Medicina – vol. I

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    Autore: Maria Pia Donato

    La medicina – intesa nella sua duplice natura di scienza e di arte, ossia di sapere teorico e pratico e di tecniche di intervento sul corpo infermo – interseca la teologia e concerne la vita religiosa sia a livello intellettuale, come spiegazione dei fenomeni naturali e della vita, che a livello antropologico, nell’interpretare e affrontare la malattia e la sofferenza. In questo continuo confronto non è opportuno distinguere l’Italia dal resto della cristianità occidentale; essa tuttavia costituisce sia dal punto di vista dottrinale che istituzionale un laboratorio per precocità e intensità.

    Nell’Alto Medioevo la compenetrazione tra la dimensione religiosa e medica della malattia è inestricabile. I Padri latini seguono quelli d’Oriente nel temperare il pessimismo dell’antropologia cristiana, che riconduce la malattia e la morte al Peccato (dunque intrinsecamente alla condizione umana), riconoscendo l’origine divina della possibilità di conoscere il corpo, ma la loro riflessione s’incentra sul Christus Medicus e sulla preminenza della guarigione spirituale; prevale in alcuni come Gregorio Magno una pastorale della sofferenza fondata sulla virtù della pazienza che contrappone l’illusoria schola Hippocratis e la salutifera schola Salvatoris. Il nesso inscindibile tra salute dell’anima e salute del corpo permea tanto la spiritualità e la devozione, quanto la prassi sacramentale, in particolare la penitenza e l’unzione, impartita non solo ai morenti bensì agli infermi in funzione terapeutica. D’altro canto, dopo la riforma del IX secolo, sono per lo più i monasteri (si distingue Montecassino) e i chierici a trasmettere i frammenti della letteratura medica e farmacologica antica. Le istituzioni monastiche sono inoltre il nucleo di pratica organizzata della medicina: nonostante il I concilio di Nicea (325) stabilisse nelle città un luogo per assistere a pellegrini, poveri e infermi, l’infermeria monastica può considerarsi l’antecedente degli ospedali che si sviluppano dal XII a seguito delle trasformazioni demografiche e sociali connesse all’urbanesimo. Gli ordini ospedalieri che fiorirono nel secolo successivo fungono da tramite in questa trasformazione, che procede in parallelo alla dislocazione delle istituzioni ecclesiastiche verso le città.

    Tra la fine dell’XI e il XIII secolo la situazione cambia profondamente a cominciare dall’Italia e dalla Francia. La traduzione di testi classici e arabi e il recupero della logica e filosofia naturale di Aristotele procedono al pari dell’istituzionalizzazione di strutture di trasmissione del nuovo sapere medico. Alla Scuola di Salerno, attiva dal tardo X secolo, seguono le nuove istituzioni universitarie di Bologna e Padova ed altre strutture di insegnamento teorico e pratico nelle città. Base dell’insegnamento a Salerno, e così nelle università, furono alcuni trattati di Ippocrate, Galeno, Haly Abbas e Isaac Iudaeus tradotte dal monaco Costantino l’Africano, poi il Canone di Avicenna tradotto da Gherardo da Cremona. Il consolidamento della medicina profana come sapere e come professione incide sulle linee di contatto con le istituzioni ecclesiali e la vita religiosa. Le coordinate dell’antropologia religiosa restano uguali ma non determinano direttamente l’attività del medico: se sullo sfondo resta la condizione umana di infermità, le cause naturali delle malattie possono essere indagate; se la capacità dell’uomo di curare dipende in ultima stanza da Dio, la medicina ha la sua utilità e dignità. La relativa autonomia della medicina già dal XII secolo è testimoniata a contario dall’obbligo fatto dal IV Concilio Lateranense (1215) di procedere alla confessione di tutti i malati e morenti, e dai ripetuti divieti canonici al clero regolare di praticare la medicina e la chirurgia a fine di lucro. D’altra parte, la grande diffusione degli ordini mendicanti nella Penisola –un tratto, quello della folta presenza regolare che accompagnerà tutta la storia ecclesiastica italiana- porrà ripetuti problemi alla Chiesa di controllo e disciplina del clero nei confronti dei morenti e dei defunti.

    Tra XIII e XV secolo, la cultura scolastica è caratterizzata da un dialogo tra medicina e teologia che condividono interrogativi, categorie interpretative e regole ermeneutiche di matrice aristotelica senza confondersi l’una nell’altra. Soprattutto i maestri italiani –da Taddeo Alderotti a Pietro d’Abano – rivendicano la dignità della medicina, facendosi forti della vocazione secolare delle università italiane, nonché dell’espansione di un mercato della salute che, specialmente in Italia, è alimentato dalle città e dalle corti. Tra Tre e Quattrocento le città regolamentano attraverso gli statuti e altre norme la professione, e provvedono posti pubblici in città e nel contado.

