talora furono legate ai conventi dei Mendicanti per motivi di opportunità.

    Nella società del Basso Medioevo sorsero numerose anche le case del movimento del Terz’ordine regolare (→ voce) femminile degli Ordini Mendicanti. Esemplare, in questo senso, fu il caso della beata Angela da Corvaro, che dal 1397 creò delle case di Terziarie nella cittadina di Foligno. A partire dalla fine del Trecento furono riconosciute formalmente e nel 1428 papa Martino V concesse a ciascuna di queste case il diritto di eleggere una propria superiora, che avesse la facoltà di accogliere le novizie e di accettare le nuove professioni. La mancanza dell’obbligo della clausura consentiva a queste comunità e alle loro sorelle di dedicarsi più facilmente alle attività assistenziali; ma vennero anche sottoposte ad una forte pressione – soprattutto da parte degli Osservanti – per trasformarle in veri e propri monasteri, con la professione dei tre voti (compresa una rigida povertà e la vita in comune) e con l’adozione della clausura. Nel 1487 con il breve Dudum papa Innocenzo VIII dichiarò facoltativa l’accettazione della clausura da parte delle comunità di terziarie: su questa linea si mossero gli organi di governo delle varie congregazioni religiose. Tuttavia, nell’ultimo quarto del XVI secolo anche le terziarie furono costrette a trasformarsi in monache, almeno dove trovarono le risorse finanziarie e i locali adatti per la nuova disciplina a loro imposta; in caso contrario, queste antiche comunità furono condannate all’estinzione (→ Ordini monastici femminili).

    Un destino analogo colpì, in Italia e fuori d’Italia, alcuni nuovi istituti femminili, che nel clima della «Riforma cattolica» presero ispirazione dalle nuove famiglie dei chierici regolari per coniugare la vita comunitaria con l’impegno apostolico ed assistenziale nella società. Le Angeliche, la cui nascita intorno al 1530 si deve al barnabita Antonio Maria Zaccaria e a Ludovica Torelli contessa di Guastalla, nonché alla guida spirituale della «divina madre» Paola Antonia Negri, poterono dedicarsi per una quarantina d’anni alle loro opere di apostolato esterno, finché negli anni Settanta non subirono l’imposizione della clausura e della vita contemplativa, al punto che sul finire del Settecento caddero sotto i colpi della soppressione giuseppina dei monasteri femminili giudicati privi di utilità sociale. Estinte nel 1849, risorgeranno secondo l’ispirazione dei loro fondatori solo nel 1879, in un contesto politico, sociale e religioso lontanissimo da quello delle origini. A loro volta, anche le Orsoline, fondate a Brescia da Angela Merici nel 1535 come “luogo pio” dedito all’assistenza delle “incurabili”, non avevano adottato la clausura e, addirittura, molte di loro vivevano presso le rispettive famiglie; tuttavia, nei decenni successivi la gerarchia ecclesiastica riuscì a imporre prima il passaggio del governo delle case dalle vedove alle vergini e, dopo la diffusione della compagnia anche in Francia, la sua trasformazione in un vero ordine monastico femminile, con i voti solenni e la clausura.

