Rivoluzione francese – vol. I

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    Autore: Mario Tosti

    Anche in Italia, nell’ultimo ventennio, il rapporto Chiesa-Rivoluzione francese è stato uno dei filoni d’indagine più produttivi: spesso gli studi si sono mossi verso una riconciliazione tra l’ideale rivoluzionario dell’Ottantanove e il riconoscimento della libertà cristiana, ma altrettanto frequentemente gli avvenimenti sono stati letti confondendo fede e controrivoluzione, testimonianza cristiana e resistenza politica. Nonostante i progressi c’è bisogno ancora di favorire una discussione critica e severa che individui le ragioni storiche della non accoglienza della Rivoluzione da parte della Chiesa e metta in evidenza le esigenze di purificazione, di liberazione, di rinnovamento religioso che il moto rivoluzionario provocò. Troppo spesso, invece, periodici e riviste, non solo di provenienza cattolica, manifestano una posizione rigorosa e dogmatica, con atteggiamenti di drastica condanna, contrapposti ad altri di esclusiva esaltazione. Per diversi decenni la storiografia cattolica, anziché soffermarsi sulle articolate posizioni assunte dalla coscienza cristiana davanti al problema posto dalla laicizzazione dello Stato e dalla secolarizzazione della vita sociale, ha infatti preferito, se non riproporre l’idea della Rivoluzione come frutto di un complotto, ribadire la tesi di una radicale antitesi tra essa e la Chiesa. All’indomani dell’Ottantanove non si avverte nel mondo cattolico italiano l’emergere di particolari preoccupazioni circa gli esiti della Rivoluzione. Molti erano dell’avviso che la Chiesa potesse accettare quella forma di governo costituzionale che garantiva i fondamentali diritti dell’uomo a condizione che il cattolicesimo venisse riconosciuto come religione di Stato. Si trattava insomma di riproporre, in un diverso contesto politico, il tradizionale rapporto pattizio che aveva caratterizzato l’antico regime: le nuove autorità s’impegnavano a garantire l’assetto e i privilegi della Chiesa in cambio di una sua azione nel sostenere il nuovo ordinamento. Questa concezione trova sostenitori in ambienti romani e persino curiali. Intanto però l’approvazione in Francia della Costituzione civile del clero, che impone una profonda ristrutturazione della Chiesa, attribuendo ai fedeli la scelta di parroci e sottraendo a Roma l’istituzione canonica dei vescovi, determina un irrigidimento nelle posizioni del papato che gli eccessi della Rivoluzione e il processo di scristianizzazione fecero rapidamente slittare in un aperto scontro tra cattolicesimo e Rivoluzione. Pio VI, con il breve Quod aliquantum (10 marzo 1791), condannò la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il passaggio verso questa rigida posizione non era tanto dovuto alla pur evidente emozione per l’esecuzione del re – cui Pio VI attribuì subito il titolo di martire – quanto piuttosto al fatto che Roma inquadrava ormai il fenomeno rivoluzionario in un ambito più vasto e comprensivo: gli eventi francesi erano l’esito di una cospirazione da tempo tramata, un’alleanza tra calvinisti e filosofi per “rovinare” la religione cattolica. La Rivoluzione usciva dal quadro dei fenomeni politici e storici razionalmente identificabili e controllabili: gli unici termini che potevano interpretarla erano quelli di “complotto”, “congiura”, “cospirazione”. Tutti questi elementi non si fondono ancora in una prospettiva organica e coerente e riprendono talvolta concezioni e valutazioni già espresse nel mondo cattolico del periodo di fronte alla politica giurisdizionalistica dei sovrani assoluti, alle riforme ecclesiastiche, alla soppressione dei gesuiti, alla proclamazione da parte della filosofia dei “lumi” del principio della libertà religiosa.