    La legittimità intellettuale e il radicamento socio-istituzionale della medicina non si annulla neanche durante le epidemie che fanno riemergere con forza il significato religioso della malattia in chiave punitiva. Già nel trattamento della lebbra – una delle patologie più strettamente identificata con lo stigma del peccato – non manca l’intervento terapeutico, ancorché palliativo, e così in un’altra malattia simbolica come il cosiddetto fuoco di Sant’Antonio. Anche le reazioni alla peste, a partire dalla Peste Nera del 1348-49, le armi spirituali non vanno disgiunte da quelle medicinali, per quanto inefficaci; rapidamente le città italiane, pur affidandosi alla protezione celeste e promuovendo riti di espiazione e devozione (che si cristallizzeranno poi sulla figura del santo protettore), mettono a punto sistemi di sorveglianza destinati a diffondersi in tutta Europa. D’altro canto, intere aree della pratica medica, in particolare la dietetica (ossia l’uso dei cosiddetti non-naturali: cibo, sonno, moto, passioni dell’animo etc), sono permeate da precetti e valori religiosi; così nella deontologia, specialmente circa il compenso, il trattamento dei mali incurabili e in generale la circospezione richiesta al medico di fronte alla morte. Nell’esperienza dei malati i due piani s’intersecano, sia nel ricorso a figure taumaturgiche e rimedi dell’uno e dell’altro ordine che nella percezione dei processi corporei. E’ una sovrapposizione facilitata dal quadro teorico ippocratico-galenico che considera la malattia essenzialmente come un disequilibrio esogeno di qualità ed umori da purificare.

    Nelle istituzioni della cura tale sovrapposizione resta marcata. In Italia gli ospedali si medicalizzano precocemente, almeno i principali e nelle principali città, ma la cura del corpo è sempre connessa a quella dell’anima attraverso la preghiera e i sacramenti e, in ultima istanza, garantisce se non altro una morte e sepoltura cristiana. Sull’assistenza agli infermi si riversa lo slancio caritativo di chierici e laici, che si prolungherà nei secoli XV e XVI in alcune delle più intense esperienze della Riforma cattolica nella Penisola. Nella gestione dei luoghi pii ospedalieri, per altro, si consolida l’intreccio tra elite locali ecclesiastiche e civili tipico della Chiesa italiana di antico regime che, assecondato dal potere principesco che ha negli ospedali un importante strumento di propaganda e di controllo sociale, costituirà un blocco refrattario alle riforme ben oltre la Controriforma.

    Il XVI secolo, comunque, introduce delle discontinuità. Ciò non avviene tanto sul piano intellettuale. E’ vero che il V Concilio Lateranense respinge il principio della doppia verità in reazione all’aristotelismo eterodosso sviluppatosi principalmente a Padova (ha, in tal senso, un’ispirazione spiccatamente italiana), sottomettendo le scienze alla censura teologica, ma la Chiesa, in Italia intrisa di cultura umanistica, non ostacola i nuovi indirizzi nella medicina rinascimentale; il papato, anzi, è uno dei principali promotori di discipline innovative come l’anatomia vesaliana e la botanica. Non s’intacca il rapporto di mutuo sostegno tra istituzioni ecclesiastiche, magistrature civili e professione medica, che fa del medico il riconosciuto detentore di un autonomo sapere e un garante dell’ordine religioso e sociale. Ma la Chiesa italiana della Controriforma si propone vieppiù come arbitra, oltre che delle anime, dei corpi e di chi ne ha le cure. Pertanto, se l’ordinamento corporativo e il controllo del mercato medicinale si rafforza, gli equilibri di potere complessivi mutano sensibilmente. Nella Penisola, ciò è accentuato dall’adesione dei ceti dominanti ai valori e imperativi della Controriforma e dal ricorso degli stati territoriali alla leva religiosa e alle strutture ecclesiastiche per rafforzarsi all’ombra del papato.

    Gli ambiti della cura su cui, attraverso dispositivi formali (come il divieto prescritto da Pio V di prestare assistenza ai malati che, dopo tre visite, rifiutassero ancora il sacramento, recepito dalla maggior parte dei collegi medici della Penisola) e la letteratura canonistica e deontologica, si accentua la pressione (diretta sui dottori in medicina, indiretta attraverso di loro sui mestieri sanitari inferiori) sono quelli della nascita e della morte, sui cui si estende ormai un controllo clericale più capillare. Ai medici è inoltre richiesto di cooperare alla difesa della dottrina e dei riti cattolici in materia di santità e demonologia, lasciando il passo ove necessario al sacerdote e all’esorcista. La riforma delle procedure per le cause dei santi riserva particolare rilievo nella certificazione del miracolo alla scienza medica, pur subordinandola alle finalità religiose. Roma diventa un centro propulsore della medicina legale, sistematizzata da Paolo Zacchia, che sarà poi ripresa da Prospero Lambertini (Benedetto XIV) nel De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-38).

