Questione romana – vol. II

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    Autore: Andrea Ciampani

    Nel corso del XIX secolo la proposta politica di porre Roma capitale dello Stato nazionale italiano come compimento del Risorgimento, in concomitanza o in sostituzione della sovranità che in essa vi esercitava il papa governando la Chiesa universale e lo Stato pontificio, provocò nell’opinione pubblica europea un vasto dibattito dai molteplici profili e il formarsi di numerosi orientamenti per conseguire gli obiettivi delineati. Nel suo insieme, tale vasto movimento di idee e di conflitti in ordine al potere temporale della Chiesa e alle soluzioni prospettate per conseguire l’unificazione italiana viene sinteticamente richiamato come “questione romana”. Per comprenderne le dinamiche costitutive, dunque, occorre considerare non solo le problematiche giuridiche e diplomatiche relative ai rapporti tra la S. Sede e gli Stati, ma anche i percorsi interni al governo della Chiesa e le culture politiche che si affermarono nell’Europa dell’Ottocento.

    Processi storici di lungo respiro hanno lasciato tracce sulla formazione della questione romana, come eredità del confronto tra Papato e Stati nazionali nella “prima modernità”. Le sue radici, tuttavia, vanno rintracciate nel periodo storico in cui, muovendo dalla fine dell’avventura napoleonica attraverso la Restaurazione, prende forma la drammatica crisi risorgimentale del 1849 e le sue ripercussioni sul cattolicesimo politico italiano. La questione romana, peraltro, assume i suoi tratti distintivi soltanto negli anni successivi, durante due fasi principali che si caratterizzano per un singolare rovesciamento di significato: se dal 1861 l’espressione riguarda propriamente le iniziative per “congiungere” Roma al Regno d’Italia, dopo il 1870 essa si riferisce alla rivendicazione d’indipendenza del governo pontificio in Roma capitale italiana e alla possibilità di assicurargli nella Città eterna una pur ridotta sovranità territoriale.

    La Chiesa cattolica e le classi dirigenti nazionali erano ben consapevoli della complessa trama che compose fin dall’inizio la questione romana. Al suo interno, infatti, era possibile individuare tre profili principali, distinti ma interdipendenti: la “questione pontificia”, relativa alla posizione della S. Sede e della sovranità del papa nel sistema internazionale; la “questione di Roma”, connessa all’esercizio della libertà del papa (e del suo magistero universale) nella capitale del regno d’Italia; la “questione cattolica”, legata alla politica ecclesiastica del governo italiano e allo sviluppo del movimento cattolico nella vita amministrativa e politica italiana.

    La “protesta” pontificia, peraltro, puntò presto al sostegno delle popolazioni cattoliche piuttosto che all’intervento militare o diplomatico delle Potenze europee; dopo il 1882, nei governi italiani essa venne progressivamente considerata un problema di politica interna, piuttosto che di politica estera. I tentativi di sciogliere la questione romana in una prospettiva bilaterale, che si avviarono negli anni successivi a più riprese e con diversa intensità, incontrarono gravi ostacoli nell’articolata lotta politica italiana e nell’evoluzione del movimento sociale cattolico. Ancora nel 1919 non fu possibile concretizzare accordi come quelli che posero fine alla questione romana con la stipula dei Patti Lateranensi nel 1929, richiamati nella Costituzione della Repubblica italiana nel 1948.

    Per comprendere i differenti nodi dell’inserzione della questione romana nella storia della Chiesa in Italia, dunque, è opportuno ripercorrere i passaggi principali della sua parabola, dal suo punto d’avvio nel XIX secolo attraverso le sue due fasi principali, fino al suo esaurimento novecentesco.

