Evangelizzazione – vol. I

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    Autore: Gianni Colzani

    La storia dell’evangelizzazione dell’Italia è la storia della trasmissione della fede cristiana, cioè del suo arrivo in questo paese e della sua trasmissione secondo forme adatte a interpretare la vita ed a dialogare con i problemi ed i cammini storici di questo paese. La prima cosa da dire è che il cristianesimo non è nato in Italia ma in Palestina: i primi cristiani erano ebrei e appartenevano ad un popolo che conosceva bene le scritture, seguiva le norme della legge mosaica ed attendeva un Messia che avrebbe ricostituito il regno di Israele. Questa loro origine porta in primo piano una prospettiva culturale e delle priorità che modellavano inevitabilmente le loro domande, anche a proposito della religione e della salvezza.

    Il superamento del cristianesimo giudaico è il primo passo dell’evangelizzazione. Anche se Mt 28,18-20 e Mc 16,15 presentano teologicamente il fatto legandolo ad un comando del Risorto, storicamente non avvenne così: avvenne sulla base della persecuzione del gruppo di Stefano: At 11,19-21. Nonostante il dibattito e l’approvazione che At 15 fa risalire alla Chiesa di Gerusalemme, si trattò di una scelta non priva di contrasti e rappresenta un passaggio decisivo. La decisione che non è necessario diventare giudei per essere cristiani rappresenta quello che A. Walls indicherà come indigenizing principle: si tratta di fare di ogni chiesa un luogo dove le persone si sentano a casa loro. Lo stesso Walls integra questo criterio con un pilgrim principle. Per quanto vissuta in una cultura particolare, il vangelo associa i credenti ad una prospettiva universale che va oltre ogni tipo di barriera: come Dio si è chinato su di loro scegliendoli gratuitamente, così essi devono aprire mente e cuore a tutte le persone. Come dirà Paolo in 2Cor 5,17, il cristianesimo delinea una nuova figura di persona: la comunione con Cristo rende “creature nuove”. Su questo sfondo possiamo affrontare l’arrivo del cristianesimo in Italia.

    Ingresso e diffusione del cristianesimo in Italia. Non sappiamo bene come e quando il cristianesimo sia entrato in Italia. Probabilmente è avvenuto sulla base dei rapporti che il mondo giudaico manteneva con Roma: erano rapporti mercantili e culturali ma anche religiosi. Basta pensare ai pellegrini ed al rientro di ebrei della diaspora; in effetti, a Gerusalemme esistevano sinagoghe per loro. Un ruolo particolare devono poi aver avuto le persecuzioni che avevano sparpagliato prima il gruppo di Stefano (At 8,1-4) e colpito poi quello giudeo-cristiano (At 12,1-2); quelle persecuzioni possono aver convinto dei credenti a riprendere la strada di casa, diventando così principio di nuove comunità.

    Di fatto le scritture ricordano la presenza al discorso tenuto da Pietro a Pentecoste (At 2,10) di stranieri provenienti da Roma e fanno presente che in quella città, prima ancora che Paolo potesse arrivarvi, vivevano un gruppo di persone a lui ben note per il loro impegno apostolico (Rm 16, 1-15). È presumibile che questi primi credenti fossero nella loro maggioranza di origine ebraica; almeno per il primo secolo d. Ch. È difficile pensare il contrario. Il testo di At 28,12-16, che narra il viaggio di Paolo da Malta verso Roma dopo il naufragio, ricorda una sosta a Siracusa e a Reggio, dove la presenza di comunità cristiane è sostenuta da tradizioni locali e da dati archeologici; ricorda anche due comunità non paoline che, a Pozzuoli ed a Roma, vanno incontro a Paolo.

    Nonostante queste indicazioni, nel primo secolo non abbiamo notizie confermate su una presenza di comunità cristiane al di fuori di Roma per quanto sia probabile che ve ne fossero vicino a Roma, in Campania e in Sicilia; le uniche conferme – soggette però a diversità di interpretazioni – riguardano l’archeologia che sembra indicare la presenza di simboli cristiani a Pompei ed Ercolano, le due città distrutte dal Vesuvio.

    Per il primo secolo, le notizie non abbondano nemmeno su Roma. Autori che avrebbero dovuto esserne bene informati – come Clemente Romano, Ignazio di Antiochia e Papia – non hanno notizie precise sull’origine di quella comunità. Solo sommando la notizia di Svetonio (De Vita Caesarum 25), secondo il quale Claudio nel 49 d. Ch. cacciò da Roma i giudei che tumultuavano impulsore Chresto, con quella dell’Ambrosiastro (Commentaria in Epistolam ad Romanos, Prol 2-3) secondo il quale Paolo loda la fede dei romani perché credono senza aver visto «né segni, né miracoli né alcuno degli apostoli», si può ritenere che l’origine della Chiesa di Roma sia dovuta a viaggiatori o mercanti giunti a Roma da Gerusalemme e appartenenti al mondo giudeo-cristiano. Tacito e Svetonio concordano poi nel riportare il martirio dei cristiani quando, nel 64, furono falsamente accusati dell’incendio di Roma.