    La convergenza tra medicina e teologia controriformistica avviene sul comune substrato aristotelico, evolutosi continuamente nella prima età moderna, ma è messa in crisi nel Seicento. La scoperta della circolazione del sangue di Harvey (1628) è la base sperimentale per lo sviluppo del meccanicismo, che accantonando l’ilemorfismo aristotelico-galenico popone una nuova visione fondamentalmente monistica del corpo, dei processi normali e patologici e della vita stessa. Nell’alveo galileiano e cartesiano, il meccanicismo disegna un programma di ricerca che trova in Italia grandi interpreti come M. Malpighi, L. Bellini, G.M. Lancisi, fino a G.B. Morgagni, che in De sedibus et causis morborum per anatome indagatis (1761) sistematizza la nuova anatomia patologica come indagine scientifica della malattia a partire dal cadavere. Il mutamento dei presupposti metafisici ed epistemologici della medicina del Settecento, meccanicista o vitalista che sia (rifiuto dell’ilemorfismo, somatizzazione dei fenomeni biologici, integrazione della morte nella definizione di vivente), si ripercuote nelle aree di contatto con la religione. L’“eclissi dell’anima” dall’orizzonte della moderna medicina scientifico-sperimentale non equivale necessariamente al materialismo né tanto meno all’ateismo, ma rende più problematica la validazione scientifica dei fenomeni sovrannaturali. Le polemiche illuministe su stregoneria e possessione si alimentano delle tendenze rigoriste e illuminate interne alla Chiesa, molto forti anche in Italia, ma le sorpassano ampiamente, sebbene in Italia i medici non siano i principali protagonisti.

    Nella seconda metà del Settecento, comunque, la secolarizzazione della medicina procede soprattutto sull’onda delle politiche riformatrici che intaccano la tradizionale convergenza tra Stato, Chiesa e professione: gli ecclesiastici (specialmente i parroci), i medici e, in subordine gli altri operatori sanitari (la cui formazione viene riqualificata), sono agenti delle riforme e garanti dell’ordine sociale, ma la finalità non è più religiosa, bensì politica. Per quanto i valori morali secondo cui operano siano largamente coincidenti, il medico può prevalere sull’ecclesiastico qualora gli usi religiosi compromettano la salute della popolazione, intesa come risorsa dello stato assoluto. Ciò traspare, per esempio, nella questione delle sepolture in chiesa, che però troverà vera attuazione solo in epoca napoleonica. Si laicizza altresì il rapporto del medico con il paziente, verso il quale egli si pone vieppiù come confidente che come garante dell’ortodossia non solo nella malattia, ma nella sessualità e di fronte alla morte.

    Il medico come riformatore è l’eredità che il XVIII secolo lascia alla Rivoluzione, che anche nella Penisola amplifica il valore sociale della medicina e l’autorità politica dei medici. La secolarizzazione dello stato in epoca rivoluzionaria e napoleonica fa venire in luce anche in Italia filosofie mediche schiettamente materialiste (brownismo, magnetismo). Nell’Ottocento la polarizzazione delle posizioni laiche e cattoliche nel perimetro scientifico e professionale della medicina è ormai un fatto anche in Italia, che si carica di ulteriori valenze politiche nel corso del Risorgimento e con l’Unità. Ciò anche se le aree di contatto e di sovrapposizione restano numerosi, in particolare le istituzioni assistenziali. In Italia, la Restaurazione non segna un ritorno al passato quanto all’organizzazione assistenziale, e le istituzioni ospedaliere restano sostanzialmente sotto il controllo dello stato e delle autorità comunali, che accentuano il doppio processo di concentrazione e di specializzazione già delineatosi tra Sette e Ottocento. Del resto, un analogo fenomeno avviene nell’ambito della formazione dei medici, dato che le riforme napoleoniche vengono sostanzialmente mantenute con l’abolizione delle vestigia dei corpi dottorali di antico regime e l’istituzione di moderni esami di stato. Anche nello Stato Pontificio, vari tentativi di riforma si succedono, animati inizialmente specie a Roma da preoccupazioni spiccatamente religiose di restaurarne il carattere santo ed esemplare, poi da considerazioni gestionali e mediche. E’ vero, comunque, che nel corso dell’Ottocento, un nuovo slancio caritativo porta alla creazione di congregazioni religiose vecchie e nuove proprio nell’ambito dell’assistenza (oltre che dell’insegnamento), in tutta Italia.

    Naturalmente, non si deve fare accentuare eccessivamente la contrapposizione tra laici e cattolici all’interno del variegato universo medico dell’Italia dell’Ottocento quanto al ruolo del medico nella società. Volentieri gli uni e gli altri si presentano come i custodi della morale pubblica e del buon ordine sociale, specie in provincia. E in questo si trovano spesso a fianco del clero, indipendentemente dal fatto che molti esponenti tanto della professione quanto del clero siano invece impegnati in nuove forme di filantropia e di solidarietà sociale.

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