    In effetti gli “Stati romani” durante la Restaurazione non erano usciti dalla debolezza politica seguenti al trattato di Tolentino del 1797 e all’abolizione del dominio temporale per le armi francesi nel 1798 e nel 1809. La “Santa Alleanza” tra il cattolico Impero austriaco, l’ortodosso l’Impero russo e il protestante regno di Prussia fin dal 1814 evidenziava le gravi difficoltà della S. Sede nel contesto internazionale. Per preservare la sua integrità statuale e ribadire la sua indipendenza, nel 1821 la S. Sede invano giunse a dissociarsi, unico Stato della penisola, dall’intervento militare austriaco rivolto a reprimere nel Regno delle Due Sicilie le libertà costituzionali. Nel momento di avvio del Risorgimento, dunque, lo Stato della Chiesa appariva una realtà sotto tutela della diplomazia internazionale. Nel 1831, quando i moti carbonari si estesero ai territori pontifici della Romagna, delle Marche e all’Umbria, sostenuti da ambienti borghesi desiderosi di una maggiore partecipazione al governo civile, una conferenza delle Potenze europee delineò un Memorandum sulle riforme da farsi nel governo pontificio, mentre truppe austriache occupavano le Legazioni e armi francesi Ancona. Fu in tale contesto che, negli anni Trenta, il destino Roma assunse nell’elaborazione mazziniana una centrale dimensione simbolica; d’altra parte, tra le élites cattoliche che partecipavano al dibattito pubblico sulla nazione italiana, personalità come Rosmini e Gioberti, Manzoni e D’Azeglio, invitavano il moderatismo italiano a coniugare causa nazionale e centralità del papato, aprendo un confronto sul cattolicesimo liberale e sulle teorie del neoguelfismo. Aspetti politici e culturali, così, favorirono l’orientamento vaticano, ancora sotto Gregorio XVI, a una maggiore distinzione tra la gestione dei domini temporali del pontefice e il governo della Chiesa universale.

    Con l’elezione di Pio IX, comunque, alcune moderate riforme nello Stato pontificio apparvero all’opinione pubblica italiana testimonianza di una possibile connessione tra la volontà di rafforzamento politico-diplomatico dello Stato pontificio e le aspirazioni nazional-costituzionali. La creazione della Consulta di Stato e le trattative per la Lega doganale nell’autunno 1847, così, precorsero i moti risorgimentali dell’inverno seguente negli Stati italiani e la concessione dello “Statuto fondamentale pel Governo temporale degli Stati di Santa Chiesa” nel marzo 1848. Il papato, tuttavia, non intendeva condurre il suo Stato in guerre nazionali, che avrebbero anche facilitato una ripresa di quelle spinte verso l’affermarsi di chiese nazionali che da tempo contrastava. Mentre si minacciava uno scisma nei territori asburgici, l’allocuzione del 29 aprile 1848 espresse la volontà pontificia di astenersi dal partecipare alla guerra d’indipendenza avviata dal Regno di Sardegna. Ciò non impedì a Pio IX di esplorare le vie di un governo laico e moderato per il proprio Stato, chiamando a governarlo figure come Terenzio Mamiani e Pellegrino Rossi, giurista di fama europea.

    Proprio l’assassinio politico del Rossi, il 15 novembre 1848, costituì un cruciale crinale; presero forma, da allora, le dinamiche fondamentali della “questione romana”, che si delinearono nel decennio seguente e si imposero negli anni Sessanta. Rifugiatosi il papa a Gaeta, nel 1849 fu proclamata la Repubblica romana e la decadenza del potere temporale; Pio IX poté tornare a Roma solo grazie alla vittoria delle armi della Repubblica francese sulla resistenza garibaldina. Ancora una volta le Potenze europee sembravano consentire l’esistenza di quella sovranità temporale in cui il pontefice ricercava garanzie d’indipendenza per il suo governo spirituale. Il papa, d’altra parte, era ormai disilluso circa il percorso politico della pubblica opinione romana collegata alle élites liberal-nazionali. Fallito il progetto dell’unione delle “piccole patrie”, il movimento risorgimentale si presentava polarizzato tra la componente democratica-insurrezionale e quella liberal-costituzionale facente capo al Regno di Sardegna. E mentre la prima si proclamava garante della libertà spirituale del papa una volta abbattuta la sua sovranità temporale, il governo sabaudo avviava al suo interno un conflittuale rapporto tra Chiesa e Stato che condusse alle leggi Siccardi e alla rottura delle relazioni diplomatica con la S. Sede.