    Notizie più precise risalgono al secondo secolo e riguardano Roma, Ravenna e l’Italia meridionale; sul finire del secolo anche la Lombardia e il Veneto conobbero il vangelo e videro il costituirsi delle prime comunità. In pratica, l’evangelizzazione dell’Italia si svolse nei primi due secoli e, con il terzo, doveva aver già raggiunto una buona diffusione se, nel 313, Costantino pubblicava a Milano quell’editto di tolleranza che mirava ad evitare che l’impero fosse disgregato dalle tensioni tra i culti tradizionali e la nuova fede cristiana.

    È di certo utile interrogarsi sulle modalità di questa prima cristianizzazione. Molti temi sono noti: tra questi vi sono le persecuzioni e i martiri, le eresie e il primo organizzarsi del papato, la struttura del catecumenato e le prime articolazioni delle comunità; meno conosciuta è la problematica dell’incontro culturale tra il mondo romano-ellenistico e la fede cristiana. A. D. Nock ha riportato il successo della fede cristiana alla corrispondenza tra la sensibilità culturale del tempo e le caratteristiche della nuova religione. Secondo Nock, quel mondo era un mundus senescens, un mondo in attesa di qualcosa e in cerca di risposte all’altezza dei tempi che né le divinità dell’Olimpo né la religione civile dell’impero erano in grado di offrire. Il discorso di Paolo all’Areopago di Atene (At 17,22-31), con la sua valorizzazione della ricerca umana e la presentazione di un “Dio ignoto”, rappresentava già un programma di evangelizzazione che la Chiesa svilupperà con sapienza pedagogica cristiana come passaggio dal “Dio ignoto” al “Dio di Gesù”. La fede pasquale e il sacramentalismo – inteso come via e come pedagogia – saranno i cardini di una fede che è in grado di offrire risposte ai bisogni identitari e religiosi delle persone.

    L’unificazione romana del Mediterraneo rappresentava una possibilità di cammino verso il cuore dell’impero sia per il cristianesimo sia per le altre religioni orientali ma queste, una volta tolte dal loro contesto originario, avrebbero mostrato molti limiti e perso la loro incisività. Di fatto, mentre la curiosità intellettuale e l’impostazione metafisica avevano guidato il mondo greco ad una ricerca sul significato dell’universo, l’imporsi di un potere imperiale porta i circoli intellettuali a rinchiudersi al proprio interno in una personale ricerca di verità e in una esperienza di rettitudine. Come splendidamente ha scritto Agostino in Soliloquia I,2,7, il cristianesimo offrirà a questa ricerca la conoscenza e la comunione con Dio e individuerà l’anima come l’ambito di quel cammino che introduce alla veritas e alla beatitudo divina.

    R.L. Wilken ha integrato questo quadro indicando nell’incontro e nella polemica tra cristiani e tradizionalisti il punto critico dell’incontro di due modelli di religione: quella essenzialmente civica dei romani e quella personale dei cristiani. Indagare il confronto tra questi due modelli di religione – quello romano di tipo sociale-civico e quello cristiano legato alla libertà ed alla dignità personale – permette di approfondire meglio il ruolo sociale giocato dalle due tipologie religiose; la semplice contrapposizione tra apologisti cristiani e intellettuali pagani come Celso o Porfirio non è sufficiente. La religione civica doveva legittimare religiosamente tutti gli aspetti della vita personale e sociale tanto da rappresentare il fondamento dei doveri civici delle persone e la legittimazione della loro convivenza: in questa direzione comprendeva una coscienza della provvidenza divina ed una pietas che sapeva sviluppare una sincera adesione ed una sua forza emotiva; per contro la fede cristiana metteva al centro la dignità personale scaturente dalla comunione con Dio ed il cammino di libertà che la portava a pienezza.

    Il confronto tra le due tipologie religiose ha permesso di intrecciare a fondo la componente personale e quella civica evitando così una riduzione privatista della fede. Kwame Bediako coglie in questo nesso tra il modo di porre e sviluppare le questioni teologiche e la autocomprensione che il cristianesimo ne ricava un dato di fondo valido per ogni tempo; nel dibattito tra fede e cultura degli apologisti del II secolo – sia nella forma di continuità propria di Giustino e Clemente Alessandrino, sia in quella di discontinuità più nitida in Taziano e Tertulliano – si esprime in modo diverso una stessa volontà, quella cioè di voler essere ad un tempo fedeli alla propria identità cristiana e partecipi della cultura del proprio tempo. Una simile coscienza è il fondamento dell’incontro tra il cristianesimo e le forze spirituali e religiose dell’epoca.

    Le migrazioni dei popoli germanici e la risposta monastica. La fine del periodo romano-ellenistico è marcata da una progressiva separazione linguistica, culturale, politica e religiosa tra Roma e Costantinopoli ma è caratterizzata soprattutto dalle migrazioni dei popoli germanici che determinano una nuova geografia politica e religiosa; prima i Goti di Teodorico poi i Longobardi di Alboino occupano l’Italia riaprendo così il tema dell’evangelizzazione: pur cristiani, erano però ariani. Più tardi, sul finire dell’ottavo secolo e soprattutto nel nono, si avrà una impressionante espansione del mondo arabo-islamico che sottomette tutto il sud del Mediterraneo ed occupa parzialmente la Spagna e la Sicilia; si impone così un nuovo contesto culturale e religioso che chiederà alla Chiesa di rideterminare la sua posizione in ordine a questi cambiamenti. Si tratta di una prospettiva che non riguarda solo l’Italia ma tutta l’Europa occidentale: il rapporto con i popoli germanici sarà il nuovo campo di evangelizzazione.

