Autore: Grazia Loparco
Grazie ai numerosi studi sulla storia delle donne in Italia, è possibile tracciare un quadro abbastanza preciso dal 1861 al presente, sebbene non si possa dire altrettanto della storia delle cattoliche, a lungo molto presenti e attive nelle istituzioni, ma riconosciute a stento nell’effettivo contributo alla vita ecclesiale. La cronologia della storia italiana inquadra i maggiori fenomeni che riguardarono le donne secondo i diversi stati di vita. Per cent’anni esse si identificano con le cattoliche, essendo la stragrande maggioranza.
1) Il quadro femminile al 1861
Al 1861 si contavano 13.399.000 maschi e 12.929.000 femmine. Di queste, oltre le sposate, 206.698 nubili, 42.664 religiose, con prevalenza di monache al sud. La maggioranza delle donne erano votate alla famiglia, dove non era previsto il divorzio. Esse non avevano diritti civili al pari degli uomini; in numero più alto erano analfabete. Molte scuole erano in quegli anni in mano a istituti religiosi femminili. Circa il lavoro, le donne si occupavano in campagna, nelle filande. Prive di istruzione professionale, nei primi stabilimenti erano molto sovente sfruttate. Per l’aspetto religioso, la soppressione degli Ordini non riguardò le Congregazioni femminili recenti, dedite a un apostolato visibilmente utile alla società: colmavano lacune statali ed erano escluse dalle polemiche culturali. Anche nelle carceri e negli ospedali cresceva l’assistenza femminile, con l’attenzione all’intera persona, manifestando un Dio vicino soprattutto con il linguaggio della cura, della carità operosa. Tra tante altre, la marchesa Giulia Falletti di Barolo (1785-1864) con il marito Carlo Tancredi (1782-1838) a Torino e le Figlie della carità sui campi di battaglia avevano inaugurato un nuovo approccio alle persone, spesso abbandonate nelle pieghe della povertà.
2) La prima evoluzione (dal 1861 al 1914 circa)
a) La nascita del femminismo. Il primo femminismo in Italia, promotore di riforme sociali e politiche, ebbe carattere laico: Anna Maria Mozzoni (1837-1920) ricordava che l’essere donna è fonte di diritti, mentre l’educazione comune sottolineava soprattutto i doveri. La nascita di riviste femminili restò un segnale per élites, impegnate a rivendicare uguaglianza e spazi di protagonismo.
Il movimento femminile cattolico, sostenuto inizialmente dalla lombarda Adelaide Coari (1881-1966), condivideva i fermenti legati alla richiesta di riconoscimenti civili, ai diritti in campo lavorativo e politico, sebbene le cattoliche non si vincolassero alle socialiste promotrici di un’emancipazione delle donne dalla chiesa che le teneva in soggezione. La veneta Elisa Salerno (1873-1957) pose alla riflessione il rapporto tra donna, lavoro e chiesa, incorrendo nell’accusa di modernismo, come accadde anche alla napoletana Antonietta Giacomelli (1857-1949). L’impegno sociale fu promosso dalla rivista L’Azione muliebre fondata da Elena Da Persico (1869-1948), che cercò di contemperare la docilità alla gerarchia e l’apertura di interessi e campi d’azione. Sulla Civiltà Cattolica del 1906 uscivano intanto diversi articoli su La donna nuova: essi, contrastando una rivendicazione sovversiva, con mentalità conservatrice promuovevano comunque l’impegno cristiano anche in ambienti nuovi per le donne, come gli impieghi pubblici.
b) Il miglioramento dell’istruzione. Nonostante la diffidenza anche ecclesiastica verso l’istruzione femminile, che tenne basso il numero delle laureate, come dimostrano le statistiche di fine ’800, con la fondazione dei due Magisteri a Roma e a Firenze nel 1878, si allargò l’accesso alle donne, specialmente in vista della formazione delle insegnanti nelle scuole Normali. In queste si preparavano le insegnanti elementari, rispondenti alla legge dell’istruzione obbligatoria. Nel giro di alcuni decenni le maestre superarono in numero i maestri, sempre meno interessati a un lavoro faticoso e poco remunerato. Il Magistero fu ben presto frequentato anche dalle religiose, interessate ai legali diplomi universitari necessari per preparare maestre. Soprattutto le Congregazioni religiose femminili diedero un apporto determinante nei primi decenni post unitari all’alfabetizzazione capillare delle fasce popolari, con la presenza anche in piccoli centri di provincia, privi di altre insegnanti. Il riconoscimento sociale della figura della maestra religiosa, legata a una comunità che ne tutelava la moralità, aprì la strada alle laiche. Superando le remore, le suore e le donne furono dunque protagoniste dell’unica, per certi versi, “rivoluzione” riuscita in Italia: una maggiore istruzione ed educazione delle donne e del popolo. In mancanza di scuole e di mezzi di comunicazione, i collegi, gli educandati, i convitti, consentirono a lungo l’elevazione culturale di molte ragazze, anche come maestre, a loro volta promotrici dei valori cristiani per generazioni di allievi. In tal senso la formazione degli italiani passò attraverso molte maestre cattoliche, con risparmi economici per i comuni e lo Stato. Un po’ più lento fu l’avvio degli asili e giardini d’infanzia, per i pregiudizi che gravarono su quest’istituzione. All’inizio del ’900, però, con la diffusione delle famiglie nucleari nelle zone più industrializzate, essi si moltiplicarono, restando a lungo appannaggio delle religiose, che in tal modo avevano diretto contatto con le famiglie.