    La stessa politica estera del conte Cavour, volta a introdurre la questione italiana nella diplomazia internazionale, evidenziò le condizioni di instabilità della Stato pontificio al congresso di Parigi del 1856. Gli accordi negoziati a Plombières tra il presidente del Consiglio sabaudo e lo stesso Napoleone III, che allora proteggeva con le sue armi i domini pontifici, prevedevano nel 1858 una spartizione dello Stato Pontificio, ridotto al solo territorio romano. Allo scoppio della II Guerra d’indipendenza nel 1859 il cardinal Antonelli invano dichiarò la neutralità dello Stato pontificio, ricordando il “suo speciale carattere”; l’esito della campagna militare franco – piemontese provocò la sollevazione e l’annessione delle Romagne al regno di Sardegna, tollerata dall’imperatore francese in cambio dei territori di Nizza e della Savoia. Mentre poi la spedizione dei Mille conduceva Garibaldi a Napoli, minacciando un conflitto con la Francia per occupare Roma, l’esercito di Vittorio Emanuele II penetrava nei territori pontifici dell’Italia centrale e occupandoli li annetteva allo Stato sabaudo nel novembre 1860.

    Con la nascita del regno d’Italia nel marzo 1861, dunque, la situazione del “giardino” del papa (come l’imperatore francese chiamava Roma e il suo territorio) entrava nel dibattito politico del nuovo Stato accompagnata dalle proteste vaticane per l’usurpazione dei territori pontifici e per i permanenti conflitti di politica ecclesiastica con la monarchia sabauda. Nel nuovo parlamento nazionale, intanto, si poneva il tema della rappresentanza politica di un popolazione italiana che si dichiarava nel suo complesso cattolica, come emerse anche dal censimento del 1861. Le stesse classi dirigenti cattoliche, di fronte all’accelerato processo di unificazione, manifestavano una pluralità di opzioni sul piano dell’agire politico, impegnate ugualmente a non essere escluse dalla guida nazionale e a mantenersi fedeli al magistero pontificio. Di tali dinamiche erano consapevoli tanto il governo italiano, quanto la curia romana.

    Cavour nel marzo 1861 pose solennemente nell’agenda politica la necessità di Roma capitale d’Italia: riconoscendo il valore simbolico di tale affermazione, egli fronteggiò tanto le resistenze degli “antiromani” per superare le gelosie municipali, quanto l’opposizione radicale che chiedeva la fine del dominio temporale. Mentre lavorava all’affermazione politica della formula «libera Chiesa in libero Stato», Cavour ebbe contatti informali con il Vaticano, tramite Diomede Pantaleoni e Carlo Passaglia, ricercando una composizione della “questione romana” che assicurasse indipendenza al papa e libertà alla Chiesa entro i limiti della sovranità dello Stato. Egli comprendeva, del resto, l’interesse degli Stati europei al riconoscimento di una sovranità pontificia perché i cattolici non obbedissero a un papa suddito di un’altra Potenza. La trattativa allora condotta non giunse in porto. In Vaticano, comunque, a fronte alla “mutabilità” della vita politica degli Stati, si stava affermando una sempre maggiore attenzione per i riflessi socio-politici dell’orientamento religioso dei loro popoli, alla cui mobilitazione affidare la protesta pontificia. In tal senso, la S. Sede si avviava ad evidenziare anche nella vita pubblica italiana le implicazioni morali dell’azione dei fedeli cattolici, promuovendone l’associazionismo ed evitando di aumentare il solco tra coscienza nazionale e coscienza religiosa. Occorreva, dunque, misurarsi con la → modernità, chiamata a riconciliarsi con la Chiesa, facendo leva sulla società civile piuttosto che su quella politica.