    La conversione di questi popoli al cattolicesimo non era scontata. Erano popoli guerrieri, dediti all’allevamento e con una singolare capacità di lavorazione del ferro; l’arianesimo marcava la loro identità impedendo l’integrazione con un popolo sottomesso che, al contrario, era per lo più agricoltore e senza uguali nell’arte della costruzione. Inoltre la situazione sociale era marcata da migrazioni, latifondismo, corruzione sociale e da una diffusa pratica di violenza che avevano generato un regresso di vita cristiana ed una rinascita di culti pagani. Il soggetto dell’evangelizzazione di questi popoli il monachesimo itinerante, di origine iro-scozzese; ad esso si deve l’evangelizzazione di questi popoli. La loro spiritualità aveva le sue radici in un ascetismo penitenziale che aveva trovato sbocco in una vita austera che era, insieme, coltivazione della terra e coltivazione delle anime. La fama dei monasteri, luoghi di preghiera e di austerità, attirerà molti giovani mentre la pietà liturgica, l’ideale di santità e la concezione ascetico-penitenziale della vita, tipica di quei luoghi, plasmeranno la coscienza di molti credenti.

    A caratterizzare questo monachesimo in senso missionario sarà la peregrinatio pro Christo. Mentre i primi eremiti si rifugiavano nel deserto e la regola di Benedetto chiedeva la stabilitas loci, questi monaci praticano la peregrinatio: il senso di questo farsi pellegrini per il regno si fonda sulla volontà di rivivere l’esperienza del distacco e della fede del patriarca Abramo: l’itineranza diventa la ragione di una vita che si pensa come segnata da un anelito e da una tensione alla patria celeste e vive la vita terrena da pellegrini e ospiti in cerca della vera meta della propria esistenza. Tra questi monaci si possono ricordare Agostino di Canterbury (534-604), Colombano (540?-615), Bonifacio (672?-754) e i due santi fratelli Cirillo (826-869) e Metodio (815-885); tra i monasteri spicca indubbiamente Bobbio, fondato nel 614 da Colombano che vi morirà.

    Questi monasteri sono centri di evangelizzazione: mirano alla conversione dei capi e del popolo ed opereranno l’integrazione dei due popoli, quello germanico e quello romano conferendo così unità sociale, culturale e religiosa ai nuovi regni. Non mancavano dei limiti: la rinuncia alla stabilitas loci e la mancanza di una regola comune – i monasteri erano allora retti da una trentina di regole diverse – favoriva l’autonomia di ogni monastero ma facilitava pure l’introdursi di diversi abusi nella regolarità della vita monastica. Localismo e individualismo erano i limiti di un monachesimo che non aveva collegamenti precisi né tra i leaders monastici né tra i monasteri; questo spiega la diversità del monachesimo anglosassone – proprio del secolo VIII – ed i cambiamenti che introdurrà: la romanitas e la regola benedettina diverranno strumento di unificazione di questo monachesimo e di questa evangelizzazione. Winfrid di York, più noto con il nome di Bonifacio (+754), sarà così alla base di una riforma monastica in senso anti-irlandese. Il Capitulare Monasticum di Aquisgrana dell’817, ispirato da Benedetto di Aniane, imporrà la regola benedettina a tutti i monasteri franco-germanici.

    Il risultato di questa missione monastica, per quanto non organizzata né centralizzata, sarà notevole; mossi dall’amore di Cristo e dalla passione per la diffusione del vangelo, questi monaci perseguiranno la conversione dei capi e la loro opera rappresenterà la base del successivo progetto carolingio di una unificazione culturale e religiosa dell’Europa occidentale. L’interpretazione che, da Agostino in poi, veniva fatta del compelle intrare di Lc 14,2 finirà per legittimare l’uso della forza per ottenere la conversione: la Capitulatio de partibus Saxoniae (772) comminava la pena capitale a chi offendeva la fede cristiana e i suoi sacerdoti. Legata alla politica di repressione della rivolta sassone guidata da Viduchindo, la Capitulatio legittimerà il massacro di Verden (784); per quanto abrogata nel 797 e sostituita dal Capitulare Saxonicum elaborato con la partecipazione dei Sassoni e meno impositivo, resta una pagina triste. L’unificazione carolingia perseguita dall’impero e dal papato porterà ad un problematico nesso tra politica e religione; i popoli germanici erano affidati ai predicatori ed il battesimo diventava, insieme, un segno di fede e di sudditanza e di obbedienza al vincitore.

