Autore: Lorenzo Mancini
Il principio «Libera Chiesa in libero Stato», di ascendenza giansenista, riconducibile al cattolico liberale francese Charles de Montalambert, al riformato svizzero Alexandre Vinet, fatto proprio da Cavour all’indomani dell’unità d’Italia, segna una tappa importante nelle relazioni tra Stato e Chiesa in quanto riassume il difficile decennio precedente e cerca di delineare le linee guida per quello successivo alla luce degli eventi che portarono alla costituzione del Regno d’Italia; quelle parole tuttavia, al di là della chiarezza e dell’efficacia, nascondevano una serie di problemi politici, giuridici ed ecclesiologici circa la realizzazione pratica di quel principio, sullo sfondo di un difficile contesto di relazioni internazionali con lo Stato della Chiesa, ormai privato di buona parte dei suoi territori, e con le altre nazioni europee. Dal punto di vista della Chiesa non si poneva tanto l’accento sulla libertà dei due soggetti, ma si temeva la possibile inclusione della Chiesa nella sfera di controllo dello Stato.
Pio IX intuiva tutte le difficoltà della mancanza di un territorio per la Chiesa che avrebbe dovuto realizzare la sua universalità attraverso una sovranazionalità non ancora ipotizzabile e tanto meno definibile; al tempo stesso però comprendeva che ipotesi come quella neoguelfa non erano praticabili e anche l’avvicendarsi della classe politica di governo con l’avvento della sinistra storica al potere sembrava confermare l’irreversibilità del processo unitario.
Fin dal 1861, tra i problemi della nuova realtà, spiccava la Questione romana, ovvero quale ruolo attribuire all’Urbe, capitale dello Stato Pontificio e simbolo del potere temporale dei papi che la Chiesa intendeva come garanzia della propria libertà di azione (cf. allocuzione di Pio IX Maxima quidem laetitia del 9 giugno 1862 e, dopo i fatti di Porta Pia, cf. l’enciclica Ubi nos del 15 maggio 1871).
Già in epoca cavouriana, in buona parte della classe politica di governo, si era consolidata l’idea che trasferire a Roma la capitale del Regno d’Italia fosse una soluzione non solo percorribile ma a tratti doverosa. Da una tale ipotesi scaturirono i primi progetti di regolamentazione della difficile possibile coabitazione nella città, cui aggiungere tentativi di accordo e conciliazione fra le parti sotto la vigilanza della Francia; le truppe di Napoleone III insieme a quelle di Pio IX, infatti, nel 1867 respinsero a Mentana l’attacco di Garibaldi allo Stato Pontificio, non abbandonando successivamente quei territori, contrariamente a quanto previsto dalla convenzione italo-francese del 1864 nella quale, tuttavia, l’Italia si impegnava a non attaccare i territori papali.
L’escalation politica e militare del 1870 sul fronte franco-prussiano con il conseguente abbandono francese della piazza di Roma e l’entrata delle truppe sabaude, portò, nell’anno successivo, alla proclamazione di Roma capitale del Regno d’Italia, comportando la definitiva rottura tra Stato e Chiesa i cui rapporti, nell’ultimo decennio, si erano via via irrigiditi. Le relazioni tra i due soggetti, le prerogative del papa e della Santa Sede, venivano regolate unilateralmente dallo Stato con la Legge 13 maggio 1871, n. 214 per le guarentigie delle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede per le relazioni della Chiesa con lo Stato e non già con un atto di natura pattizia: a fronte del venir meno della sovranità territoriale sullo Stato della Chiesa, venivano garantiti l’inviolabilità del papa, gli onori sovrani, alcune immunità ed esenzioni, il diritto di legazione attiva e passiva, la possibilità di mantenere i tradizionali corpi armati a guardia dei palazzi lasciati al papa e la possibilità di poter usufruire di un proprio ufficio postale e telegrafico. Veniva inoltre prevista un’indennità annua che non fu mai riscossa dal papa, ma che fu fra le questioni affrontate dalla Convenzione Finanziaria nell’ambito dei Patti Lateranensi del 1929. Sul piano delle relazioni Stato-Chiesa, il titolo secondo della Legge delle Guarentigie, che ben rispecchiava il confronto parlamentare tra posizioni separatiste e posizioni giurisdizionaliste, prevedeva una minore ingerenza dello Stato nella vita e nell’organizzazione della Chiesa, pur mantenendo, salvo che per la diocesi di Roma e le sedi suburbicarie, il placet e l’exequatur su questioni patrimoniali e sulle nomine che comportassero gestioni patrimoniali. Il papa e la Curia Romana ribadivano il Non expedit, ossia vietavano la partecipazione alla vita politica del neonato soggetto statuale, così come avevano già fatto in diverse occasioni a partire dal 1868, sulla scia di provvedimenti analoghi già utilizzati da Pio VII durante la dominazione napoleonica e dallo stesso Pio IX a partire dal 1849 (la lettera apostolica Cum Catholica Ecclesia del 26 marzo 1860, promulgata da Pio IX dopo la perdita delle Romagne, per esempio, ribadiva la necessità del potere temporale e prevedeva la scomunica maggiore per chiunque avesse attentato all’integrità dello Stato Pontificio); lo scontro tra le parti finì col radicalizzarsi anche sul piano culturale.