    Dopo la morte di Cavour, i governi italiani sembrarono abbandonare la sua impostazione politica e andare oltre il principio della separazione dei poteri, quasi attribuendo ai propri atti l’avvio di un processo riformatore nella Chiesa. Nel 1862, tuttavia, l’esercito regio fu costretto ad arrestare Garibaldi in Aspromonte, impedendogli di marciare su Roma e scontrarsi con le truppe della Francia, alleata del giovane Stato italiano. Nello stesso anno, peraltro, l’allocuzione pontificia Maxima quidem laetitia confermava il principato civile della S. Sede come necessario al papa per il libero governo della Chiesa universale e condannava la politica ecclesiastica italiana, che si era spinta a impedire ad alcuni vescovi italiani di giungere a Roma. Ricordando tale episodio, l’assemblea dei cattolici belgi di Malines nel 1863, rilanciava la proposta della libertà della Chiesa fondata sulle libertà pubbliche, che richiamò la critica attenzione vaticana. In tale contesto, nel dicembre 1864 giunse la pubblicazione del Sillabo, che definiva gli ambiti filosofici, culturali e politici delle tesi liberali da condannare e riaffermava la potestà pontificia sull’indirizzo morale dei cattolici nel confronto con potere dello Stato moderno. Si rinnovavano, così, antiche frizioni con le Potenze europee; l’incerto orientamento della diplomazia internazionale circa il destino dello Stato pontificio, del resto, appariva confermata dalla firma della Convenzione italo-francese del settembre 1864, che prevedeva l’allontanamento delle truppe di Napoleone III da Roma per il contemporaneo impegno dei Savoia a impedire qualsiasi attacco al territorio pontificio, cui seguì lo spostamento della capitale italiana da Torino a Firenze.

    Il dibattito sui rapporti tra società politica e Chiesa cattolica condusse il Vaticano ad affrontare nel 1864 la questione, sollevata da alcuni vescovi, sulla partecipazione dei cattolici italiani alle urne politiche; in tale contesto, fino all’autunno 1866 la curia romana ricordò “il dovere di fare tutto il possibile per impedire il male e promuovere il bene”. Il varo in Italia tra il 1866 e il 1867 delle leggi eversive dell’Asse ecclesiastico e la spedizione garibaldina nei domini pontifici, fermata a Mentana dal ritorno di un contingente francese a Roma, tuttavia, contribuirono a modificare scenario e valutazioni. Nel gennaio 1868, considerate le circostanze in cui si trovava allora la Chiesa nella Penisola, le congregazioni cardinalizie vaticane invitarono i cattolici italiani a non expedire la via politica. Questa formula era destinata ad assumere un più forte valore per gli avvenimenti seguenti. La guerra franco-prussiana, infatti, richiamò in patria le truppe francesi e offerse al governo italiano la possibilità considerare l’occupazione militare di Roma. Il → Concilio Vaticano I, apertosi nel 1869 senza la partecipazione delle Potenze cattoliche, giungeva a proclamare nell’estate 1870 l’infallibilità pontificia ex cathedra; la conquista di Roma da parte delle truppe italiane il 20 settembre 1870, dopo una simbolica, breve ma cruenta resistenza, ne interruppe lo svolgimento. Pio IX si ritirò nei Palazzi apostolici in Vaticano, nei quali si dichiarò “prigioniero” al corpo diplomatico della sua corte.