    La sfida del mondo mercantile: testimoniare il vangelo in una vita di povertà. Il periodo che qui interessa è quello che comincia dopo il mille, a partire dal secolo XII. La fine dell’impero carolingio ed, in genere, la scomparsa del feudalesimo e la nascita della civiltà comunale creeranno una nuova condizione sociale: vi è un rifiorire delle città, una forte rinascita dei commerci e l’imporsi di una nuova cultura legata alla coscienza del valore delle persone e della loro partecipazione dopo secoli di sudditanza feudale. Come ha magistralmente indicato M.D. Chenu, vi è una rinascita evangelica ed un diverso equilibrio tra natura e grazia. Ne viene una nuova temperie sociale, spirituale e apostolica che, investendo monaci, canonici e laici, accentua la ricerca di una spiritualità caratterizzata da un ritorno alla Chiesa delle origini ed al suo modello di comunità e di povertà. Questa rinascita si traduce in una esigenza di vita ed in un movimento apostolico che, per i suoi orizzonti di comunione e di povertà, non poteva trovare accoglienza in una vita monastica, austera forse sotto il profilo personale ma vissuta ormai in un quadro di ricchezza e di potenza. Nemmeno il desiderio di fraternità e di comunione era pienamente realizzabile in monasteri caratterizzati dall’obbedienza e dalla disciplina.

    Sorgeranno così gruppi con visioni nuove in ricerca di una crescita ed una maturazione umana e cristiana: la Francia del sud e l’Italia del centro-nord saranno il loro ambito di maggiore sviluppo. Lontani dalla gerarchia ma vicini alla gente, questi gruppi avevano il loro riferimento nei vangeli e nella vita della prima comunità cristiana: la predicazione del vangelo, la rinuncia alla proprietà fino a vivere di questua, la continua peregrinazione e la ricerca di comunione e fraternità caratterizzavano questi gruppi che apparivano ed erano portatori di un nuovo progetto di vita cristiana e di riforma ecclesiale. Raramente sostenuti da una adeguata base teologica, la loro vita e i loro comportamenti conobbero momenti di esaltazione spirituale e di esagerazione accompagnati anche da deviazioni dottrinali.

    Sotto il profilo dogmatico-concettuale della fede si possono ricordare in proposito diverse condanne: il concilio di Verona (1184), la lettera di Innocenzo III al vescovo di Tarragona (1208) sulla predicazione, la bolla di Bonifacio VIII Saepe sanctam Ecclesiam (1303) che condanna i Fratelli del libero Spirito, la bolla Cum inter nonnullos (1323) di Giovanni XXII che condanna gli spirituali francescani. Se guardiamo invece queste realtà come espressione di esigenze sociali e denuncia della distanza tra il vangelo e la vita della Chiesa, allora i pauperes Christi lasciano intravvedere una profonda esigenza di rinnovamento morale e spirituale. Di fatto patarini, valdesi, arnaldisti, umiliati, circoncisi, adamiti, fratelli apostolici, leonisti, speronisti e altri ancora trovavano una certa diffusione; la loro contestazione della ricchezza della chiesa e dei costumi di vita degli ecclesiastici esigevano una testimonianza di vita evangelica prima che una condanna dottrinale.

    La Chiesa riuscirà ad esprimere questa svolta tra il concilio Lateranense III (1179) e l’approvazione degli Statuti comunali di Brescia (1230), ben presto presi a modello di quelli di Padova, Verona, Bologna, Ferrara; lo farà mettendo in campo una vita religiosa esemplare ed un insieme di strumenti giuridici, politici e organizzativi che arrivarono ad isolare i movimenti eretici togliendo loro ogni spazio sociale. L’esempio di Brescia e i moti dell’Alleluia (1233) furono tra le ragioni principali di questa svolta; un peso non piccolo lo ebbe anche l’inquisizione e la condanna giuridica dell’eresia, considerata come un attentato alla “pace di Dio” ed alla convivenza tra gli uomini. Il contributo più grande verrà però dagli ordini mendicanti; con una vita evangelica lontana dal lusso e dalla ricchezza e segnata da fraternità e povertà, saranno la militia Christi che porrà le basi di un nuovo consenso sociale tra la Chiesa e il popolo italiano.

    Francesco d’Assisi (1181-1226) e Domenico di Guzman (1170-1221), con i loro frati, saranno i cardini di questa risposta ecclesiale. Entrambi i movimenti iniziano con la volontà di vivere una piena rinuncia ad ogni forma di possesso praticando la questua; tuttavia il loro modo di intendere la povertà resta diverso: mentre per i francescani è il centro di ogni impegno apostolico, per i domenicani è condizione necessaria per una predicazione apostolica. In effetti, all’inizio, il movimento francescano si presenta come itineranza penitenziale ed evangelica ma, ben presto, i “penitenti di Assisi” assumeranno il nome di “frati minori” iniziando quel percorso che porterà questo movimento ad assumere forme ascetiche, liturgiche ma anche giuridiche e pedagogiche più precise. Domenico, invece, pensava ad una società religiosa che, pur abbracciando pienamente la vita apostolica, non si ponesse sotto l’autorità di un vescovo o di un abate, ma sotto la giurisdizione diretta del romano Pontefice; i suoi frati dovevano essere disposti alla predicazione del vangelo e alla difesa della fede dovunque i papa ritenesse di inviarli.