Ma se la Questione romana continuò a dividere anche all’indomani della quasi contemporanea scomparsa nel 1878 di Pio IX e di Vittorio Emanuele II e all’avvicendarsi sul trono di Pietro di Leone XIII e su quello italiano di Umberto I, l’impegno sociale sembrava essere il nuovo fattore di coesione attraverso cui i cattolici italiani riuscirono a dare il loro apporto alla vita della nazione, contribuendo ad un lento e graduale mutamento del clima politico sul piano formale e su quello sostanziale. La capillare presenza dei cattolici a livello sociale, distribuiti nelle varie organizzazioni, fra cui spicca l’Opera dei Congressi, compensava la loro mancanza di partecipazione alla vita politica in senso stretto del Regno d’Italia; alla luce della Rerum Novarum anche la presenza dei cattolici a livello sindacale cominciò ad attestarsi. Si alternarono e si contrapposero idee di partecipazione alle elezioni e tentativi di conciliazione a posizioni intransigenti che rimarcarono l’insanabilità e l’irrimediabilità della frattura creatasi fra Regno d’Italia e Chiesa Cattolica.
Un interessante barometro del clima politico connesso alla Questione romana è rappresentato in tal senso dalle vicende legate ai tre giubilei ordinari (1875, 1900 e 1925) e a quello straordinario del 1933, così come, per altri aspetti ed in altro contesto lo sarà quello ordinario del 1950
Gli anni di governo della sinistra storica, caratterizzati sul piano culturale da un acceso scontro fra cattolici da una parte e correnti anticlericali di varia natura dall’altra (socialisti, massoni, positivisti, mazziniani), evidenziarono il progressivo allontanamento dal separatismo cavouriano di matrice liberale, facendo riaffiorare elementi di giurisdizionalismo che, già in occasione del dibattito parlamentare sulle «guarentigie», avevano preso posizione contro il principio stesso della concessione di garanzie, intese come privilegi, al pontefice e alla Santa Sede; tuttavia, ciò non si tradusse in una modifica della legge fondamentale che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, limitandosi ad una serie di provvedimenti in materia amministrativa e patrimoniale, tra cui spicca la Legge 17 luglio 1890 n. 6972 sulle opere pie. L’evoluzione dello scenario politico italiano in senso ‘trasformista’ aveva comportato un rallentamento dell’offensiva anticlericale da parte del governo, individuando nel socialismo e nelle componenti radicali, avversari più temibili anche sul piano elettorale.