    Si affaccia l’interpretazione organica della Rivoluzione come esito finale di una lunga catena di errori iniziati dalla sottrazione luterana dell’individuo al potere di Roma e prende corpo la teoria che essa costituisse una punizione inviata dalla Provvidenza agli uomini, e in particolare alla Chiesa, per castigarli della scarsa resistenza all’empietà del mondo moderno. Ben presto venne introdotto un parallelo tra gli eventi rivoluzionari e il medioevo: le masse rivoluzionarie in rivolta producevano un attacco contro la civiltà molto simile a quello che nell’età di mezzo avevano condotto le orde dei barbari. In ambienti cattolici si fece strada l’idea che la Chiesa e il papato dovessero tornare a giocare nella crisi contemporanea lo stesso ruolo direttivo e civilizzatore assunto nell’età medioevale. Prese corpo anche un’applicazione di questo orientamento con il tentativo di convincere il papa a bandire una guerra santa contro la Francia. Così l’ex gesuita spagnolo Francesco Gusta, nel 1794, darà alle stampe il Saggio critico sulle crociate, uscito una prima volta a Ferrara e, sempre nel medesimo anno, in seconda edizione, a Foligno per l’editore Tomassini. In esso il polemista controrivoluzionario difendeva le antiche crociate e auspicava una moderna “levata in massa” di volontari di “tutti gli ordini di persone, massime gli agricoltori e gli artigiani”. L’idea non rimase confinata nelle pagine della letteratura controrivoluzionaria, ma ebbe effetti immediati sul piano politico-operativo: sappiamo, per esempio, che il nunzio di Venezia si dette da fare, perché aveva preso sul serio l’idea maturata a Roma di bandire una crociata antifrancese. Alla fine tuttavia prevalse una linea più cauta che si limitava a appoggiare e a benedire l’azione delle armate controrivoluzionarie. Con l’arrivo delle truppe napoleoniche nella Penisola si delinea il primo concreto impatto della Chiesa italiana con la Rivoluzione e il quadro che ne deriva appare assai variegato. Messo davanti al mutamento politico l’episcopato italiano, in larga parte, assume atteggiamenti che invitano alla subordinazione all’autorità costituita e, quasi ovunque, il passaggio dall’antico regime al governo rivoluzionario avvenne attraverso la mediazione dei vescovi che divenne apparente partecipazione collettiva in occasione della cerimonia in cattedrale per l’inizio della nuova era, con il canto del Te Deum di ringraziamento per “l’avvenuta rigenerazione”. Rispetto a tale atteggiamento, ancora troppo spesso si continua a parlare di “voltafaccia” dei vescovi, di atteggiamenti di “compromesso”, senza considerare che anche in Francia, con il Direttorio, si era venuta a creare una nuova situazione rispetto alla religio­ne: rinnovata la libertà di culto alle confessioni religiose erano venuti meno anche molti degli argomenti usati in precedenza contro la Rivoluzione. L’atteggiamento omogeneo dell’episcopato che invitò i fedeli ad accettare il mutamento di regime sottolineando come il nuovo governo si impegnasse a rispettare la religione cattolica e i suoi ministri, trovò una base generica di riferimento nell’obbedienza verso l’autorità po­litica, raccomandata dai testi neotestamentari, oppure nella ricerca del bene comune, espressione della fraternità universale, con esortazioni, assai vaghe, “all’amore fraterno”, “alla pace”, “alla rassegnazione”, “all’obbedienza”, “alla carità”. Tuttavia la sottomissione e l’ubbidienza sembrano consistere in un ossequio formalistico alle nuove leggi: non si intravvede, in realtà, l’elaborazione di motivazioni politiche per giustificare il mutamento di regime; il rispetto della legalità viene ad essere un gesto personale che trova nell’ordine etico la sua giustificazione e spiegazione.

