Autore: Maurilio Guasco
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si ebbero nei seminari i primi cambiamenti significativi, introdotti da Leone XIII e Pio X. Il primo, già da arcivescovo di Perugia, aveva emanato un regolamento per i chierici esterni, cioè per quanti si preparavano al sacerdozio restando nelle loro case e frequentando, neanche sempre, le scuole del seminario. Diventato papa, fra i primi suoi atti vi sarebbe stata la pubblicazione dell’enciclica Aeterni Patris (1879) con la quale metteva ordine nei vari orientamenti filosofici presenti nei diversi seminari, imponendo a tutti la dottrina di san Tommaso come base dell’insegnamento della filosofia e premessa indispensabile per lo studio della teologia: si tornava così alla vecchia concezione della filosofia come ancilla della teologia.
Diversi altri provvedimenti emanati dal pontefice avrebbero potuto avere influssi significativi sulla vita del seminario: si pensi in particolare all’apertura degli archivi vaticani, all’insistenza del pontefice sulla necessità degli studi storici e biblici e la sua attenzione ai problemi sociali che avrebbe facilitato il diffondersi di quello che verrà definito “il prete sociale”, cioè il prete che non disdegna di occuparsi dei problemi della società civile.
In effetti, tutto questo non ebbe influssi di particolare rilievo nei seminari, che sempre più venivano considerati istituzioni chiuse e autosufficienti, dove il seminarista doveva essere tenuto al riparo dagli influssi del mondo esterno; anche se, logicamente, le grandi trasformazioni e i dibattiti che ne conseguivano non potevano non avere un’eco significativa anche nei seminari.
Nel frattempo, la diminuzione dei chierici esterni, i periodi di vacanza che vengono sistematicamente abbreviati, i regolamenti disciplinari sempre più severi preparano quella che sarà la svolta del XX secolo, con la scomparsa del chiericato esterno e l’obbligo di residenza in seminario per almeno un quadriennio prima dell’ordinazione sacerdotale.
Nel programma generale di riforme, messo in atto da Pio X, rientravano anche gli interventi dedicati al miglioramento degli studi nei seminari, da ottenersi, ove necessario, anche con la soppressione di seminari troppo piccoli, e quindi non in grado di adeguarsi alle nuove esigenze, e la conseguente nascita di nuovi istituti di carattere interdiocesano o regionale.
Il pontefice aveva nominato una commissione che, dopo un’accurata analisi della situazione, aveva preparato una serie di norme e programmi che il papa rendeva operativi. Contemporaneamente, una visita apostolica a tutte le diocesi offriva a Pio X ulteriori elementi per i suoi interventi riformatori, comprendenti anche i seminari.
Veniva quindi deciso che tutti i chierici erano obbligati alla residenza in seminario, possibilmente fin dalla prima media, ma comunque nel quadriennio degli studi teologici, un quadriennio che doveva essere svolto integralmente, senza che vi fossero deroghe alla sua durata né possibili anticipi per la recezione degli ordini maggiori. Diventava così impossibile compiere gli studi privatamente, e venivano anche abolite le varie scuole ecclesiastiche vescovili che erano ancora aperte presso alcuni capitoli delle cattedrali.
Il curriculum prevedeva la divisione in scuola media, ginnasio, liceo e teologia e la base degli studi dalla scuola media al liceo diventavano i programmi governativi, con qualche aggiustamento per gli anni del liceo, che prevedano un più alto numero di ore dedicate alla filosofia scolastica. Vi era stato un dibattito particolarmente vivace tra quanti ritenevano che l’introduzione dei programmi governativi nelle scuole dei seminari fosse un cedimento alla cultura laica e un incoraggiamento a quanti sarebbero entrati in seminario solo allo scopo di compiere gli studi umanistici, e quanti ritenevano che la scelta di quei programmi, senza modificare il cammino vocazionale, avrebbe lasciato maggiormente liberi i giovani nello scegliere il loro futuro, senza sentirsi costretti a restare in seminario anche alla vigilia della teologia causa la totale mancanza di qualsiasi titolo scolastico legalmente riconosciuto.
Pio X portava così a compimento l’opera del Concilio di Trento, che aveva suggerito di aprire in ogni diocesi un seminario; realizzando anche un altro dei suggerimenti del Tridentino, che prevedeva per quelle diocesi impossibilitate a fare da sole di aprire insieme seminari interdiocesani o regionali.