Francesco Crispi, siciliano come il segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro e già consulente giuridico di Garibaldi, mitigò i toni anticlericali e giurisdizionalisti che avevano caratterizzato i suoi interventi nel dibattito parlamentare sulla Legge delle Guarentigie, facendo affiorare la sua anima mazziniana, risorgimentale e laicamente mistica, che non lo portò ad una totale chiusura in ambito religioso, ma lo condusse talvolta ad ipotizzare una soluzione ‘americana’ per comporre il conflitto con la Chiesa. Non va però dimenticato che fu Crispi a chiedere la destituzione del sindaco di Roma, colpevole di aver fatto giungere attraverso il cardinal vicario gli auguri a Leone XIII per il suo giubileo sacerdotale. I tempi non erano ancora maturi per una serena regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa che comportasse una qualsiasi forma di conciliazione, pur auspicata sia in ambienti cattolici (si pensi all’abate di Montecassino Luigi Tosti e al vescovo di Cremona Geremia Bonomelli) sia laici, e ancora nel 1886 venne ribadito il «Non expedit prohibitionem importat». Fra le parti nacque un’accesa dialettica nella quale i soggetti in causa sembravano chiedersi un passo indietro su argomenti che fino a quel momento erano stati motivo di separazione (beni e istituzioni sul versante ecclesiale e partecipazione alla vita politica del paese su quello statale). Un dato è certo: l’argomento stava a cuore e non era più oggetto di indifferenza o di silenzio, ma dal vivace dibattito intellettuale, parlamentare e anche ecclesiale non scaturirono soluzioni politiche ed istituzionali che risolvessero la Questione romana. Gli ultimi anni del XIX secolo furono un periodo ancora confuso ed inquieto che non offrì una soluzione pratica, ma che certamente si caratterizzò per l’abbondanza di contributi e di riflessioni.
Per la classe politica di governo non era praticabile un dialogo tra laici e cattolici che individuasse obiettivi comuni: l’autonomia etica doveva necessariamente comportare anche quella giuridica e non poteva dunque tradursi in nessuna forma di intesa tra lo Stato e la Chiesa. Era ancora lontana la “conciliazione conclamata” (A.C. Jemolo), ma cominciarono ad esserlo anche certi toni tipici dello scontro dei decenni precedenti, così come appare dal pensiero di Croce e dalla politica giolittiana di compromesso. L’individuazione di valori comuni tra laici e cattolici e la sua traduzione in una conseguente strategia elettorale, arriverà solo nel 1913 con il “Patto Gentiloni” con cui i cattolici non intransigenti, guidati dal presidente dell’Unione elettorale cattolica, Vincenzo Ottorino Gentiloni, fornirono appoggio elettorale alla compagine giolittiana in cambio della salvaguardia di valori ed interessi cattolici; il patto, che portò all’elezione di 79 deputati cattolici, si inserì in quel clima da tempo voluto da Pio X di attenuazione del non expedit. Giuseppe Sarto, che già da Patriarca di Venezia aveva lasciato intendere la sua visione delle relazioni Stato-Chiesa, eletto papa nel 1903, attuò un vivace processo di riforma della Chiesa in molti aspetti della sua vita, oltre alla nota opposizione al Modernismo, con cui non è tuttavia identificabile il suo pontificato. I rapporti con il Regno d’Italia si svilupparono all’insegna di un certo pragmatismo, grazie anche al ruolo dell’abile diplomatico e segretario di Stato card. Rafael Merry del Val y Zulueta, cercando soprattutto di consolidare il ruolo internazionale della Santa Sede. Nel 1905 l’enciclica Il fermo proposito, pur ribadendo la validità generale del non expedit, aveva di fatto concesso ai vescovi la facoltà, previa richiesta, di permettere ai cattolici di rappresentare «il popolo nelle aule legislative […] pel bene delle anime e dei supremi interessi delle vostre Chiese». Pio X, inoltre, identificava come un dovere dei cattolici quello di «prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati».