    In linea generale si può affermare che la reazione cattolica fu più forte in quegli Stati, come quello della Chiesa, dove assai scarso era stato l’effetto del riformismo illuminato nelle strutture economiche e nell’amministrazione e le resistenze e le reazioni si verificarono con più violenza laddove la presenza francese si manifestò come scontro ideologico e religioso. Sia la stampa repubblicana che i resoconti dei generali francesi sottolineano i fattori culturali e religiosi delle insorgenze e ricorrono spesso ad un parallelismo con la Vandea, scoprendo nelle rivolte italiane le stesse radici religiose e legittimiste; tuttavia ciò non può far diventare le insorgenze un fenomeno cattolico e monarchico, come pure si è tentato di dimostrare, né ad utilizzare la religione popolare come strumento per amalgamare le resistenze controrivoluzionarie a tutti i livelli, dallo Stato della Chiesa alle Calabrie, facendola diventare sinonimo di reazione. È chiaro che il riferimento alla religione, ed in particolare al culto mariano, presente nel linguaggio e nella simbologia delle insorgenze, non può essere sottovalutato, anzi pare proprio una delle cause che lega i vari moti altrimenti riconducibili a percorsi e dinamiche locali talvolta assai diversi. Ma è necessario intendersi sul significato della dimensione religiosa: sono infatti i luoghi e le pratiche della vita religiosa popolare, luoghi informali e formali, dalle edicole sacre alle confraternite, che gli insorgenti difendono dall’attacco, perché sul piano sacramentale il nuovo governo non ostacola il normale svolgimento della vita religiosa. D’altra parte non mancano testimonianze di una disarticolazione della coscienza cattolica dal modello unitario che si era venuto a formare nel corso dell’età post-tridentina e controriformistica e destinata a produrre durature correnti di pensiero. Con sfumature diverse, centrale appare il tema della compatibilità tra cristianesimo e democrazia che propone il problema dell’esistenza di una corrente cattolico-democratica (cattolici possibilisti nella definizione di Luciano Guerci. Cf. L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura per il popolo nell’Italia in Rivoluzione (1796-1799), Il Mulino, Bologna 1999, pp. 284-288) o quanto meno della circolazione di quelle idee che volevano dimostrare la non inconciliabilità del cristianesimo con il mutamento della società operato dalla Rivoluzione francese. Questi cattolici accettano la fine del potere temporale del papato come una svolta provvidenziale, che finalmente assicura una maggiore trasparenza spirituale all’azione del pontefice, si mostrano favorevoli alla laicizzazione dello Stato, in cui vedono l’occasione per purificare la Chiesa dai condizionamenti del potere politico che nel corso dei secoli l’ha legata a sé, per dare avvio a un processo di autoliberazione, di purificazione da quello spirito che l’aveva portata, dopo i primi secoli, a prendere le forme stesse della società civile e a modellarsi sull’esempio di quella, ponendosi come struttura di potere. Comune a tutti loro è la richiesta di una maggiore libertà religiosa: nella Chiesa e per la Chiesa; istanza in cui molti storici, giustamente, hanno individuato le radici intellettuali e spirituali del cattolicesimo del Vaticano II e la genesi dei movimenti cristiano-democratici. Una particolarità da rilevare è senz’altro il consistente numero di ecclesiastici che ricoprirono incarichi nelle istituzioni repubblicane; l’impressione è che in questi casi, soprattutto nelle aree rurali, svolga un ruolo determinante la capacità di saper leggere e scrivere; non si può sottovalutare, tuttavia, che anche in quel clero culturalmente meno avveduto, come di fatto era la maggior parte del basso clero, abbiano giocato un ruolo decisivo alcune istanze rivoluzionarie che mettevano in primo piano la salvaguardia degli umili, la lotta alla prepotenza e all’usurpazione dei diritti della persona. Senza ricercare motivazioni politiche, frutto di ragionamenti e meditate convinzioni, nell’opzione a favore della repubblica può aver influito una forte volontà di organizzare meglio la città terrena, nella quale anche la Chiesa doveva continuare a rivestire un ruolo fondamentale e non eliminabile. In questo senso, le posizioni si riavvicineranno con l’ascesa sulla scena di Napoleone Bonaparte (1799). Questo genio militare, di energia instancabile e di ambizione sconfinata, personalmente irreligioso ma ammiratore dell’organizzazione ecclesiastica romana, incontrò un valido interlocutore nel nuovo pontefice Pio VII (1800-1823). Questi, nella qualità di vescovo di Imola, aveva mostrato, al momento dell’invasione francese in Italia (1796), una certa disponibilità ad accettare l’ordinamento repubblicano, aderendo ad una prospettiva che allora si definì “democrazia cristiana”. La Chiesa poteva accettare un assetto politico basato sulla libertà, sull’uguaglianza e sulla sovranità popolare a condizione però che si mantenesse il ruolo centrale del cattolicesimo come fattore normativo della nuova socialità democratica. Alla tradizionale simbiosi tra Stato e Chiesa, garantita dal principe cattolico, veniva a sostituirsi una “cristianità repubblicana”, che rendeva l’autorità ecclesiastica depositaria delle regole fondamentali e delle nuove forme di organizzazione della vita collettiva.

