Ospedali – vol. II

    image_pdfimage_print
    Autore: Marina Garbellotti

    Chi intenda ripercorrere la storia ospedaliera italiana non può esimersi dal considerare il rilevante contributo apportato dagli uomini e dalle donne di Chiesa. Essi scrissero un capitolo significativo di questa storia promuovendo la fondazione di ospedali, prestando servizio nelle strutture sanitarie civili e attivando corsi per la formazione del personale sanitario di base. A questa ragguardevole presenza, però, non corrispondono altrettante ricerche. Molti degli studi esistenti si concentrano sulle questioni istituzionali, in particolare sui secolari contrasti tra Stato e Chiesa, che hanno connotato la storia ospedaliera e quella assistenziale italiana, mentre tendono a soffermarsi marginalmente sull’organizzazione e sul grado di medicalizzazione degli ospedali religiosi, sulla preparazione del personale sanitario ivi operante, rendendo la descrizione di un quadro d’insieme parziale. Quanto segue non può non riflettere tale indirizzo storiografico.

    Proseguendo l’orientamento dei governi della Restaurazione, negli anni immediatamente successivi all’Unità la politica sociale promossa dallo Stato è dominata dall’obiettivo di realizzare l’accentramento amministrativo degli ospedali. Tale processo, destinato a protrarsi sino all’entrata in vigore della legge ospedaliera del 1968, è segnato da non poche contraddizioni. Se per un verso lo Stato cercò di estendere il controllo sul sistema assistenziale, per l’altro non riuscì, o meglio non intese, sottrarre la gestione delle opere pie ai tradizionali amministratori. Questa tendenza emerge chiaramente dalla legge sulle opere pie del 1862: si tratta della legge Rattazzi varata in Piemonte nel 1859 e ripresa dopo l’Unificazione. La norma, che prevedeva l’istituzione delle Congregazioni di Carità in ogni comune del Regno d’Italia col compito di coordinare gli interventi a favore dei bisognosi, non intervenne sull’organizzazione delle opere pie e sul loro ambito di azione lasciando ai notabili locali e agli ecclesiastici la gestione degli istituti ospedalieri e caritativi. Beninteso, tale scelta fu dettata dal proposito di salvaguardare le reti clientelari e i profitti economici derivanti dalla direzione degli enti caritativi, mentre lo Stato assumeva esclusivamente il ruolo di garante mediante un’attenta sorveglianza sull’operato degli istituti assistenziali e di beneficienza. Poco prima dell’approvazione della legge sulle opere pie il governo avviò un’inchiesta per censire e per conoscere la situazione delle opere pie attive nel territorio nazionale al 1861 in relazione al numero, alle finalità, alla natura giuridica e all’aspetto patrimoniale. Secondo i dati raccolti, pubblicati tra gli anni 1868-1873 in 15 volumi – uno per regione, ai quali ne venne aggiunto uno per il Lazio –, le opere pie erano 20.123, di cui 955 ospedaliere (pari al 5% del totale) e nello specifico 897 erano ospedali per infermi, 23 ospizi di maternità e 35 manicomi. Massiccia era presenza delle Opere miste di beneficenza e di culto in tutto 8.744.

    Come è noto, le tensioni tra Stato e Chiesa culminarono con la legge eversiva del 1866 (estesa alla Provincia Romana nel 1873), che decretava la soppressione degli «Ordini, Corporazioni e Congregazioni religiose regolari e secolari, Conservatori e Ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico». Di fatto, però, nessun ordine religioso fu soppresso o scomparve. Non era questo l’intento del legislatore, il quale si proponeva di togliere il riconoscimento giuridico agli istituti religiosi e di trasferirne i beni nelle casse statali. Inoltre, la disposizione non fu applicata ovunque con rigore e soprattutto le amministrazioni locali non erano in grado di rinunciare al servizio prestato dai religiosi e dalle religiose negli ospedali, nelle scuole e nel settore assistenziale. Ciò non significa che il provvedimento fu inefficace. In questo contesto merita di essere menzionato quanto accadde a Roma, dove, dopo il 1873, furono chiuse o vendute 134 case religiose abitate da circa 3000 mila persone. Per effetto della legge, poi, le cui ripercussioni si avvertirono anche dopo qualche decennio, alcuni ospedali diretti dagli ordini ospedalieri dovettero cessare la loro attività – così accadde a Padova e a Cremona per i nosocomi dei Fatebenefratelli – e molti religiosi furono estromessi dai luoghi di cura. Sintomatico il caso del manicomio veneziano di San Servolo, dal quale i Fatebenefratelli dovettero ritirarsi dopo averlo gestito per più di un secolo. Nonostante lo Stato perseverasse nel progetto di ridurre la presenza degli istituti ecclesiastici, i religiosi si riorganizzarono. I Camilliani, ad esempio, continuarono a prestare la loro opera nelle case private offrendo soccorso materiale e spirituale agli infermi, e promossero la fondazione delle cosiddette Case della Salute, cliniche private dipendenti dall’ordine dei Ministri degli Infermi, presso le quali i religiosi potevano professare il quarto voto di assistenza agli ammalati.