Di fronte all’anticlericalismo di varia matrice, le donne mediarono un’immagine diversa di Chiesa, non impositiva o chiusa in difesa di diritti o privilegi violati, ma chinata sulle esigenze concrete delle persone per provvedervi con carità e rispetto. Sillabo e questione romana interessavano più gli uomini; le persone in necessità più le donne. Con la particolarità che le loro opere si basavano sul lavoro, non sulle rendite.
c) I nuovi lavori per le donne. Il rapporto donne e lavoro, sia negli stabilimenti industriali che negli impieghi pubblici, incrociò l’impegno di istituzioni ecclesiali, specie le Congregazioni, che assunsero la gestione di convitti e pensionati, per un’assistenza attenta alla promozione delle giovani in vista della famiglia, oltre che agli aspetti sanitari, sociali e morali. Era un modo femminile di partecipare alla questione sociale, stando nelle situazioni di tensioni e disagi, cercando la mediazione. I convitti per operaie erano già presenti prima del 1861, ma si moltiplicarono soprattutto dai primi del ’900. Con gli scioperi e la propaganda del socialismo, si formarono poi leghe cattoliche, come pure patronati di tutela e difesa delle lavoratrici.
Altri lavori consentiti alle donne in questo periodo furono l’insegnamento e come infermiere. Il primo manuale per la formazione di queste ultime fu fatto stampare da Mons. Giovanni A. Farina (1803-1888), fondatore delle suore Maestre di S. Dorotea di Vicenza. Per le infermiere restava l’obbligo del celibato, come conferma a Roma l’esperienza di Anna Celli (1878-1958). In pratica, c’era una sorta di divisione sessuale del lavoro anche in Italia, sostenuto dalla Chiesa. La managerialità che distinse molte fondatrici religiose, motivata dall’urgenza apostolica e alimentata dall’incremento delle comunità, non ebbe eguali tra le rivendicazioniste.
d) Questione religiosa e associazioni. Le prime donne emancipate sembrano essere proprio le religiose per l’impegno autonomo in tante attività, incluse le missioni estere in gran numero ecc. Però all’inizio del Novecento ci furono le prime critiche al loro mondo e l’avvio di quelli che sarebbero stati gli Istituti secolari (Elena da Persico ecc.), presenti come fermento invisibile nella società. D’altronde, con la separazione tra Stato e Chiesa fiorì l’associazionismo delle donne, non solo delle élites, a riprova di una soggettività più definita. Già dal 1867 si erano sviluppate nelle parrocchie le pie unioni delle Figlie di Maria. Con la moralità e la pietà, i sacerdoti talvolta promossero un apostolato nella catechesi parrocchiale e nelle famiglie, o sui posti di lavoro. Da alcuni gruppi sorsero anche forme di consacrazione privata, riavvicinata alla Compagnia di S. Orsola di Angela Merici.
Tenendo conto che le ragazze italiane non erano abituate a spazi di socializzazione organizzata o di tempo libero, nelle associazioni parrocchiali o nei popolatissimi oratori delle religiose sperimentarono una forma di responsabilizzazione e partecipazione inedita, specie per alcune regioni, come la Sicilia e nel sud. Una iniziativa ancora maggiore fu richiesta con l’adesione all’Azione cattolica nelle Unioni femminili, che spinsero a un protagonismo attivo e incisivo. Nel 1908 c’era stato un avvicinamento tra emancipazioniste e cattoliche nel primo convegno nazionale femminile a Roma, ma arrivarono alla rottura sul tema dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, tema che aveva provocato la nascita delle Scuole di Religione extra scolastiche organizzate in molte diocesi italiane. Poco dopo nacque l’Unione delle Donne Cattoliche italiane, a sostegno del modello femminile tradizionale, ma aprendo a battaglie che riguardavano il mondo del lavoro come pure l’insegnamento della religione e una certa preparazione e iniziativa nella società.