Di conseguenza, nel volgere di pochi anni sarebbero sorti vari seminari regionali, soprattutto nel Centro-Sud, affidati per l’insegnamento al clero secolare, con cinque eccezioni riguardanti i gesuiti. Le nomine dei preti secolari come docenti vennero in genere decise a Roma, data la difficoltà che insorse quando i vescovi locali dovettero provvedere alle scelte dei docenti e spesso anche delle località in cui collocare il seminario.
Nel 1908 nasceva così a Lecce il regionale pugliese, poi trasferito a Molfetta nel 1915. Nello stesso anno nasceva il regionale di Chieti, mentre nel 1909 quello di Fano diventava interdiocesano e iniziava la costruzione di quello di Bologna, inaugurato nel 1919. Nel 1914 venivano inaugurati i regionali di Catanzaro e di Napoli. Nel 1911 diventava regionale il seminario di Anagni e nel 1912 quello di Assisi. L’ondata di fondazioni sarebbe poi ripresa negli anni Venti e Trenta con i seminari di Cuglieri, Potenza, Benevento, Reggio Calabria, Salerno e Viterbo. Nel 1953 si sarebbe aggiunto anche quello di Siena.
Gli anni di Pio X sono però segnati anche dalla crisi modernista. Di fronte al clima di rinnovamento e anche di entusiasmi sollevati nei seminari dalle opere di coloro che venivano condannati per la loro eterodossia, l’enciclica Pascendi (1907) corse ai ripari prescrivendo anche per i seminari delle norme disciplinari particolarmente rigide. Sulla base delle relazioni preparate dai visitatori mandati da Roma nei diversi seminari, non pochi insegnanti vennero esautorati, furono censurati e proibiti manuali e testi in uso nei seminari considerati poco ortodossi, si impose una oculata vigilanza su superiori e professori, i quali poi furono tutti costretti al cosiddetto “giuramento antimodernista”, un testo preparato a Roma che condannava tutte quelle dottrine che contenessero anche un minimo sospetto di eresia modernista e che doveva essere prestato da tutti i preti che accedessero a qualche nuovo ufficio, ma doveva anche essere ripetuto ogni anno dai professori del seminario.
Nel frattempo, il seminario accentuava la sua immagine di istituzione globale, lontana da ogni eco mondana: veniva proibito ogni contatto con l’esterno, per esempio attraverso la lettura di quotidiani, quindi assolutamente proibita, e fortemente limitato l’uso di biblioteche e riviste, mentre il tempo delle vacanze in famiglia veniva ulteriormente limitato. Ne avrebbe tratto vantaggio la formazione spirituale, a scapito però di una formazione culturale diventata sempre più carente. Nasceva così l’immagine del prete non troppo colto ma ubbidiente, mentre si diffondeva ulteriormente il falso mito del curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, santo proprio perché poco colto.
Nel 1917 si concludevano anche i lavori di preparazione del nuovo codice di diritto canonico, durati diversi anni: venivano così ratificate molte norme entrate in vigore negli anni precedenti. Veniva soppresso il chiericato esterno, si consigliava la presenza in ogni diocesi di due sedi per il seminario, una riservata al seminario minore, una al maggiore. Veniva precisata l’età minima necessaria per accedere agli ordini: il suddiaconato al compimento del ventunesimo anno di età, e al termine del terzo anno di teologia; il diaconato a ventidue anni e all’inizio del quarto anno di teologia, il presbiterato dopo la metà del quarto anno di teologia e al compimento del ventiquattresimo anno (salvo dispense da Roma). Venivano anche precisate le materie che avrebbero dovuto costituire la base indispensabile per una buona preparazione al sacerdozio. L’attuazione delle varie norme veniva affidata alla Congregazione dei seminari e delle università degli studi, costituita nel novembre 1915 da Benedetto XV con la Lettera apostolica Seminaria clericorum.
Superate le difficoltà e le conseguenze della guerra, che avrebbe visto un numero molto alto di preti e seminaristi al fronte, un nuovo documento romano, l’Ordinamento dei seminari, pubblicato dalla neonata Congregazione il 26 aprile 1920, ribadiva le varie norme e direttive emanate negli anni precedenti.