    Nel 1890 con l’approvazione della legge Crispi, invano contrastata da cattolici e conservatori, fu compiuto un ulteriore passo nella direzione intrapresa dallo Stato di assoggettare le istituzioni assistenziali. Nell’intento, raggiunto parzialmente, di migliorare e di laicizzare il servizio assistenziale e sanitario, essa trasformava le opere pie in istituzioni pubbliche di beneficenza (IPB), dove per opere pie si dovevano intendere gli enti riservati ai poveri, «tanto in stato di sanità quanto di malattia», finalizzati a favorirne «il miglioramento economico e morale» mediante l’istruzione, l’avviamento al lavoro o altre modalità. Definendo enti pubblici le opere pie, il legislatore intendeva sottoporre al medesimo regime giuridico istituti di natura diversa, in particolare quelli rientranti nel sistema caritativo privato ed ecclesiastico, al fine di inserirli nell’organizzazione amministrativa dello Stato. Anche in questo caso il principio fondamentale dell’autonomia delle opere pie fu rispettato, ma venne accentuato il controllo sulla conservazione e sulla gestione dei patrimoni. Il prevalere di interessi localistici e l’importanza delle attività assistenziali e sanitarie sostenute dai religiosi, però, allentarono la rigida osservanza della norma. La sua importanza, tuttavia, risiede nell’introduzione di un principio fondamentale di politica assistenziale, e cioè nell’obbligo di soccorrere chiunque almeno nei casi di urgenza. Cominciava a maturare l’idea che l’ospedale dovesse svolgere un servizio pubblico.

    Durante il periodo fascista la politica assistenziale mirò a proseguire e a rafforzare il programma di centralizzare la vigilanza sulle istituzioni benefiche e nel contempo favorì la nascita di enti assistenziali nati in seno al partito. Tra gli esiti di questo disegno va annoverata la legge del 1923 che tra i vari provvedimenti estese le attività di controllo sulla gestione amministrativa degli enti di assistenza e di beneficienza (ora denominate IPAB, non più IPB), pur non intaccandone l’autonomia. Fu inoltre ribadito con maggiore rigore il principio che l’assistenza ospedaliera era un diritto pubblico stabilendo la prestazione ospedaliera erga omnes nei casi di urgenza. Seppure lentamente l’ospedale si avviava ad assumere la funzione di luogo di cura dotato di personale specializzato e a servizio di tutti i cittadini. Occorrerà, infatti, arrivare alla legge ospedaliera del 1968 per assistere a una riforma radicale in questa direzione.