    In questa sede interessa notare che l’evangelizzazione dell’Italia è un continuum, un impegno continuamente riproposto sotto l’incalzare di problemi diversi. Ne è prova la differenza nella continuità tra l’evangelizzazione monastica e quella degli Ordini mendicanti: la prima mira alla conversione dei capi e di un popolo trascinato dal loro esempio mentre la seconda riporta in primo piano l’ideale evangelico ed opera per portare a tutti la buona novella. Superando il ripiegamento della cristianità su se stessa, gli ordini mendicanti mostreranno come l’apertura a chi non crede sia basilare per la stessa fede. Nel 1209, Francesco d’Assisi coglie nel testo di Mt 10, 7-12 la sintesi della sua vocazione: predicare il vangelo e la penitenza secondo uno stile evangelico di povertà.

    Al centro del suo pensiero, non vi è la penitenza ma il desiderio che Cristo sia conosciuto e amato. Di conseguenza, per tre volte, Francesco cercherà di partire per la missione; come lui anche i suoi frati, dopo l’esperienza negativa del 1217, daranno inizio alla missione già nel 1219. Documenti significativi di questa svolta sarà la regola francescana: il capitolo XVI della Regola non bollata (1221), sostanzialmente ripetuto nel capitolo XI della Regola Bollata (1223), ne sarà la prima testimonianza. Esigendo totale fedeltà alla chiesa e piena sottomissione al papa e alla gerarchia, la Regola scrive: vadano con il permesso del loro ministro… se vedrà che sono idonei. A sua volta, questi sarà garante dell’essere sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa chiesa, stabili nella fede cattolica. L’evangelizzazione non sopraggiunge alla vita conventuale come un di più ma ne rappresenta piuttosto la ragion d’essere; vita evangelica e annuncio apostolico appaiono i cardini di un progetto di vita che arriva fino al martirio.

    Il risultato di queste prospettive sarà la nascita di un doppio impegno: una missione ad intra ed una ad extra, due forme che dicono la sensibilità per una difesa della fede all’interno e alla proclamazione del vangelo all’esterno. In questo contesto è la prima ad interessarci; appoggiandosi all’agostinismo politico, la prima pensa l’evangelizzazione nel quadro di una società cristiana secondo uno stretto intreccio tra esigenze religiose e motivi politici, avendo di mira la difesa della fede. Due gruppi in particolare venivano al centro di questa attenzione: gli ebrei e gli eretici. La Distinctio 45 caput 3 del Decretum Gratiani annota che «non asperis sed blandis verbis ad fidem sunt aliqui provocandi», una indicazione che si può riassumere in una “non-costrizione” più che in una tolleranza. Per rinforzare questa prospettiva, il Decretum ricorda il can. 56 del IV concilio di Toledo, presieduto nel 633 da Isidoro di Siviglia. Non sempre però queste indicazioni basteranno a garantire il rispetto di questi gruppi.

    La posizione degli ebrei è teoreticamente chiara: hanno il diritto di seguire le loro usanze perché la loro eventuale conversione dev’essere libera e non violenta. Le Decretales di Gregorio IX dedicano il libro III, titolo XXXIII alla condizione della minoranza giudea e alle situazioni nuove create dalle crociate, attenendosi alle idee richiamate sopra. Con la sua abituale chiarezza, Tommaso (IIa IIae, q. 10, art. 11) dirà che i riti dei giudei sono tollerabili perché, come figure della fede cristiana, offrono – in una certa misura – una testimonianza a suo favore e perché evitano scandali e mali peggiori che si avrebbero se fossero impediti. L’articolo 9 della medesima quaestio affronterà tanto i loro riti quanto le comunicazioni con loro risolvendo entrambe le questioni allo stesso modo: vanno tollerati per lo scandalo che si avrebbe con la loro soppressione e nella speranza di una loro futura conversione. Occorrerà però evitare ogni familiarità non necessaria. Il tema del matrimonio è qui lo sfondo di regolamentazioni che, in ogni caso, mirano più alla difesa della fede che alla sua espansione. In pratica abbiamo una regolamentazione di una minoranza religiosa che troverà soluzione solo in seguito.

    Diversa da quella degli ebrei è la condizione degli eretici. L’intreccio tra difesa della fede e coesione dello stato porterà a sentire l’attacco alla fede come un attacco alla vita dello stato ed a mettere la sua forza al servizio della difesa della chiesa. Ci imbattiamo qui nel nodo dell’Inquisizione e nella giustificazione dell’uso della forza. Va detto che l’Inquisizione medioevale era profondamente diversa da quella rinascimentale e spagnola; grossomodo si può dire che il processo inquisitorio per motivi religiosi non era diverso dalla prassi giuridica dell’epoca e dalle modalità che l’accompagnavano, quando non era meglio. La giustificazione dell’uso della forza si rifà ad Agostino ed al suo commento al compelle intrare di Lc 14,23: la necessità di sfuggire alla dannazione permetteva un qualche uso della forza. Ma, mentre Agostino pensava a delle multe, alla confisca dei beni od all’esilio, la realtà si spinse fino alla mutilazione ed alla pena di morte. La gestione di una società cristiana si rivela qui inadeguata ad affrontare la questione delle minoranze e dei non-cristiani.