Un ultimo segno della chiusura al mondo e della scelta di conservare i seminaristi, in Italia, immuni da rapporti con la società civile, veniva dato dalla firma dei Patti Lateranensi, del’11 febbraio 1929, che contenevano per i seminaristi l’esenzione dal servizio militare.
Una svolta significativa nella storia del clero italiano, e poi anche dei seminari, era costituita dalla fondazione, nel 1916 per opera del padre Paolo Manna, della Unione missionaria del clero, consigliata a tutte le diocesi dallo stesso pontefice. In un primo momento, tale opera veniva sconsigliata, per non dire proibita, nei seminari. Questi, secondo gli orientamenti del tempo, dovevano provvedere a formare i preti in vista dell’attività pastorale nelle loro diocesi di origine. Parlare di missione nei seminari poteva distogliere i seminaristi da tale orientamento. Chi avesse voluto dedicarsi alle missioni, doveva entrare in una Congregazione missionaria. E i rettori avevano qualche timore che il pensiero delle missioni potesse distogliere i seminaristi dal loro compito, o addirittura portarli ad abbandonare il seminario.
Ci vorranno anni prima che si riscopra da un lato il ruolo essenzialmente missionario della Chiesa, dall’altro la responsabilità di ogni cristiano nei confronti dell’annuncio missionario, oltre i compiti specifici che ognuno deve svolgere nella comunità dei credenti.
A partire dagli anni Trenta però gli orizzonti si sarebbero allargati, al punto che nel 1931 sarebbero stati introdotti nel piano di studi dei seminari, anche se non tra le discipline fondamentali, gli insegnamenti di Storia delle missioni e di Missiologia.
In quello stesso anno, 1931, un provvedimento di Pio XI era destinato a modificare profondamente la storia dei seminari e dei loro piani di studio. Con la Costituzione Deus scientiarum Dominus il pontefice presentava le condizioni richieste perché una facoltà teologica fosse abilitata a rilasciare titoli accademici. Il risultato sarebbe stato la pratica soppressione, con qualche piccola eccezione, di tutte le facoltà teologiche presenti in molte delle diocesi, non solo italiane. Rimanevano, e modificavano i loro piani di studio, soprattutto le facoltà teologiche romane, dove era ormai indispensabile recarsi per acquisire titoli accademici. Ne sarebbe derivato un evidente arricchimento della ricerca teologica anche per i seminari periferici, dal momento che veniva introdotta la necessità di una tesi di ricerca per conseguire il dottorato, e gradualmente gli insegnanti dei seminari, spesso improvvisati, venivano sostituiti da giovani formati nelle università ecclesiastiche romane. Questo avrebbe poi riaperto il dilemma tra il rischio di formare dei pastori con scarsa preparazione teologica, o dei bravi studiosi ma poco esperti di problematiche pastorali.
La seconda guerra mondiale non avrebbe visto, come era successo nel corso della prima, la partenza per il fronte di seminaristi e preti, esentati grazie ai Patti Lateranensi dal servizio miliare. Sarebbero però partiti diversi cappellani militari, mentre molti seminari rimanevano chiusi o perché in zone di guerra o perché utilizzati come base militare o come ospedali di campo. Ne avrebbe subito gravi danni la formazione soprattutto culturale, dal momento che i corsi si tenevano solo sporadicamente e spesso in luoghi improvvisati. Questo però non avrebbe impedito a molti giovani preti di occuparsi di problemi politici, connessi con la propaganda elettorale negli anni dell’immediato dopoguerra. E non furono pochi i seminaristi che furono anche coinvolti nella propaganda elettorale.
La società italiana però usciva profondamente modificata dagli anni della guerra, e anche nei seminari tornavano le vecchie discussioni sulla apertura al mondo, sulla opportunità di presentarsi agli esami di Stato, sulle materie nuove da inserire nei programmi di studio. Venivano quindi introdotte alcune nuove materie sia di carattere sociologico (anche se all’inizio tale termine indicava la dottrina sociale della Chiesa) che di carattere economico, mentre si dava maggiore importanza all’insegnamento della catechesi. Alcuni cambiamenti erano stati anche richiesti dallo stesso Pio XII nel settembre 1950 con l’esortazione apostolica Menti nostrae, nella quale tra l’altro si chiedeva una maggiore attenzione alla formazione umana dei futuri preti.