    Prima di illustrare gli elementi salienti di questa norma, è opportuno ricordare che l’orientamento laicista, tratto peculiare della storia dell’assistenza, subì un forte ridimensionamento durante il periodo fascista, allorché, per ragioni di natura esclusivamente politiche, fu concesso alla Chiesa di riguadagnare spazio nell’ambito sanitario e assistenziale. Esempio di questa politica è la legge Ferderzoni del 1926, che riammise gli ecclesiastici nei consigli amministrativi delle istituzioni assistenziali e pochi anni dopo riconobbe agli ordini e alle congregazioni religiose personalità giuridica permettendo, quindi, agli stessi la capacità di acquistare e di possedere. L’attività assistenziale e sanitaria promossa dalle istituzioni religiose riprese dunque vigore. Sempre in questa fase storica, nel 1937 le Congregazioni di Carità furono sciolte e trasformate in Enti comunali di assistenza (ECA) allo scopo di coordinare tutti gli istituti finalizzati all’assistenza generica. Nonostante queste alterne vicende la Chiesa continuò a vigilare sui numerosi ospedali di pertinenza degli Ordini religiosi ospedalieri, quali i Fatebenefratelli, i Camilliani, l’Ordine di Malta. Relativamente a questa tipologia di ospedali un significativo cambiamento avvenne con la già menzionata legge ospedaliera del 1968. In attuazione a quanto disposto dall’art. 32 della nostra Costituzione, che afferma la tutela del diritto alla salute e riconosce tale diritto a tutti, la legge considera l’assistenza ospedaliera un servizio sanitario pubblico destinato all’intera collettività, superando la precedente legislazione in cui il concetto di assistenza era legato a quello di beneficienza. Essa, inoltre, intese conferire un assetto unitario all’organizzazione dell’assistenza ospedaliera, avviando un processo di ‘statalizzazione’ della sanità. Nell’intento di proporre un’organica disciplina in materia, gli ospedali ecclesiastici, al pari degli altri, purché dotati dei requisiti richiesti, potevano essere classificati nell’ambito di una delle categorie di ospedali stabiliti dalla legge per essere inseriti nella programmazione ospedaliera. A seguito di questa norma molti ospedali di pertinenza degli ordini religiosi hanno ottenuto la «classificazione» e di conseguenza assunto valenza pubblicistica. Con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, avvenuta nel 1978, non fu introdotta alcuna novità in ordine al regime giuridico-amministrativo degli ospedali ecclesiastici. In Italia il peso della Chiesa nel campo sanitario è diminuito notevolmente rispetto ai secoli passati, nonostante gli ospedali religiosi, privati e classificati, continuino a operare. Diversamente, esso è divenuto incisivo e rilevante in quei paesi extraeuropei dove è carente o inesistente il sistema sanitario pubblico.

    In questo breve excursus storico corre l’obbligo di affrontare il tema delle suore infermiere per l’imponente ruolo che svolsero nel campo dell’assistenza sanitaria a domicilio e negli ospedali sino alla prima metà del Novecento. Sono innumerevoli le congregazioni femminile, molte delle quali nate nel corso dell’Ottocento, dedite all’assistenza degli infermi, tra le quali si possono menzionare le Figlie della Carità di san Vincenzo de Paoli, le Suore della Carità della Thouret, le Figlie di san Camillo, le Sorelle della Misericordia, le Suore di Maria Bambina, e l’elenco potrebbe continuare.

    L’infermiera religiosa divenne una presenza abituale e non facilmente sostituibile nei luoghi di cura. Pronunciando il quarto di assistenza agli infermi, le suore soccorrevano anche gli ammalati contagiosi ed erano sempre disponibili a prestare servizio. Nel 1902, ad esempio, i religiosi impiegati negli ospedali risultavano 4.313 (70 maschi e 4.243 femmine), e le suore rappresentavano il 40% del personale sanitario, una cifra destinata a crescere nei decenni successivi. La cura degli infermi era vissuta come una missione alla quale votarsi pienamente, caratteristiche queste che plasmarono il profilo di tale figura professionale. Sino agli Settanta del secolo scorso, infatti, essa era associata alla donna preferibilmente nubile e, almeno in Italia, gli uomini furono ammessi alle scuole per infermiere professionali dal 1971. Prima dell’apertura delle scuole infermieristiche laiche, la cui nascita in Italia si colloca solo nel primo decennio del Novecento, in ritardo rispetto alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, erano dunque le suore ad occuparsi della formazione del personale infermieristico e a prevalere nel corpo infermieristico offrendo un servizio qualificato e a costi ridotti. Ragioni etiche e di decoro proibivano alle suore infermiere di prestare cure agli ammalati uomini e di assistere nei reparti di maternità, tuttavia queste limitazioni furono sovente risolte con l’introduzione di una figura-ponte tra la religiosa e l’ammalato e nel corso del tempo alcuni istituti religiosi ridussero le proibizioni in tal senso.