    Tra il primo console e il papa si giunse così nel 1801 alla firma di un concordato. Questo processo di normalizzazione ebbe come primo effetto l’abolizione della Chiesa costituzionale. Napoleone, che ai tempi della campagna d’Italia aveva ben compreso il ruolo della religione e del clero per il governo della penisola, proseguì la sua azione di pacificazione religiosa promovendo un concordato anche con la Repubblica italiana, la cui costituzione venne approvata il 26 gennaio 1802 dalla Consulta straordinaria di Lione. Il concordato italiano fu firmato a Parigi il 16 settembre 1803, dal cardinale Giovanni Battista Caprara e da Ferdinando Marescalchi, ministro degli esteri della Repubblica italiana: esso concedeva al presidente della Repubblica il diritto di nomina dei vescovi, prevedendo tuttavia l’investitura da parte del pontefice; prima di assumere le loro funzioni, essi (come peraltro i parroci, che ora sarebbero stati scelti dagli ordinari diocesani) dovevano pronunciare un giuramento di fedeltà al governo. Le norme del concordato surrogavano tutte le leggi e i decreti emanati precedentemente dall’autorità statale in materia ecclesiastica e il testo venne reso pubblico nel territorio della Repubblica nel gennaio del 1804, insieme ad un decreto organico di esecuzione, modellato sugli “Articoli organici del culto cattolico”, l’atto unilaterale imposto da Napoleone e allegato al concordato del 1801, che palesava tendenze di carattere fortemente giurisdizionalistico nell’organizzazione della vita ecclesiastica. La nuova situazione concordataria non implicò dunque la rinuncia alla laicizzazione di alcuni fondamentali istituti della vita collettiva e l’introduzione anche nella Repubblica del codice civile, comprensivo delle disposizioni sul divorzio, aggraverà negli anni successivi il conflitto col papato. Esploso sul piano politico per il rifiuto di Pio VII di partecipare al blocco continentale contro l’Inghilterra, lo scontro portava ad una nuova soppressione dello Stato Pontificio e all’esilio del pontefice prima a Savona (1809) e poi a Fontainebleu (1812). La risposta del Papa, che già aveva denunciato la violazione del Concordato del 1801, compiuta con gli “Articoli organici”, non si limitava alla scomunica di mandanti ed esecutori della sua estromissione dal potere temporale, che di per sé già delegittimava l’imperatore, ma colpiva un nucleo centrale della sua politica religiosa. Il rifiuto pontificio di concedere l’istituzione canonica ai vescovi nominati dal governo determinava, infatti, una serie di difficoltà nell’espletamento del regolare servizio religioso in numerose diocesi. Cadeva così quell’ordinata ripresa dell’amministrazione religiosa su cui Napoleone aveva puntato per la costruzione delle consenso. La resistenza di Pio VII e della maggioranza dei vescovi si coniugò con le sconfitte militari dell’imperatore, determinando la fine dei suoi progetti. La Rivoluzione francese rappresentò un decisivo cambiamento della costellazione politica generale; a lungo andare, si pervenne (spesso assieme a una separazione di Stato e Chiesa) alla formazione di due culture fondamentali e profondamente ostili tra loro. Da una parte la nuova militante cultura democratico-laicistica della dominante borghesia liberale e dall’altra la radicata contro o subcultura cattolico-conservatrice della Chiesa. La divisione opera ovunque: nelle scuole, negli ospedali, nell’assistenza ai poveri e rimane massiccia per tutto il XIX e XX secolo. Solo dopo il Vaticano II si può apertamente affermare che libertà, uguaglianza e fraternità – per lungo tempo definite parole diaboliche nella Chiesa cattolica – possiedono un originario fondamento cristiano.

    Fonti e Bibl. essenziale

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