    Questi fallimenti non devono far dimenticare che, nonostante il trionfo della disciplina claustrale di Pio V e di Gregorio XIII e sebbene fossero degradati a semplici associazioni religiose, anche nella società italiana della Controriforma e dell’Antico Regime da una parte sopravvissero istituti di oblate dedite all’assistenza ospedaliera e alla cura delle fanciulle, dall’altra nacquero nuovi istituti religiosi, che furono coronati da un grande successo, ancorché troppo spesso oscurato nella memoria storica. Come in altre regioni dell’Europa occidentale, queste famiglie avevano alcuni caratteri, che li distinguevano nettamente dagli ordini monastici, tanto sul piano della disciplina, quanto sul piano dell’impegno esistenziale delle religiose. Quest’ultime, infatti, si limitavano a pronunciare voti semplici, talora solo temporanei (persino anno per anno), e non erano vincolate al rigore della clausura, perché le loro attività imponevano di vivere nella società o, almeno, l’apertura delle loro case alla società: l’accoglimento, la cura e l’educazione gratuita delle bambine e fanciulle povere, e talora anche dei bambini orfani, l’istruzione delle ragazze dei ceti più elevati, il recupero di donne “traviate”, l’assistenza ai malati e ai vecchi presso gli ospedali o nei loro stessi domicili. Come nei secoli precedenti, queste comunità si presentavano con un carattere “semi-religioso”: vivevano in comunità, che però non osservavano la clausura (oppure adottavano una sorta di clausura “aperta” per le ospiti ricoverate nelle loro case) e che non di rado contavano pochi membri; pronunciavano voti semplici, talora a carattere temporaneo; mettevano in comunione i beni dotali delle consorelle, privilegiavano il lavoro (anche quello manuale, per mantenere se stesse e i loro assistiti) rispetto alla vita contemplativa e alla preghiera, che, pur presenti, non dovevano ostacolare l’impegno nelle loro varie attività; tendevano a riconoscere il magistero carismatico delle loro fondatrici e delle loro superiori. Certo, le norme adottate da papa Pio V impedivano che fossero riconosciuti come “religiose” le donne che operavano in quegli istituti, le cui regole non prevedessero la professione dei voti solenni e l’adozione della clausura, ma le Congregazioni romane praticavano nei confronti di questi istituti una certa tolleranza, finché papa Benedetto XIII abrogò gli impedimenti formali fra il 1724 e il 1730. Le disposizioni di questo pontefice, poi, furono confermate dalla costituzione apostolica Quamvis justo del 30 aprile 1749 di Benedetto XIV, che, pur essendo rivolta all’istituto delle Dame Inglesi (chiamate anche “Gesuitesse”) di Mary Ward, costituì in seguito il riferimento normativo per le altre analoghe iniziative.

    Maggior fortuna conobbero, invece, le Dimesse della Madonna, nate a Vicenza sullo scorcio degli anni Settanta del Cinquecento; tuttavia, si trattava di una compagnia di secolari, che pur conducendo una vita comunitaria, si dedicavano alle opere caritative ed all’insegnamento del catechismo, senza emettere i voti: solo agli inizi del Novecento si trasformeranno in una congregazione religiosa. Un discorso analogo può farsi per le Suore Medee o Suore di S. Giovanni Battista e di S. Caterina da Siena, sorte a Genova nel 1594. Probabilmente, in Italia la prima congregazione religiosa femminile finalizzata all’educazione delle fanciulle povere fu fondata a Firenze nel 1630 da Eleonora Ramirez di Montalvo, con la collaborazione del gesuita Cosimo Pazzi: quelle Ancelle della Santissima Vergine della Divina Incarnazione, che riuscirono a superare indenni la bufera suscitata dagli scandali che di lì a poco travolsero la comunità femminile fondata da Faustina Mainardi. Altre comunità sorsero nei decenni successivi, dalla Pianura Padana alla Sicilia: le compagnie venete di Dimesse della Madonna (da Tiene a Feltre, da Padova a Bergamo, da Verona a Udine), le Brignoline e le Maestre Pie Franzoniane a Genova (rispettivamente nel 1631 e nel 1754), le Oblate Agostiniane del Santo Bambino Gesù (Roma, 1640 c.), le Oblate Sacramentine (Avellino, 1654), le Convittrici del Bambino Gesù a Roma (1662), le Suore Francescane Missionarie d’Assisi (1700), le Oblate di S. Francesco di Sales (inizi del XVIII secolo, a Firenze), le Suore della Beata Vergine Maria del Rosario (Udine, 1705), le Oblate Cistercensi della Carità (Anagni, 1713), le Oblate di Gesù e Maria (Albano Laziale, 1714-1727), le Suore Collegine di Frascati, le Oblate di San Francesco Saverio ad Ariano Irpino (1732), le Figlie della Carità del padre Filippone (Palermo, 1727), ed altre ancora, a lungo trascurate da una storiografia più attenta ai grandi ordini regolari e ai loro rami femminili. Un accenno particolare meritano le Maestre Pie, fondate da Rosa Venerini a Viterbo nel 1685 e introdotte anche a Roma agli inizi del Settecento dalla sua allieva Lucia Filippini, per la loro capacità di irradiarsi anche nei piccoli centri rurali del Lazio e della Toscana in decine e decine di piccole “scuole pie” (ciascuna con soltanto due-tre maestre) dedite all’educazione religiosa ed all’istruzione delle fanciulle povere: la loro diffusione fra le comunità della Maremma ha prodotto in quell’area un tasso di alfabetizzazione femminile relativamente alto già alle soglie della Rivoluzione Nazionale.