Sul piano internazionale, l’intensificarsi dell’attività diplomatica fra le nazioni, precedente la Prima guerra mondiale, vedeva il paradosso di una Santa Sede molto impegnata in tal senso, in virtù anche di quanto concesso dalle Guarentigie in materia di legazione attiva e passiva, ma della sua esclusione dalle grandi conferenze internazionali per il fatto, non trascurabile, di non essere uno Stato; a ciò si aggiungano anche le pressioni esercitate dall’Italia sulle altre nazioni, specialmente quelle legate da trattati di alleanza, affinché la notorietà, il prestigio e l’impegno della Santa Sede non si traducessero in richieste, da parte di paesi terzi, di concessioni territoriali che l’Italia avrebbe dovuto elargire al nuovo ipotetico stato papale. In più la guerra fece emergere, come prevedibile, la contraddizione di un soggetto con dignità internazionale, vocazione sovranazionale, ma inserito, suo malgrado, in un complesso e mutevole sistema di alleanze nel quale doveva pur muoversi, ma non più come uno stato sovrano. La Santa Sede rimaneva così esclusa, almeno sul piano formale, dai grandi consessi internazionali nei quali, prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale, si discuteva il futuro dell’Europa e del mondo intero; in tale contesto si inseriscono i continui numerosi appelli alla pace di Benedetto XV, affiancati da un’intensa attività diplomatica e caritativa promossa dal Pontefice negli anni del conflitto. Il sistema degli equilibri fra le potenze giocava sia a favore sia a sfavore della Santa Sede per quanto riguardava la soluzione della questione territoriale, a seconda di quale potenza se ne faceva promotrice e di quali fossero le sue ragioni: il pontefice aveva intuito che una fase geopolitica si stava concludendo, una nuova se ne apriva e la Chiesa non poteva non inserirsi in questo nuovo scenario internazionale. Tuttavia, al di là della mancata soluzione sul piano del diritto internazionale, notevoli furono gli sviluppi sul piano politico che, a partire dalla Conferenza di Parigi del 1919, portarono ai Patti Lateranensi del 1929; il decennio in questione, infatti, vide consolidarsi su diversi fronti il ruolo dei cattolici italiani che contribuirono ad un vivace dibattito politico onnicomprensivo che non si limitò ad affrontare la sola questione territoriale, bensì tutti gli aspetti delle relazioni tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica. In tal senso, importante fu il contributo di Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, per l’Italia, e di monsignor Bonaventura Cerretti e del cardinal Pietro Gasparri per la Santa Sede. Anche Alfredo Rocco, giurista fra i principali teorici del fascismo e ministro della Giustizia e degli Affari di Culto, avvertiva la necessità di una soluzione del problema fra le parti: la commissione incaricata di studiare la riforma della legislazione ecclesiastica (cui prendevano parte anche tre prelati) concludeva i suoi lavori presentando un progetto di revisione, che non ebbe seguito, e che tuttavia si sarebbe tradotto in una serie di provvedimenti legislativi e non in un accordo fra le parti.
Il fervido lavoro della politica e della diplomazia, portarono alla soluzione del 1929, nel contesto di un disegno internazionale più ampio e diversificato definito “svolta concordataria”, con la firma dei Patti Lateranensi, comprendenti il Trattato del Laterano, con cui si chiudeva la Questione romana e si istituiva lo Stato della Città del Vaticano, l’annessa Convenzione finanziaria e il Concordato. Il Governo di Mussolini concludeva dunque la pagina risorgimentale forse più complessa per intensità, durata ed implicazioni politiche nazionali ed internazionali; erano certamente lontani i toni mussoliniani anticlericali di pochi anni prima, tipici del Fascismo delle origini. Ma la conciliazione sancita dalle firme di Mussolini e Gasparri e dalle parole di Pio XI era destinata, di lì a breve, a mostrare alcune crepe già presenti da tempo e fisiologicamente generate dal confronto tra la Chiesa e il regime: un primo segnale in tal senso fu il dibattito parlamentare sulla ratifica degli accordi. Il dato di fatto fu comunque la conclusione della fase separatista e l’inizio di quella concordataria che, in quel determinato contesto, assumeva il significato di un gioco fra le parti teso ad inglobare la controparte nella realizzazione del proprio progetto ideologico (quello fascista per il regime, quello di ‘cristianità’ per la Chiesa), ma i fatti del 1931, denunciati dall’enciclica Non abbiamo bisogno, scritta in difesa dell’attività e delle finalità dell’Azione Cattolica, fecero emergere in modo conclamato quei problemi già presenti in fase di preparazione degli accordi. Tuttavia, la portata dei Patti firmati solo due anni prima, con gli annessi vantaggi di varia natura per entrambe le parti, riportò la situazione ad una «pace di compromesso, senza vincitori né vinti» (A.C. Jemolo) che durò fino al definitivo mutarsi dei rapporti, compromessi da nuovi scontri sul ruolo e l’attività dell’Azione Cattolica, dall’avvicinarsi alla Germania nazista, della promulgazione delle leggi razziali nel 1938 e al definitivo fallimento del progetto di assorbimento ideologico portato avanti da entrambe le parti.