    I “fatti compiuti” del 1870, condussero, così, a un rovesciamento della questione romana: era la S. Sede ora che protestava la mancanza di libertà e rivendicava una seppur ridotta sovranità in Roma. Il papa prendeva atto di una sorta di “apostasia” delle stesse Potenze, che non erano giunte in suo soccorso, e richiamava più risolutamente la solidarietà dei popoli cattolici. Anche per questa ragione, alcuni governi europei erano interessati a stabilizzare la Penisola attraverso una conciliazione tra moderatismo liberale e cattolicesimo. Le istituzioni politiche italiane, impegnate a radicarsi in Roma, del resto, ritennero prioritaria l’azione diplomatica per ridurre i rischi di instabilità del giovane Stato che potevano derivare dal conflitto con la S. Sede. In tale contesto, il parlamento italiano varò nel maggio 1871 la Legge delle Guarentigie; il carattere di concessione unilaterale dell’atto del Regno d’Italia, prima che le norme in essa stabilite (come l’attribuzione sovrana al papa di mantenere ed inviare ambasciatori senza una sovranità territoriale) non poteva essere accolto dalla S. Sede. Mentre erano aperti gravi contenziosi tra lo Stato e la Chiesa, come intorno all’exequatur regio o ai beni di Propaganda fide, nel settembre 1874 la Penitenzieria apostolica confermò l’invito ai cattolici a non expedire il voto politico. Peraltro, stava maturando un orientamento a superare immobilismo che sembrò caratterizzare l’iniziativa vaticana dopo il 20 settembre: la S. Sede compresse in Europa l’iniziativa politico-diplomatica di elitari gruppi di pressione cattolici riuniti e alimentò la mobilitazione sociale e religiosa del mondo cattolico, che spesso assunse un carattere di intransigente sostegno del pontefice. Mentre in Italia si promosse l’Opera dei congressi cattolici, dunque, già nel 1876 nella curia romana si prospettò un superamento del non expedit, lasciando cadere a poco a poco nella stampa lo slogan “né eletti né elettori”. Il Vaticano confidava ancora che i cattolici appartenenti ai gruppi dirigenti italiani potessero entrare come tali nella vita politica, posizionandosi sul versante moderato, ma distinguendosi dalle élites cattolico liberali.

    Con l’elezione di Leone XIII per opera di un “centro cardinalizio” in grado di attrarre intorno al papa esponenti moderati degli schieramenti intransigente e transigente, si intensificarono le iniziative per sostenere l’impegno dell’opinione pubblica cattolica a fianco del pontefice e per affrontare i nodi che legavano la “questione di Roma” e la “questione cattolica”. Falliti nel 1879 primi contatti con la Destra liberale, che intendeva utilizzare come massa elettorale i cattolici organizzati per le elezioni amministrative, una prospettiva di riconciliazione sembrò maturare nei successivi governi del leader della Sinistra liberale, Agostino Depretis. Nel 1882, infatti, mentre questi guidava una “trasformazione dei partiti” per realizzare un’ampia maggioranza in parlamento con i moderati di Minghetti, in politica estera il suo governo condusse il Regno d’Italia all’interno di una Triplice Alleanza con gli imperi tedeschi e austriaci. Questo evento offrì una definitiva stabilità internazionale al regno e consentì un complessivo riesame della “questione pontificia” nella politica nazionale. La monarchia sabauda, peraltro, in apprensione per le iniziative repubblicane e le agitazioni sociali, rinnovava l’interesse a un riavvicinamento agli ambienti cattolici; anche nella prospettiva di sviluppo di una politica coloniale il governo italiano era ora interessato a sondare gli orientamenti vaticani.