    Queste piccole, e meno nobili (almeno rispetto ai monasteri di clausura), comunità di vita attiva riuscirono a sopravvivere alla Rivoluzione e a Napoleone, e decollarono definitivamente nei decenni della Restaurazione con la loro risposta vincente alle molteplici esigenze della società italiana: non solo la vasta gamma delle attività assistenziali necessarie per alleviare le sofferenze di quegli anni di accelerazione dei processi di trasformazione e di rivoluzione degli assetti sociali tradizionali, ma anche il recupero e la rieducazione delle donne dimesse dal carcere (come nel caso delle Figlie di Gesù Buon Pastore fondate nel 1823 a Torino da Giulia Faletti di Barolo o le Ancelle dell’Immacolata Concezione di Maria, fondate a Parma nel 1857 da Anna Maria Adorni) e persino il sostegno alle vocazioni sacerdotali dei giovinetti nelle scuole preparatorie ai seminari (nel caso delle Ancelle del Divin Prigioniero, sorte a Sondrio nel 1826, o delle Suore di Carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea). Anzi, sulla loro scia nacquero, persino in piena età napoleonica e poi con maggiore spinta nei lunghi decenni della Restaurazione, nuove famiglie di religiose come le Clarisse Sacramentarie (Venezia, 1806), le Suore di Carità dell’Immacolata Concezione o Suore d’Ivrea (dal 1806/1828) le Figlie della Carità o Canossiane (Verona, 1808), le Figlie del Cuore di Gesù (Verona, 1810), le Oblate di S. Luigi Gonzaga (Alba, 1815), le Oblate di S. Francesco di Sales (1816 a Città di Castello e 1818 a Cortona), le nuove famiglie di Maestre Pie a Forlì, a Roma, a Sestri Levante e a Genova, le Dorotee di Venezia (1821) e Vicenza (1836) e di Genova (1834, ad opera di Paola Frassinetti), le Figlie Francescane della Carità di Faenza (1824), le Figlie di Nostra Signora al Monte Calvario (Roma, 1827, quale filiazione dell’omonimo istituto genovese), le Povere Figlie della Provvidenza (1827, negli Stati estensi, per assistere ed educare le sordomute), le Giannelline di Chiavari (Figlie di Maria Santissima dell’Orto, 1829), le Ministre degli Infermi di S. Camillo di Maria Domenica Brun Barbantini a Lucca (1829-1841), le Figlie di Maria Immacolata (Verona, 1830), le Figlie del Sacro Cuore (Bergamo, 1831), le Suore di Maria Bambina (Lovere di Brescia, 1832), le Figlie della Divina Provvidenza di Roma (1832), le Suore della Provvidenza o Rosminiane (Domodossola, 1832), le Adoratrici del Sangue di Cristo (Frosinone, 1834), le Suore della Provvidenza di S. Gaetano da Thiene (Udine, 1837), le Figlie di Nostra Signora della Misericordia di Savona (1837), le Marcelline di Milano (1837-1838), le Ancelle della Carità (Brescia, 1840), la Compagnia di Maria per l’educazione delle sordomute di Verona (1841), le Povere Figlie delle Sacre Stimmate di S. Francesco (Firenze, 1850), le Ancelle dell’Immacolata Concezione di Maria (Parma, 1857), le Figlie di Gesù a Modena ed a Verona. A tutte queste, e a tante altre ancora, vanno aggiunte le congregazioni femminili estere, che s’insediarono nel nostro paese, come la Società del Sacro Cuore di Gesù o le Figlie della Carità di san Vincenzo de Paoli: queste ultime, anzi, furono fra le poche famiglie di vita attiva, che riuscirono a svilupparsi prima dell’Unità anche nell’Italia meridionale, dove ancora prevaleva il modello femminile della vita contemplativa. Se l’operosa carità nei confronti del prossimo e in tutti gli ambienti e situazioni sociali caratterizza la loro poliedrica attività, questi istituti presentano una grande innovazione sul piano organizzativo, pur conservando il principio della vita comunitaria: la tendenza a centralizzare il governo delle singole case sotto l’autorità di un superiore generale, ma anche spesso di una superiora generale. Non sfugga la duplice novità di quest’ultima aspirazione, che pure collideva apertamente con la mentalità diffusa nelle gerarchie maschili del tempo, che ancora guardava con forte sospetto – o condannava apertamente – le donne in movimento e non recluse fra quattro mura, che ancora giudicava le donne incapaci di governare sistemi complessi sul piano organizzativo-istituzionale, come su quello economico-finanziario. Pur fra tanti ostacoli, come in Francia anche in Italia in quei decenni furono gettate le basi di un “nuovo cattolicesimo sociale […] in cui le donne divennero un esercito professionale di infermiere, insegnanti e assistenti sociali” (Hufton, p. 329). Né si può trascurare la diversa composizione sociale rispetto al modello classico del monachesimo femminile: nelle nuove congregazioni l’iniziativa, il governo e l’impegno nei ruoli di primo piano non erano prerogativa esclusiva delle affiliate di estrazione sociale superiore, ma anche di quelle del ceto medio basso o persino di umili origini. Con le leggi di soppressione del 1855-1866, che pure disgregarono l’universo monastico femminile, queste famiglie religiose uscirono pressoché indenni, anzi rafforzate sul piano sociale, sia perché le loro forme di aggregazione e di attività nella vita sociale dimostrarono una piena corrispondenza alle nuove emergenze civili e religiose, a partire dall’impegno nella catechesi per i ceti più umili, accettando di confrontarsi con le problematiche di «classe» della società italiana liberale, investita da processi inediti, innestati dal capitalismo nelle attività produttive agrarie e industriali (come nel caso dell’occupazione femminile giovanile nelle fabbriche tessili, per esempio).