I cambiamenti più significativi avvenivano nell’ambito missionario. Erano stati i vescovi francesi ad aprire la strada con la fondazione della Mission de Paris, dedicata alla evangelizzazione del mondo operaio, ma soprattutto con la fondazione della Mission de France, che aveva alla base la constatazione della cattiva distribuzione del clero. Entrare nel seminario della Mission de France significava mettersi a disposizione della Chiesa francese che avrebbe destinato i giovani preti alle diocesi dove era maggiore la carenza di clero. Qualche vescovo italiano aveva applicato lo stesso criterio con paesi di missione, inviando alcuni preti della propria diocesi al servizio di diocesi dove stava iniziando l’annuncio del Vangelo.
Tale criterio sarebbe stato ratificato e diffuso dall’enciclica Fidei donum di Pio XII, dell’aprile 1957; il papa invitava i vescovi occidentali a mettere alcuni loro preti a disposizione dei territori di missione, per periodi determinati e con l’accordo del vescovo che avrebbe accolto quei preti. Si trattava in un primo momento di aiutare le nuove diocesi africane a formare i loro pastori, per poter presto permettere la nascita di vere Chiese locali. A partire dagli anni Sessanta tale prassi si sarebbe estesa ad altri paesi e ad altri servizi pastorali, finendo per indicare quanti sceglievano quel servizio come “preti Fidei donum”.
Si trattava di una svolta significativa anche per la vita dei seminari, poiché permetteva di modificare gli orizzonti della formazione seminaristica, superando il cosiddetto egoismo diocesano: il seminarista entrava in un’ottica diversa, scopriva lentamente che si veniva ordinati al servizio della Chiesa universale, e non di una Chiesa particolare. Le necessità pastorali avrebbero indicato il luogo specifico in cui svolgere il ministero. Inoltre, si apriva ai giovani la possibilità di un servizio pastorale da svolgere, per alcuni anni, in terra di missione, senza bisogno di entrare in una Congregazione religiosa. Un clima nuovo che veniva facilitato dalla costituzione in molti seminari dei “circoli missionari”, dedicati all’animazione missionaria in seminario, mentre nel 1962 sarebbe stato fondato a Verona il CEIAL (Centro Ecclesiale Italiano per l’America Latina), seguito dall’apertura nel 1965, ancora Verona, di un seminario per formare i preti destinati all’America Latina.
In quegli stessi anni poi stava cambiando non solo la geografia vocazionale (aumentavano i seminaristi non occidentali) ma anche l’anagrafe nei seminari. La maggior parte dei seminaristi adulti proveniva ancora dai seminari minori. Giungevano però in seminario le cosiddette “vocazioni adulte”, giovani cioè che entravano nel seminario maggiore dopo una formazione culturale ed umana diversa: il che avrebbe portato a riflettere anche sui nuovi modelli formativi.
Cosa che in parte avrebbe fatto il Concilio Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII nel gennaio 1959 e apertosi l’11 ottobre 1962. Il documento sulla formazione del clero, Optatam totius, sarebbe stato approvato il 28 ottobre 1965. Tra le novità del testo, da ricordare che i Padri insistevano sul fatto che il risveglio e la cura delle vocazioni non dovevano essere riservate agli addetti ai lavori, ma a tutta la comunità cristiana. Le singole Conferenze Episcopali venivano poi invitate a preparare un regolamento di formazione sacerdotale, da sottoporre alla Santa Sede, affinché le necessarie norme generali fossero adattate alle situazioni dei singoli paesi. Restava il richiamo a una formazione filosofica e teologica fondata sulla dottrina tomista, ma si chiedeva anche una maggiore attenzione alle diverse correnti filosofiche contemporanee, mentre si precisava che uno dei pilastri della formazione sacerdotale doveva essere la pastoralità. In altri termini, ai tre grandi riferimenti indicati dal Concilio di Trento, pietà-studio-disciplina, ora si affiancava la formazione pastorale, aggiungendo che era proprio questa che doveva fondare la vita spirituale del presbitero.