    Nello stesso tempo, mentre la S. Sede si riproponeva come forza morale nei rapporti internazionali e come fattore d’ordine sociale all’interno degli Stati, in Vaticano si riteneva un’illusione credere che sommosse o interventi militari stranieri nel Regno d’Italia potessero restituirle il dominio temporale. Nel 1882, così, si riavviò nella curia romana un dibattito sul ristabilimento della sovranità pontificia in Roma che, senza escludere la possibilità d’indirizzare atti diplomatici ai Governi, puntasse principalmente sul coinvolgimento dell’episcopato e delle associazioni cattoliche, sollecitati da pubblici pronunciamenti pontifici. Considerando il peculiare nesso che legava il papa alla città di cui è vescovo, la sua partenza da Roma era presa in considerazione solo in caso di attentati contro il pontefice o di impedimenti a comunicare con i pastori e con i fedeli. In effetti, la “minaccia” di lasciare la Città eterna, anche per la composizione degli organi collegiali costituiti per tale evenienza, aveva solo una valore di deterrenza ad un ulteriore inasprimento dei rapporti con lo Stato italiano. Senza abbandonare il profilo internazionale della questione romana, dunque, la S. Sede era orami interessata a predisporre il terreno per scioglierla nel confronto bilaterale con il Regno d’Italia. Nel 1882, così, in Vaticano maturò il disegno di affidare alla Penitenzieria apostolica o ai vescovi la possibilità di accordare dispense condizionate perché i cattolici italiani, “a lor grado e per fatto proprio”, potessero partecipare a promuovere il bene nelle elezioni politiche.

    Nel convergere degli orientamenti maturati nella S. Sede e nel governo italiano a un reciproco sondaggio “la questione di Roma” diventò un primo terreno di verifica: nel 1883, infatti, venne consentita la presenza dei cattolici nel governo capitolino, a guida monarchico – costituzionale, ottenendo l’associazione elettorale cattolica dell’Unione romana un terzo degli eletti in Campiglio. Protratta fino al 1887, questa esperienza sembrò preparare il terreno a una proposta di conciliazione, che sembrò avvicinarsi nel primo semestre di quell’anno, perché cessato il “funesto dissidio” tra Italia e S. Sede, col riconoscimento di una pur piccola sovranità territoriale, si sciogliesse anche il problema di coscienza per l’elettore cattolico italiano. Nonostante i contatti del padre Tosti e dei fautori liberali di un “periodo di armistizio” per predisporre tale “pacificazione”, l’ingresso di Francesco Crispi al governo ostacolò il percorso avviato. L’enfasi anticlericale di Crispi, nominato presidente del Consiglio, travolse i primi cenni di riconciliazione tra Italia e S. Sede e condusse alla rimozione del sindaco di Roma nel dicembre 1887, simbolo degli equilibri fino allora raggiunti nella Capitale.

    L’interruzione del percorso avviato negli anni Ottanta, accentuò la polemica sul contrapporsi di un Paese reale e un Paese “legale” in Italia, con rilevanti ricadute sull’evoluzione del → cattolicesimo politico. Il governo italiano intendeva limitarsi a negoziare con la S. Sede, come avveniva in altri Stati, qualche interesse religioso particolare, per minacciare o abrogare leggi ostili; il nodo tra Roma, l’Italia e la realtà delle cose, ricordato ancora nel 1889 dal conciliatorista vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, tuttavia, non poteva essere sciolto senza affrontare la questione romana nel suo complesso. Accordi tra autorità civili e religiosa vennero ricercati nel 1894 dallo stesso Crispi, per conseguire determinati vantaggi in politica interna e nella politica coloniale; anche il conservatore conte Di Rudinì, che intendeva acquisire l’elettorato cattolico alla politica moderata, nel 1896 promosse contatti che non prevedevano risposte alle rivendicata sovranità del papa. Di fronte all’indisponibilità vaticana, che legava “questione pontificia” e “questione cattolica”, i governi liberali italiani accentuarono la politica repressiva nei confronti dell’associazionismo cattolico e della stampa intransigente, che toccò l’apice nel 1898, sviluppando anche iniziative volte a ridurre gli spazi d’azione della diplomazia della S. Sede, esclusa dalla Conferenza sulla pace dell’Aja nel 1899.