    La Riforma cattolica e l’impegno per una pastorale apostolica. Le scoperte geografiche – dalla seconda metà del XV secolo in poi – spalancano all’Europa un mondo nuovo ma segnano anche una obiettiva emarginazione del Mediterraneo, e dell’Italia in particolare, dal tessuto vivo della storia. Dopo il periodo iberico, le potenze dominanti saranno ben presto l’Inghilterra, la Francia e l’Olanda. Tagliata fuori dalle dinamiche europee, l’Italia si suddivide in ducati, signorie, repubbliche, regni e stato pontificio; la stessa missione si rivolge ad gentes dando per scontata la vita cristiana del popolo italiano.

    Per ritrovare il filo dell’evangelizzazione si può partire dal concilio di Trento che, di fronte alle sfide dell’umanesimo e della riforma, pone al centro della sua strategia la proclamazione del vangelo. Già nella quarta sessione del 08.04.1546, dedicata al Decreto de libris sacris et de traditionibus recipiendis, il concilio ritiene suo dovere il «conservare la purezza del vangelo nella Chiesa» e di intenderlo «quale fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale». Il 17 giugno 1546, poi, la quinta sessione approverà il decreto super lectione et praedicatione; il n. 10 poi indicherà il ministero della predicazione del vangelo come compito da esercitare per la salvezza. Questo compito, infatti, obbliga ad «insegnare ciò che tutti devono sapere per essere salvi» ed a «denunciare […]i vizi da fuggire e le virtù da praticare per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste». Questa esaltazione della predicazione del vangelo ha certo il fine di consolidare la vita cristiana dei fedeli e di aiutare chi l’ha persa a recuperarla ma tratteggia anche un clima spirituale ed un orizzonte pastorale che è alla base di una nuova strategia apostolica: il vangelo come fons omnis et salutaris veritatis et morum disciplinae e la sua comprensione ecclesiale, Evangelium in Ecclesia, diventano criteri decisivi della vita cristiana e di quella apostolica.

    L’enfasi tridentina sul ministero della Parola è il frutto di un rinnovato clima ecclesiale; la riforma cattolica vi riconoscerà il cammino per un ritorno ad una autentica vita cristiana ed apostolica. Una singolare espressione di questa strategia apostolica saranno i catechismi. Il più importante è il Catechismus Romanus seu Catechismus ex decreto concilii Tridentini ad parochos Pii Quinti Pont. Max. iussu editus che offre una guida autorevole a presbiteri chiamati ad essere il perno del rinnovamento pastorale tramite il ministerium verbi et sacramentorum. Di rilievo è anche l’organizzazione di questo Catechismo che, rifacendosi ad una tradizione patristica, organizza il suo materiale attorno al simbolo della fede o Credo, ai sacramenti, al decalogo ed al Padre nostro.

    Il “catechismo” si imporrà come un genere letterario decisivo per la comunicazione della fede; per quanto ne esistessero già in precedenza come il Libretto della dottrina cristiana (1473) attribuito a Sant’Antonino di Firenze, sarà il periodo post-tridentino a dare ampia diffusione a questo genere di comunicazione della fede. Per quanto riguarda l’Italia, i testi di R. Bellarmino – Dottrina cristiana breve (1597) e Dichiarazione più copiosa della dottrina cristiana (1598), composti su richiesta di papa Clemente VIII – saranno tra i più usati. Ricordo anche il Compendio della dottrina cristiana (1765) di Mons. M. Casati, vescovo di Mondovì. I catechismi hanno svolto un grande compito di evangelizzazione sia per l’istruzione cristiana che per la formazione morale; non diffondono solo un contenuto ma impongono anche una metodologia dell’azione catechistica che D. Guzman, Modo per insegnar con frutto la dottrina cristiana del P. Diego Gosman (1585) fa risalire alla missione della Chiesa e D. de Ledesma, Modo per insegnar la dottrina cristiana (1573) riconduce addirittura a Gesù Cristo e agli apostoli. Nasceranno così le scuole della dottrina cristiana, le confraternite della dottrina cristiana che contribuiranno al cammino formativo delle comunità.

    Questi testi e questa prassi è alla base di un vivace rinnovamento pastorale, di una vera e propria rievangelizzazione del popolo italiano. In effetti non sono tanto sistemi dottrinali ma compendi delle dinamiche e degli atteggiamenti indispensabili per la vita cristiana; ne viene una prassi che porta in primo piano la fede, la traduce in vita con i sacramenti ed i comandamenti e fa del “Padre nostro” il fondamento della preghiera e della speranza escatologica. Questo schema, voluto dal Catechismo Romano fa della fede e della vita sacramentaria il fondamento di una ecclesiologia che sospinge i credenti ad una vita guidata dalla preghiera e dall’impegno morale e animata dalla speranza escatologica.