In pratica si conclude il periodo con il respingimento della proposta di divorzio, della richiesta di concedere il diritto di voto alle donne, della partecipazione alla politica o maggiori spazi nelle professioni. La spinta verso una evoluzione era piuttosto difficile, per molte remore anche ecclesiali (Pio X pensava che le donne dovessero stare in casa), tuttavia la corsa ad ostacoli non bloccò le donne e tra loro molte suore, che nella Chiesa si sentirono responsabili della salvezza degli altri e perciò allargarono in modo talora impressionante i confini dei propri interessi e intrapresero lunghissimi viaggi per le missioni. Francesca Cabrini (1850-1917) è un paradigma.
3) La prima guerra mondiale
Durante la Grande guerra si registrò una grande partecipazione delle donne alla vita della nazione, con l’assunzione di attività prima svolte solo da uomini. Molte furono crocerossine; le suore, anche educatrici, si impegnarono negli ospedali militari e nell’assistenza degli orfani, rompendo gli schemi e le abituali attività; molte collaborarono in comitati di assistenza a favore dei soldati al fronte. Anche se vigevano ancora le leggi di soppressione, dopo questa esperienza, religiose e religiosi, clero, erano riconosciuti dalla gente come parte della nazione, avendo dato prova di “patriottismo”, pertanto bisognava arrivare a una soluzione del problema romano.
4) Il fascismo e la seconda guerra mondiale
Nella politica demografica del regime si enfatizzò la figura della madre; restava la questione del lavoro, per cui si assegnava alla donna uno stipendio inferiore a parità di mansioni, con la possibilità di licenziamento con il matrimonio ecc. In prevalenza ci fu l’adeguamento formale delle religiose al fascismo, pur cercando di tutelare i principi ed evitare ingerenze eccessive nelle opere. Le percentuali delle religiose cominciarono a diminuire, per maggiori spazi e migliori condizioni generali concessi alle donne. I mezzi di trasporto, le possibilità per le sposate di tornare al lavoro, le letture, cambiavano il modo di percepire anche se stesse e il proprio compito. La capacità organizzativa di Armida Barelli (1882-1952) in ordine all’Università Cattolica e alla Gioventù femminile di Azione Cattolica è indice di un impegno senza deleghe che seppe coinvolgere moltissime giovani.
Durante la seconda guerra mondiale si registrò poi una resistenza femminile, specie attraverso l’assistenza a chiunque fosse in pericolo, mostrando valore civile e impegno concreto a favore delle persone, senza guardare l’appartenenza religiosa. In particolare si segnalò l’aiuto di religiosi e religiose agli ebrei, ai dissidenti politici, ai renitenti alla leva, agli sfollati, ai bambini e alle bambine della strada e agli orfani. Per necessità si era sviluppata la fantasia della carità e la prontezza. Invece la mentalità degli “occhi bassi” resisteva nell’educazione alla modestia, alla sottomissione e al silenzio; nella conoscenza delle proprie potenzialità e della stessa corporeità. Molte letture spirituali e prediche vi insistevano con le mamme e le figlie, tuttavia la diffusione della radio, del cinema, della stampa, del ballo, di una moda più libera, inaugurava cambi difficilmente arginabili.
5) Dopo la seconda guerra mondiale
Dopo il 1945 la situazione mutò rapidamente anche per le donne. Si riconobbe il diritto di voto e la partecipazione alla politica (anche di diverse donne membri di istituti secolari). Durante il concilio Vaticano II, quando furono invitate, tra le 23 uditrici ci furono due laiche e una religiosa italiane; subito dopo ci fu l’apertura delle facoltà pontificie alle donne, anche come docenti, persino di teologia, e il riconoscimento della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, l’unica affidata dalla Santa Sede alla gestione di donne, nel 1970.