    Proprio la crisi sociale e politica di fine secolo, comunque, impose un ripensamento alla politica del mondo liberale, così come la politicizzazione dell’azione sociale e la divisione tra i cattolici condusse la Chiesa in Italia a considerare diverse modalità per influire nella sfera pubblica (in cui vedeva prevalere una “secolarizzazione” che la separava da comportamenti della vita privata ancora ispirati alla morale cattolica). Si ripresero a percorrere i sentieri di preparazione di una pacificazione nazionale: il solenne Giubileo del 1900, svoltosi senza incidenti per i pellegrini, confermò quanto profondo fosse in Italia il nesso tra devozione religiosa e sentimento patriottico, rafforzato dopo l’assassinio del re Umberto I. Durante l’Italia giolittiana si sviluppò il movimento della democrazia cristiana, si organizzò l’Unione popolare, si favorì la partecipazione di personalità cattoliche nei governi locali con i liberali e talora in parlamento; tutti questi fenomeni evidenziavano l’orientamento del mondo cattolico a rafforzare lo Stato italiano ed orientarne l’evoluzione, in competizione con la cultura politica anticlericale e l’emergente proposta socialista. Nel pontificato di Pio X, ridimensionata la “questione di Roma” nella convivenza nella città del pontefice e delle istituzioni nazionali, la “questione pontificia” perse significato nella politica internazionale italiana e si collegò prevalentemente all’evoluzione degli equilibri di politica interna. In tale contesto si colloca l’impegno cattolico nazionale per la guerra di Libia nel 1911 e per il Patto Gentiloni del 1913, connesso alle prime elezioni a suffragio elettorale maschile.

    L’entrata dell’Italia nella Guerra mondiale nel 1915 rinnovò sospetti e tensioni sul piano politico – diplomatico, per la neutralità della S. Sede e la condanna di Benedetto XV dell’ “inutile strage” nel 1917. Il drammatico svolgimento del conflitto, tuttavia, mentre rimotivava l’esigenza del governo di ottenere consensi allo sforzo bellico, evidenziò la religiosità delle popolazioni che affrontavano le sofferenza della guerra, affrontate anche con la presenza dei cappellani militari. Alla fine delle ostilità, dunque, i colloqui parigini tra il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando e mons. Bonaventura Cerretti nel 1919 delinearono i contorni di un negoziato per una sistemazione giuridica che riconoscesse una sia pur minima sovranità territoriale al pontefice, chiudendo la “questione pontificia” e contribuendo a riconciliare la società italiana. Le resistenze della monarchia e la caduta del governo impedirono l’approfondimento delle trattative.

    Nonostante i rigurgiti anticlericali di parte del liberalismo italiano, esacerbato anche dai consensi elettorali del → Partito Popolare Italiano, non venne meno negli anni successivi l’aspirazione a una conciliazione tra S. Sede e governi italiani. Proprio la fine della “questione cattolica”, con la nascita del partito aconfessionale di don Luigi Sturzo, del resto, ora apriva complessi scenari sul ruolo di una autonoma responsabilità politica del laicato cattolico. In tale frangente si inserì la politica ecclesiastica dei governi italiani, dopo la “marcia su Roma” del 1922 guidati da Benito Mussolini, che contrastò il popolarismo democratico e ricercò contatti nel cattolicesimo conservatore. Distrutte le libertà politiche e sociali, il regime fascista da lui instaurato nel 1925 si trovò a misurarsi con l’influenza che nella vita italiana esercitava la Chiesa di Pio XI, anche tramite lo sviluppo organizzativo dell’Azione cattolica.