    Pur privilegiando altri settori di intervento, la presenza delle religiose infermiere negli ospedali è stata determinante. Secondo i dati raccolti nel 1950 dalla Sacra Congregazione dei Religiosi, ad esempio, il 26,4%, pari a 34.796 religiose italiane, prestava la propria opera nei servizi sanitari ospedalieri, mentre la maggior parte era impegnata nei servizi scolastici (43,3%) e il 30,3% si dedicava a quelli educativi assistenziali. Dagli anni Cinquanta del Novecento si registra il calo numerico delle religiose infermiere: dal 1975 al 1992 esse passarono da 15.234 a poco più di 10.000 con una flessione tutt’oggi in corso che ha prodotto una inversione di tendenza. Mentre in passato gli ospedali laici assumevano numerose religiose per assolvere compiti sanitari e organizzativi, negli ultimi decenni sono gli ospedali religiosi a ricorrere al personale laico. La curva decrescente delle religiose infermiere si spiega sia con la diminuzione delle vocazioni avvenuta negli ultimi decenni, che ovviamente si ripercuote sulle attività sociali praticate dai religiosi e dalle religiose, sia, e forse soprattutto, con i mutamenti avvenuti nella società civile. Il maggiore spazio conferito all’occupazione femminile ha indotto le religiose a rinunciare all’assunzione dei tradizionali ruoli di infermiera e di insegnante, largamente assunti da persone laiche, per votarsi all’attività sanitaria, assistenziale ed educativa in ambiti più ricettivi tra i quali primeggiano le missioni.

    Fonti e Bibl. essenziale

    S. Andreoni, Da Porta Pia agli anni Trenta, in S. Andreoni, C.M. Fiorentino, M.C. Giannini, Storia dell’Ordine di San Camillo. La provincia Romana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, parte terza, 175-262; P. Battilani, I protagonisti dello Stato sociale italiano prima e dopo la legge Crispi, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2000, 639-670; A. Brusco, L. Biondo (edd.), Religiose nel mondo della salute, Edizioni Camilliane, Torino 1992; P. Carucci, Gli archivi ospedalieri: normativa, censimento, conservazione, in Studi in memoria di Giovanni Cassandro, I, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1991, 109-137; E. Colagiovanni, Le religiose italiane: ricerca sociografica, Centro Studi U.S.M.I, Roma 1976; A. Ciuffetti, Difesa sociale. Povertà, assistenza e controllo in Italia, XVI-XX secolo, Morlacchi, Perugia 2004; P. Frascani, Ospedale e società in età liberale, il Mulino, Bologna 1986; G. Gozzini, Povertà e Stato sociale: una proposta interpretativa in chiave di path dependence, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2000, 587-610; A. Madera, Gli ospedali cattolici. I modelli statunitensi e l’esperienza giuridica italiana: profili comparatistici. II: Gli enti ospedalieri cattolici (prospettiva comparatistica), Giuffré, Milano 2007; G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità d’Italia (1861-1878), III/1, Vita e Pensiero, Milano, 194-335; M. Piccialuti Caprioli, Il patrimonio del povero. L’inchiesta sulle opere pie del 1861, in “Quaderni storici”, 45 (1980), 918-941; G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Edizioni Paoline, Roma 1992; G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al Concordato del 1929: appunti per una storia, in R. Di Pietra, F. Landi (edd.), Clero, economia e contabilità in Europa. Tra medioevo ed età contemporanea, Carocci, Roma 2007, 226-247; D. Preti, La questione ospedaliera nell’Italia fascista, in F. Della Peruta (ed.), Malattia e medicina (Storia d’Italia. Annali n. 7), Einaudi, Torino 1984, 335-389; C. Sironi, Storia dell’assistenza infermieristica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991; C. Sironi, L’infermiere in Italia: storia di una professione, Carocci, Roma 2012; M.I. Venzo, Gli ospedali romani dopo l’Unificazione, in “Chiesa e Storia”, 2 (2012), 297-309; G. Vicarelli, Alle radici della politica sanitaria in Italia. Società e salute da Crispi al fascismo, il Mulino, Bologna 1997.


    LEMMARIO