Il Italia la Ratio fundamentalis veniva presentata il 22 luglio 1972, in uno dei momenti più problematici della storia dei seminari. Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta si verificava la più grave e in parte inattesa crisi nella storia del clero: crollavano gli ingressi nei seminari, con la conseguente chiusura di non pochi di questi, mentre numerosi preti abbandonavano il ministero, facilitando una discutibile e troppo comoda analisi che vedeva nel Concilio e quindi nel cosiddetto Sessantotto le cause di tale situazione. Il numero dei seminaristi, che nel 1962 aveva raggiunto la cifra più alta del secondo dopoguerra con 30.595 unità, si riduceva a 25.570 nel 1968 per precipitare a 9.853 nel 1978. Nel 1970 vi erano aperti 375 seminari, ridotti a 259 nel 1978. In un decennio erano dunque stati chiusi 68 seminari minori e 48 maggiori.
Cambiava ulteriormente la geografia vocazionale, non solo a livello mondiale, ma anche locale, poiché il numero di seminaristi che non provenivano dal seminario minore era in continua crescita. Questo avrebbe portato alcune diocesi ad aprire dei seminari specifici per le vocazioni adulte, ma anche molti seminari a modificare i loro programmi di studio e di formazione spirituale. La scelta di aprire seminari destinati a categorie particolari si stava diffondendo anche tra i movimenti ecclesiali: non erano poche le vocazioni cresciute in quei movimenti, e i loro responsabili ritenevano che fosse giunto il momento di formare preti che avessero gli stessi orientamenti e la stessa spiritualità dei movimenti dai quali provenivano. Sceglievano tale orientamento, ad esempio, il Cammino neocatecumenale, il Rinnovamento dello Spirito, i Focolarini e altri. Il che naturalmente sollevava nuovi problemi e nuove prospettive, rendendo più problematica la scelta di una pastorale diocesana indicata dai vescovi, e non dai responsabili dei singoli movimenti.
I vescovi italiani preparavano intanto un decreto, presentato nel maggio 1980, che teneva presenti i cambiamenti avvenuti, a livello istituzionale, nel cammino di preparazione al sacerdozio. Venivamo modificati i cosiddetti “ordini minori” e soppresso il suddiaconato. L’ingresso nell’ordine clericale sarebbe avvenuto con il conferimento del diaconato, che restava come ultimo gradino verso il sacerdozio, ma veniva affiancato dal diaconato permanente, conferito a quanti ricevevano il diaconato solo come servizio da prestare alla comunità ecclesiale, senza però avviarsi al sacerdozio.
Le varie modifiche presentate anche per i piani di studio venivano poi recepite nella Ratio studiorum per i seminari maggiori italiani, pubblicata nel giugno 1984. Il tema della missionarietà sarebbe stato ripreso nel Sinodo dell’ottobre 1990, dedicato a La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, mentre sulle esigenze della formazione pastorale sarebbe tornato Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis, l’esortazione apostolica del 25 marzo 1992, anch’essa dedicata a La formazione dei sacerdoti.
Lo stesso Giovanni Paolo II aveva pubblicato nel 1979 la Sapientia christiana, con la quale modificava la Deus scientiarum Dominus, la Costituzione di Pio XI del 1931 che era rimasta sempre in vigore, solo con qualche parziale modifica suggerita nel maggio 1968 dalla Sacra Cogregatio pro Institutione Catholica. La Sapientia christiana indicava le nuove norme necessarie per il conseguimento dei titoli accademici nelle Università pontificie.
Anche in queste si stavano verificando in quegli anni cambiamenti significativi. La ricostituzione in alcune città italiane di facoltà teologiche finiva per fare diminuire il numero di seminaristi che si recavano a Roma per completare gli studi, determinando un ulteriore modifica delle presenze di giovani seminaristi o preti a Roma. Diminuivano cioè le presenze di giovani provenienti dai paesi europei, mentre aumentano le presenze di africani ed asiatici, con la conseguente necessità di nuovi adeguamenti nei piani di studio. Qualcosa di analogo avveniva nei seminari italiani, dove aumentavano le presenze di giovani non italiani, spesso venuti solo per completare gli studi e poi incardinati nelle diocesi che li avevano accolti.
In Italia veniva anche discussa la possibilità di introdurre nelle facoltà teologiche alcune modifiche che rispecchiassero le riforme in corso nelle diverse facoltà statali: tale possibilità sarebbe stata indicata come il “processo di Bologna”.
Sono le nuove sfide del futuro: anche il presbiterio e il seminario stanno diventando lo specchio dei una società multietnica e multiculturale. Si tratta di una nuova realtà con cui dovranno confrontarsi i seminari e le diocesi italiane.
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