    Alla ricerca di maggiori consensi al Fascismo sul piano nazionale e internazionale, nel 1926 Mussolini avviò ufficialmente con la S. Sede le trattative che si conclusero con la firma dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. Gli accordi allora raggiunti prevedevano un Trattato (accompagnato da un Convenzione finanziaria) in cui l’Italia riconosceva la sovranità del papa sul costituito Stato della Città del Vaticano; con tale “Conciliazione” si chiudeva la “questione romana”. Contemporaneamente si siglava un Concordato circa le condizioni della religione e della Chiesa cattolica in Italia, col quale Mussolini confidava di ottenere l’adesione del cattolicesimo al Regime. A fronte del rispetto delle istituzioni nazionali da parte dei cattolici italiani, in realtà, il concordato servì alla Chiesa per affermare la sua presenza sul piano religioso-educativo, contrastando l’ambizione totalitaria del fascismo. Si alimentava, così, tra i cattolici una moralità alternativa alla cultura fascista, consentendo una formazione civile del laicato cattolico che manifestò la sua importanza alla ripresa delle libertà politiche dopo il 1943.

    I Patti Lateranensi furono discussi dall’Assemblea costituente e esplicitamente richiamati nell’art.7 della Costituzione dell’Italia repubblicana nel regolare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, “ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Dopo il successo elettorale del 1948 che assegnò alla Democrazia cristiana il governo del Paese, le problematiche della conclusa questione romana venero spesso rilette e riconsiderate dai cattolici all’interno del dibattito pubblico e in quello politico dell’Italia repubblicana (il Concordato fu sottoposto, infine, a consensuale revisione nel 1984). Già alla vigilia del Concilio Vaticano II, l’allora cardinale Giovan Battista Montini prese la parola in Campidoglio il 10 ottobre 1962, per evidenziare come dopo il 1870 il papato avesse riprese “le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo come non mai.” Il tragico periodo della II Guerra mondiale, egli continuava, aveva messo a dura prova la “formula giuridica” della conciliazione del 1929, “mostrandone sì la validità, ma sotto alcuni aspetti i limiti ed i pericoli, e sotto altri la provvidenzialità che valse a Roma la salvezza”. Ora il Concilio avrebbe offerto “un nuovo collaudo di quella formula […] per quanto riguarda la possibilità del Papa di avere rapporti con la Chiesa e con il mondo […]; in altri termini, la sua indipendenza, la sua libertà, la sua funzionalità, che è quanto costituì il nucleo essenziale della questione romana.”

    Fonti e Bibl. essenziale

    F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I. Le premesse, Laterza, Bari, 1951; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, II, La questione romana: 1856-1864, 1. Testo, Pontificia Università Gregoriana, Città del Vaticano, 1951; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, II, La questione romana: dalla Convenzione di settembre alla caduta del potere temporale: 1864-1870. 1. Testo, Pontificia Università Gregoriana, Città del Vaticano, Roma 1961; AAVV, Chiesa e Stato nell’Ottocento, Antenore, Padova, 1962; R. Mori, La questione romana 1861-1865, Le Monnier, Firenze, 1963; F. Margiotta Broglio, Italia e S. Sede dalla Grande guerra alla Conciliazione, Laterza, Bari, 1966; R. Mori, Il tramonto del potere temporale 1866-1870, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1967; La fine del potere temporale e il ricongiungimento di Roma all’Italia. Atti del XLV convegno di storia del Risorgimento italiano (Roma 21-25 settembre 1970), Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1972; F. Fonzi, Crispi e lo Stato di Milano, Giuffrè, Milano, 1972; Roma capitale, Istituto di Studi Romani, Roma, 1972; G.B. Varnier, Gli ultimi governi liberali e la questione romana: 1818-1922, A. Giuffrè, Milano, 1976; G. Dalla Torre, Il fattore religioso nella Costituzione, Giappichelli, Torino, 1988; G. Martina, Pio IX (1867- 1878), Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1990; M. Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea. 1919-1969, Roma AVE, 1992; C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della Destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1996; A. Ciampani, Cattolici e liberali durante la trasformazione dei partiti: la questione di Roma tra politica nazionale e progetti vaticani (1876-1883), Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 2000; La grande riforma del Concordato, a cura di G. Acquaviva, Marsilio, Milano, 2006; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla grande guerra al nuovo concordato, 1914 – 1984, Il Mulino, Bologna, 2009.


    LEMMARIO