L’utilizzo della modalità pattizia sortiva dunque l’effetto di evidenziare la delicatezza dell’equilibrio che legava lo Stato fascista alla Chiesa Cattolica e ciò fu ancora più evidente durante il pontificato di Pio XII, già successore di Gasparri alla Segreteria di Stato, caratterizzato nella prima parte, dallo svolgimento della Seconda guerra mondiale. A differenza del primo conflitto, vi era ora lo Stato della Città del Vaticano, che, circondato dalla capitale dell’Italia fascista, doveva mantenere la sua neutralità e le relazioni con le potenze belligeranti: furono per la Santa Sede anni di intensa attività diplomatica ed umanitaria.
La fine del conflitto, gli sviluppi politici ed istituzionali italiani riaccesero inevitabilmente a tutti i livelli e in diversi contesti il dibattito sulla natura e le modalità dei nuovi rapporti tra lo Stato e la Chiesa Cattolica; in questo dibattito decisivo fu il ruolo della Democrazia Cristiana che, particolarmente negli anni di lavoro dell’Assemblea Costituente e con l’apporto di altre forze politiche, seppe farsi portavoce del ruolo che i cattolici avevano svolto fin dalla caduta del regime fascista nel processo di ricostruzione politica del paese. In merito al tema dei rapporti con la Chiesa Cattolica, oltre ai dibattiti più ampi sui principi fondamentali della Costituzione e sulle libertà e sulle formazioni sociali, la discussione si concretizzò negli artt. 7 e 8 che affrontavano rispettivamente il tema delle relazioni tra la Chiesa e la Repubblica Italiana e quello del pluralismo confessionale. Lo Stato affermava la sua neutralità in materia religiosa, garantendo «l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge» e in merito ai rapporti con la Chiesa, affermava che «Stato e Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» e che «i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi»; il dibattito, come immaginabile, fu acceso e si orientò in un compromesso fra chi voleva accentuare l’elemento della sovranità della Chiesa o quello della laicità. Il dato importante e non scontato in partenza fu comunque il riconoscimento a livello costituzionale dei Patti Lateranensi. Gli anni ’50 e ’60, infatti, videro lo sviluppo del “diritto concordatario” inteso come strumento di raccordo tra il diritto ecclesiastico e il diritto canonico (G. B. Varnier). L’analisi della fase concordataria repubblicana deve, ancor più delle precedenti, porre maggiore attenzione al concetto di “nazione cattolica” (A. Riccardi), da integrare con quelli di chiesa e di stato, rilevando continuità o discontinuità di modelli, ma soprattutto novità dovute ai profondi mutamenti culturali e sociali di quegli anni a livello planetario e nazionale. In questo contesto si inserì anche il Concilio Vaticano II che, pur non interessato direttamente agli aspetti tecnici delle relazioni tra gli stati e la Chiesa, tuttavia contribuì in modo profondo ad una nuova e più ampia visione dei rapporti tra comunità cristiana e comunità civile come poi sintetizzato nella costituzione conciliare Gaudium et spes.