    Fonti e Bibl. essenziale

    A parte le numerosissime voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione (Roma, Edizioni Paoline, 1974-2003) alle singole congregazioni religiose femminili, si vedano: P.R. Baernstein, A Convent Tale. A Century of Sisterhood in Spanish Milan, New York – London, Routledge, 2002; G. Boccadamo, Le bizzoche a Napoli tra ’600 e ’700, in La Santa dei Quartieri. Aspetti della vita religiosa a Napoli nel Settecento. Studi in occasione del II centenario della morte di S. Maria Francesca delle Cinque Piaghe, 1791-1991, «Campania Sacra», XXII (1991), 351-39; M. Caffiero, Femminile/popolare. La femminilizzazione religiosa nel Settecento tra nuove congregazioni e nuove devozioni, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», II (1994), 235-245; M. Campanelli, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 2012; L. Pazzaglia ed., Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Brescia, La Scuola, 1994; E. Colagiovanni, Le religiose italiane. Ricerca sociografica, Roma, Centro Studi U.S.M.I. 1976; G. Galasso – A. Valerio edd., Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, Milano, Franco Angeli, 2001; M. Farina, Donne consacrate oggi. Di generazione in generazione alla sequela di Gesù, Milano, Figlie di S. Paolo, 1997; Donne e fede, G. Zarri – L. Scaraffia edd., Bari, Laterza, 1994; O. Hufton, Destini femminili. Storia delle donne in Europa, 1500-1800, Milano, Mondadori, 1996; M.C. Nazzari, Rona Venerini 1656-1728. La «fedeltà al popolo» come educazione femminile, Tesi di Laurea in Pedagogia Generale, relatore prof. Nicola Siciliani de Cumis, Università «La Sapienza» di Roma, 2002 (“TFO-SWIFT”, www.swif.it/tfo); R. Fusco – G. Rocca edd., Nuove forme di vita consacrata, Roma, Urbaniana University Press, 2010; M. Palazzi, Donne sole. Storia dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, Mondadori, 1997; N. Raponi, Congregazioni religiose e movimento cattolico, in Dizionario storico del Movimento Cattolico in Italia. Aggiornamento, 1997, 82-96; G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma, Edizioni Paoline, 1992; G. Rocca, Gesuiti, gesuitesse e l’educazione femminile, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», XIV, 2007, 65-75; M. Sensi, «Mulieres in Ecclesia». Storie di monache e bizzoche, Spoleto, Centro Italiano sull’Alto Medioevo, 2010; G. Tardio, Donne eremite, bizzoche e monache di casa nel Gargano occidentale, San Marco in Lamis (FG), Edizioni SMiL, 2007; M.E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna 1500-1750, Torino, Einaudi, 2003.


    LEMMARIO