    Assieme ai catechismi, vanno ricordate le missioni popolari, momenti fondamentali di quella pastorale parrocchiale che doveva affiancarle e prolungarle. Queste missioni ad intra erano forme organizzate e metodiche di predicazione straordinaria tenute da “missionari” con il consenso dell’Ordinario; il loro scopo era il rinnovamento della vita cristiana perseguito attraverso l’esposizione delle principali verità della fede ed il ricorso a celebrazioni liturgiche e devozionali. In questo modo chiamano ad una sincera conversione del cuore, ad un rinnovato impegno morale, ad una seria ricezione dei sacramenti della Riconciliazione e della Eucaristia e ad un migliore esercizio delle opere di carità. Il costituirsi di “confraternite” e “asso­ciazioni” ne sarà il frutto e dovrà favorire la perseveranza di questo cammino.

    Sorte nella seconda metà del ’500, hanno una origine non del tutto chiara. Alcuni ne vedono l’inizio negli Esercizi di Ignazio di Loyola e indicano P. Silvestro Landini (†1554) come il primo ad averli utilizzati come metodo per le missioni popolari; altri ne indicano l’origine nelle Quarantore che i cappuccini diffondevano in Europa negli ultimi decenni del cinquecento; altri ancora ne indicano l’autore in Vincenzo de’ Paoli (†1660). Due cose sono sicure. La prima è la loro diversità dalla missione itinerante degli ordini mendicanti che si rifacevano alla missio data loro dai papi; la seconda riguarda la loro collocazione sullo sfondo del rinnovamento e della cura pastorale nata nel solco della Riforma cattolica dopo Trento. Mentre la predicazione francescana era una predicazione evangelica, spesso a sfondo etico, le “missioni popolari” affrontano in modo altrettanto semplice i temi del peccato e della grazia, del senso della vita e dei novissimi, dei sacramenti e delle opere caritative.

    Comunemente note come “missioni ad intra” o “missioni popolari”, saranno sostenute da gesuiti, cappuccini, lazzaristi e dagli Oblati di Sant’Ambrogio, fondati a Milano (1578) da S. Carlo Borromeo proprio per questo. Erano predicazioni accompagnate da processioni penitenziali e gesti di riconciliazione, da roghi di libri riprovevoli e di simboli magici chiusi dal bacio riparatore al crocifisso, da confessioni e comunioni generali che davano alla predicazione un tono emotivo e drammatico che mirava a rendere le persone partecipi del loro cammino di conversione. Tra i più noti predicatori di queste missioni, si possono ricordare Pietro Antonio Spinelli (+1615), Francesco Pavone (+1637), Pietro Gravita (+1658), Paolo Segneri senior (+1694), Giovanni Pietro Pinamonti (+1703), Francesco de Geronimo (+1716). Le figure più note sono però tre santi: san Leonardo da Porto Maurizio (+1751), san Paolo della Croce (+1775), e sant’Alfonso M. de’ Liguori (+1787). Alcuni testi, come Il zelo apostolico nelle sante missioni (1720) di Amedeo di Castrovillari o Il cristiano instruito nella sua legge. Ragionamenti morali (1687) di P. Segneri ci permettono di comprenderle a fondo.

    Se la diffusione delle idee della rivoluzione francese rappresentò un periodo di stasi, le missioni popolari ripresero con rinnovato vigore dopo il Congresso di Vienna (1816). Ne è indice la letteratura che riprende copiosa. Basta richiamare al riguardo il Metodo delle Sante Missioni (1819) di Gaspare del Bufalo, il Direttorio sacro per uso delle Sante Missioni (1835) a cura dei Padri Passionisti, il Metodo pratico degli esercizi di missione per uso della Congregazione del SS. Redentore (1856) di C.M. Berruti e La Missione o temi facili e popolari dettati negli esercizi e nelle missioni (1885) di F. Giordano.

    Il primo Ottocento: la risposta religiosa della carità. La riforma tridentina mantiene un ruolo anche nell’Ottocento, prima dell’unità d’Italia e non cessa nemmeno la sua influenza con il Vaticano I. Resta il fatto che l’ottocento conosce un complesso movimento sociale e culturale di reazione agli eccessi giacobini della rivoluzione francese che mira a restaurare l’ordine precedente sulla base dei principi tradizionali. È appunto la Restaurazione. Lo sforzo per superare lo choc della rivoluzione ed i suoi disastrosi effetti sull’impianto tradizionale dei governi e della società si esprime nel ritorno ai modelli passati, nella ripresa di ciò che si era mantenuto saldo fino ad allora: è un atteggiamento difensivo, la cui posta in gioco è l’accoglienza o il rifiuto della Weltanschauung moderna. Oggi siamo in grado di formulare una critica più puntuale delle tesi illuministiche; allora non era così. L’illuminismo appariva una concezione globale della vita contrapposta alla fede; là dove la coscienza era l’unica origine del sapere e della scienza, non vi era spazio per la fede: andava relegata nel mito.