Sul piano politico e giuridico si cercò di declinare una nuova concezione di laicità, su quello culturale la secolarizzazione occupò uno spazio crescente e sul piano ecclesiale, l’istituzione della Conferenza Episcopale Italiana nel gennaio del 1952, introdusse un nuovo soggetto protagonista delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa che, come sarà evidente nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984 (cf. art. 13 n. 2) affiancò la Santa Sede nella gestione dell’accordo e dei successivi atti connessi. Circa l’interesse e il coinvolgimento degli italiani in merito al tema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, vi è da rilevare come essi siano stati particolarmente intensi in concomitanza delle grandi battaglie politiche su temi etici come, per esempio, divorzio (1974), aborto (1981) e fecondazione assistita (2005), ma che invece si siano mantenuti su livelli piuttosto bassi in occasione dei momenti istituzionali in cui quei rapporti si traducevano in atti di portata storica; è il caso dei citati accordi di Villa Madama del febbraio 1984, in cui, per la seconda volta nella storia d’Italia, un non cattolico come il presidente del Consiglio dei Ministri Bettino Craxi, concludeva con il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli, il suddetto accordo di revisione del concordato, preceduto da un dibattito politico e giuridico ventennale sulla necessità e le eventuali modalità di procedere ad una revisione. Per rimarcare la portata non debitamente percepita di quegli accordi, si noti che al punto 1 del Protocollo addizionale veniva definitivamente sancita l’abolizione del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, di fatto già implicito nell’articolo 8 della Costituzione (cf. inoltre sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale sul principio supremo di laicità dello Stato). Diversi gli scenari storico-politici e ancor più diversa la loro velocità di cambiamento: le relazioni Stato-Chiesa, oggi più che mai, non possono essere comprese se non con uno sguardo multidisciplinare e comparatistico, per i nuovi scenari sociali, politici ed internazionali in cui sia la Chiesa, sia gli Stati sono oggi inseriti. In tal senso fonti interessanti si rivelano i diari dei protagonisti della storia delle relazioni Stato-Chiesa, attraverso cui cogliere sia la complessità degli eventi e del contesto, sia quella degli individui (G. F. Pompei)
L’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, poi, pone un inevitabile confronto fra il diritto ecclesiastico degli Stati membri e sulla più ampia tematica delle loro relazioni con la Chiesa Cattolica e/o con altre chiese. Le relazioni con gli altri Stati, l’inserimento in organizzazioni internazionali o la partecipazione a convenzioni, così come la missione universale della Chiesa Cattolica, specialmente alla luce del Concilio Vaticano II, non possono più essere considerati elementi secondari: questa fu la grande intuizione e l’impegno dei pontefici nella seconda metà del ‘900. In particolare, l’elezione di Karol Wojtyła nel 1978, in uno dei momenti più difficili per il cattolicesimo italiano, fu un segno incontrovertibile di una tendenza a cui anche l’Italia non poteva sottrarsi: la “svolta concordataria” che aveva interessato anche l’Italia nel 1929, si riproponeva in un contesto totalmente diverso con Giovanni Paolo II e il già citato Accordo di revisione del Concordato del 1984, aveva la duplice valenza di inserirsi in una storia tutta italiana con le proprie radici nel Risorgimento, ma anche come uno dei 147 accordi firmati dalla Santa Sede tra il 1978 e il 2003.
Il decennio successivo, sullo sfondo della complessa ridefinizione del ruolo dei cattolici in politica (con particolare riferimento ai Convegni ecclesiali nazionali di Loreto 1985 e Palermo 1995), vide il declinarsi nel nuovo contesto di tematiche classiche del diritto concordatario legate ai rapporti finanziari tra Stato e Chiesa o agli interessi religiosi dei cittadini, ancora oggi oggetto di accesi dibattiti politici: si pensi, solo per citarne alcuni più noti, al finanziamento pubblico della Chiesa, al sostentamento del clero, all’assistenza spirituale nelle strutture obbliganti, alla condizione giuridica e fiscale degli edifici di culto che in Italia è resa ancora più particolare per l’elevato numero di quelli di valore storico, artistico e architettonico, al matrimonio concordatario. Una particolare menzione merita la questione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, terreno di vivo confronto sul tema della laicità dello Stato e ambito di interesse multidisciplinare (M. Madonna).
Anche in Italia le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sono interpellate e sfidate da nuove istanze culturali, politiche e religiose, ma anche da nuovi assetti geopolitici ed istituzionali. Si tratta allora di comprendere una relazione bilaterale, che tuttavia entra necessariamente sempre più in rapporto con un contesto globale, più conosciuto, ma anche profondamente diverso e mutevole rispetto a quello del 1861. In questo alveo si è mossa e si muove la storia delle relazioni tra la Chiesa e lo Stato, che ha assunto ed assume in Italia tratti assolutamente peculiari, per la millenaria presenza sul territorio della Santa Sede.
Fonti e Bibl. essenziale:
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