Ai primi degli anni ’60 Giovanni XXIII additò la nuova condizione delle donne come uno dei segni dei tempi. Per la verità esse avevano dovuto conquistare terreno palmo a palmo, non di rado insistendo e resistendo anche alle autorità ecclesiastiche, per far riconoscere la bontà di scelte inedite rispetto alla disciplina canonica. La mentalità ecclesiale corrispondeva a quella sociale, pur avendo consentito alle donne spazi di azione prima che nelle famiglie. Con la contestazione del ’68, la legge sull’aborto e il divorzio degli anni settanta, la liberalizzazione dei costumi sessuali con conseguente uso dei contraccettivi, si delinea la progressiva divaricazione tra Chiesa e mondo femminile, ormai entrato nella secolarizzazione, cent’anni dopo gli uomini. L’immagine istituzionale, le scelte concrete nelle comunità locali hanno influito sulla “fuga delle quarantenni” dalle parrocchie, come anche sulla diminuzione delle consacrate, mentre sono aumentate donne impegnate nel volontariato e in altri movimenti ecclesiali. Al contempo, con la maggiore preparazione culturale, si assiste a una critica del femminismo da parte delle stesse donne, nella ricerca di una visione antropologica più evangelica, fino alle conseguenze di un’auspicata reciprocità nella cooperazione e nelle relazioni anche intraecclesiali, troppo segnate dal tradizionale maschilismo. La riflessione teologica delle donne italiane è avviata, ma c’è ancora molto spazio per il dialogo e un ripensamento comune.
Conclusione
Cessato l’appoggio ufficiale dello Stato alla Chiesa e aumentato l’indifferentismo maschile, le donne hanno contribuito fortemente a rimodulare la vita delle comunità locali e delle parrocchie, grazie al crescente coinvolgimento nell’apostolato fuori delle mura domestiche. Senza oneri economici per i sacerdoti e i vescovi, come per lo Stato.
L’assunzione personale della fede, legata a lungo al dovere della sua trasmissione in famiglia, ha prodotto una valorizzazione della soggettività femminile, fondata sulla dignità battesimale, pur nell’asimmetria di genere e nel clericalismo della Chiesa italiana. Il sodalizio tra donne e Chiesa ha interessato tutte le fasce sociali in modi consoni alla mentalità vigente e al contempo ha spinto le donne delle fasce più popolari a un impegno allargato che, per almeno un secolo, si è rivelato portatore di uno sviluppo superiore a quello degli ambienti di appartenenza. Si pensi alle associazioni, ai circoli culturali, alle letture, ai viaggi, alle responsabilità di governo di opere e strutture di portata superiore a quella familiare, quali potevano essere le opere delle religiose o gli impegni dell’Azione Cattolica o in altre associazioni. Il progresso era frutto di un senso di responsabilità assunto con decisione, non di una rivendicazione.
Con l’acquisizione del diritto di voto, diverse donne si impegnarono per favorire il partito di ispirazione cristiana. Sempre poche, invece, entrarono direttamente in politica. Il modello femminile proposto dalla Chiesa era legato alla famiglia, alla consacrazione religiosa, non a un impegno politico attivo. Neppure l’elevazione della cultura di molte donne è bastata a modificare profondamente un atteggiamento diffuso di delega.
Per circa un secolo dall’Unità d’Italia, in presenza di un progressivo secolarismo, matura la “femminilizzazione del cristianesimo” nelle parrocchie, nelle opere caritative e sociali, nelle scuole e negli ospedali. Non manca chi ha affermato che le donne hanno salvato la fede e la Chiesa italiana troppo ancorata alla gerarchia. Finora, tuttavia, altri sono i fatti, altra l’immagine delle donne e della Chiesa in Italia.
Dopo il ’68, con la ripresa del femminismo radicale e la comparsa dell’ideologia del gender, anche il rapporto con la Chiesa si è lacerato per un numero crescente di donne, con conseguenze evidenti sul piano antropologico e culturale, nelle famiglie, nella pratica religiosa e negli impegni pubblici.
Considerando i papi, Leone XIII tra 1878 e 1891 elaborò il modello della donna in famiglia, angelo del focolare, che resistette a lungo. Pio X, conservatore a questo riguardo, accolse però l’iniziativa di Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959) per inaugurare un nuovo associazionismo, diverso dalle pie unioni, sviluppato con l’apostolato dell’Azione Cattolica. Passando per Giovanni XXIII e Paolo VI, che posero gesti discreti, ma significativi e innovatori, si arriva alla Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, con la decisione di inserire qualche donna tra le officiali della Santa Sede. Scelta confermata da Benedetto XVI e da papa Francesco, che afferma la necessità di ripensare la teologia della donna, prendendo atto che i passi istituzionali richiesti dalla contemporaneità sono stati decisamente lenti.
Nell’arco di più di 150 anni è facile, infine, notare come molte cose siano cambiate nella mentalità, nelle prospettive e dunque anche nelle statistiche e nelle percentuali che riguardano le aree di impegno delle donne cattoliche italiane, tra cui si annoverano numerose sante. Circa lo stato di vita si assiste pure a una nuova proporzione tra donne sposate, single e religiose, per l’apertura progressiva di possibilità, nonostante le limitazioni sussistenti.
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