    Possiamo parlare di una triplice sfida: culturale, sociale e teologica. La sfida culturale è legata alla contrapposizione tra le forme indiscusse della vita ecclesiale e sociale del passato e le nuove linee dinamiche che spingono verso una vita orientata in base alla razionalità e alla libertà. In pratica è qui sottesa una nuova antropologia, generatrice di una nuova società. Una risposta di pura riaffermazione di principi era destinata ad essere inutile; solo una nuova, diversa identità religiosa poteva pensare di riproporsi come esperienza viva e ricca di significati. La sfida sociale non chiede solo scuole, ospedali, ricoveri ed iniziative simili ma esige di sapere se queste permangono all’interno di un quadro autoritario e paternalistico o se riescono a rendere ragione al clima di emancipazione mostrando nella responsabilità delle persone il criterio ultimo di ogni obbligatorietà sociale. La sfida teologica poi vedeva come fosse la stessa Chiesa ad essere in gioco. La lotta al gallicanesimo ed all’ultramontanismo aveva rafforzato l’unità della chiesa ma l’avevano fatto in termini giuridici e istituzionali, ponendo la questione dei limiti propri del centralismo ecclesiastico e delle legittime autonomie delle chiese; la lotta al giansenismo aveva riproposto la tematica della vera interiorità cristiana e del senso dei sacramenti.

    Nel 1848 usciva il lavoro di Rosmini Delle cinque piaghe della Santa Chiesa: a fondamento del suo riformismo, l’autore non poneva una astratta religione interiore ma la realtà del popolo cristiano che Rosmini radicava profondamente nei sacramenti e nella comunione di culto e di vita con i suoi pastori. Nella stessa direzione andrà il pensiero della scuola romana, il cui frutto più autorevole sarà la Costitutio De Ecclesia Christi secunda: Tametsi Deus presentata come base di discussione ai padri del concilio Vaticano I; attraverso l’immagine del Corpo mistico, questa insisteva sulla connessione organica tra i membri della chiesa ed indicava la logica ultima della vita ecclesiale in una prospettiva di vicendevole servizio. Questa saldezza interna, spirituale e disciplinare, permette di impostare su basi nuove sia la problematica dell’unità sia quella del rapporto tra Chiesa e stato, stretto tra le forme tradizionali del giurisdizionalismo che sopravvivevano nel giuseppinismo austriaco e facevano perno su uno stato confessionale e quel liberalismo che, al contrario, separava radicalmente chiesa e stato.

    La risposta più pertinente verrà dalla vita religiosa. Dopo il Congresso di Vienna, gli stati cercavano una certa collaborazione con la chiesa subordinandone però l’intera struttura alle preminenti esigenze statali: il placet statale alle nomine ecclesiastiche, il compito assegnato alle parrocchie in vista di una formazione etica di base, la riduzione degli ordini religiosi sulla base della utilità sociale, l’inquadratura statale delle iniziative caritative ed assistenziali; questa logica tendeva a far coincidere doveri religiosi e doveri civili così da portare in primo piano il valore civile e sociale della religione e non il suo significato soprannaturale. Questa dimenticanza del carattere integrale e profondo della persona valorizzava sì l’aspetto sociale e pubblico della fede ma, al di là di alcuni immediati vantaggi, non sapeva rendere ragione né della autonomia spirituale della chiesa e della sua vitalità interiore né del valore della coscienza e della sua libera scelta di credere.

    In questo contesto si deve valorizzare la risposta della vita religiosa. La nascita di istituti maschili e femminili è in questo periodo sorprendente ma quello che interessa è il suo volto nuovo: pur mantenendosi nel solco del passato, persegue una migliore corrispondenza ai bisogni sociali, una maggiore apertura alle classi povere. Quello che emerge è la capacità di servire Dio nel bisognoso, è una diversa concezione della santità che si pensa come contributo creativo per una società che non si vuole abbandonare a forze non-cristiane. Abbiamo così una singolare immersione nel sociale; al di là delle tranquille relazioni conventuali, è nel ritmo della scuola e nel complesso dell’assistenza che va arrischiato l’esercizio dell’amore di Dio e del prossimo. La santità assume il volto del rifiuto di una religiosità puramente interiore; rinasce una spinta evangelizzatrice che rifugge dal farsi pigrizia ripetitiva per arrischiarsi con tutta la propria profetica novità dentro le questioni quotidiane e domestiche della vita della gente. La vicinanza al popolo è, insieme, proclamazione dei valori di sempre e rifiuto di abbandonare la fede ad una rassegnata subalternità a modelli esistenziali altrui. Non si tratta di filantropia ma di un modo diverso, cristiano e apostolico, di collocarsi nel sociale; in questa prospettiva prenderà singolare rilevanza la figura cristiana e religiosa della donna: è una donna che esce di casa, che esce dalle mura domestiche o da quelle sicure della clausura e dei conventi per rivendicare il diritto e l’onere di vivere e di servire il vangelo.

    Conclusioni. Alcune conclusioni si impongono. Per un verso risulta evidente che l’evangelizzazione dell’Italia è un continuum mai esaurito: appartiene alla responsabilità di ogni generazione cristiana; appartiene alla responsabilità di ogni generazione trovare i metodi per comunicare il vangelo e renderlo significativo nelle diverse problematiche. In questo impegno il nesso rivelazione-fede non si esaurisce nei termini intellettuali di una comprensione di verità soprannaturali e dogmatiche ma chiede di essere ripensato in rapporto alla realtà storica del vivere umano; l’evento della rivelazione si dà in una storia ed è effettivo solo là dove illumina e determina l’interlocutore a cui si rivolge. La storia dell’evangelizzazione dell’Italia rende ancora più evidente la nostra responsabilità di cristiani di questa terra.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO