Questione sociale – vol. II

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    Autore: Andrea Ciampani

    Nell’età contemporanea la “questione sociale” è stata suscitata dalla grande trasformazione socio-economica e politica collegata alla rivoluzione industriale e al conseguente processo d’industrializzazione che dalla Gran Bretagna si diffuse nel resto del mondo, con tempi e dinamiche differenti, tra la fine del XVIII secolo e la seconda metà del XX secolo. Durante la fase di avvio del capitalismo storico, infatti, alle nuove forme di produzione e di organizzazione del lavoro si accompagnò anche una peculiare posizione di subordinazione del lavoro dipendente; contemporaneamente, si affermarono forme di sfruttamento del proletariato creatosi nel passaggio dalla vita rurale a quella urbana e operaia. L’affermarsi nelle élites liberali di una visione economica–sociale che considerava il “lavoro” come merce, da ricondursi a una semplice variabile del costo del lavoro e ad uno degli elementi quantitativamente valutabili nella produzione, prescindendo dalla dignità della persona prestatrice d’opera e dal significato del suo apporto personale, accentuò il disequilibrio del potere sociale presente nei rapporti tra domanda e offerta di lavoro. Emerse progressivamente, così, un nuovo fenomeno sociale di disuguaglianza tra le classi borghesi e finanziarie, detentrici dei capitali e dei mezzi di produzione, ed i soggetti che vedevano la cessione delle loro energie fisiche e/o intellettuali ricompensata col minore salario possibile. In tale contesto si sviluppò, dunque, un movimento operaio e sociale di emancipazione materiale e culturale perché lavoratrici e lavoratori potessero uscire da condizioni di miseria e di degradazione individuale e familiare, in cui si sperimentava la precarietà della vita umana mercificata. Il formarsi di una “questione sociale”, perciò, trova alimento tanto nella cultura del lavoro della società contemporanea quanto nella struttura economica produttiva dei suoi processi di sviluppo.

    Il diffondersi della rivoluzione industriale tra Ottocento e Novecento, inoltre, era accompagnato dal simultaneo affermarsi delle rivoluzioni politiche che rivendicarono le libertà costituzionali e la cittadinanza democratica. Nella prima metà del XIX secolo, peraltro, apparve evidente che l’esperienza di marginalità delle sempre più numerose classi lavoratrici coinvolte nel mutamento produttivo e sociale non trovava adeguata via di superamento all’interno del liberalismo politico che si sviluppava in tale periodo. Si promossero, così, importanti iniziative di riformismo sociale, concepite anche dai governi per ridurre od evitare il conflitto sociale, e rilevanti movimenti politici alimentati da ideologie che, facendo leva su quel conflitto, intendevano scardinare il sistema di potere politico borghese. Le dinamiche della “questione sociale”, tuttavia, non possono essere adeguatamente comprese all’interno di tale dimensione politica; esse, piuttosto, vanno ricondotte all’interdipendenza delle proposte avanzate da molteplici attori sociali ed istituzionali coinvolti nel processo d’industrializzazione, alla luce di diverse e contrastanti visioni dei rapporti economici, sociali e politici.

    La “questione sociale”, infatti, s’impone all’opinione pubblica quando emerge nella vita sociale la consapevolezza della radicale trasformazione del vecchio ordine dei rapporti economici, dell’esigenza di operare efficacemente nel superamento dell’ingiustizia nei rapporti di lavoro e della possibilità di perseguire adeguate strategie per conseguire tali obiettivi. Al centro della “questione sociale”, dunque, si pone l’affermarsi di una rappresentanza sociale degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso associazioni fondate sulla libera adesione solidale delle persone che lavorano, come è stata storicamente realizzata dai sindacati costituiti per sviluppare sul piano privato-collettivo un’efficace azione contrattuale e negoziale. Dopo la fase più critica e conflittuale della “questione sociale” nei Paesi industrializzati, dunque, il progressivo affermarsi di un libero sindacalismo, indipendente dagli Stati e dai partiti, nella seconda metà del Novecento ha consentito di delineare con maggiore chiarezza il rapporto tra ampliamento del processo democratico e partecipazione sociale alla formazione delle decisioni socio-economiche. Alla fine del secondo millennio, lungi dall’essersi chiusa con l’evolversi della cultura del lavoro e delle dinamiche economiche della società globale, la “questione sociale” si caratterizza per la capacità degli attori della società civile di orientare l’economia di mercato alla giustizia e alla coesione sociale, concorrendo alla realizzazione di un welfare attivo e partecipando alla governance delle possibilità produttive sulla base della libertà e della solidarietà.

    In tale profilo storico va collocata l’evoluzione dell’opera della Chiesa e dei cattolici in Italia. Dopo il 1861 le trasformazioni del mondo del lavoro nel lento processo d’industrializzazione italiano produssero i primi sintomi di malessere sociale in Piemonte, in Lombardia, in Toscana, in Emilia, nel Napoletano e in Sicilia, legati ai mutamenti introdotti nelle attività tessili, nello sviluppo dell’edilizia e nelle miniere di zolfo. Nello stesso tempo, nel settore tipografico e in quello serico emergevano associazioni professionali e leghe di “resistenza”, che alla fine degli anni Settanta già apparivano assumere caratteri sindacali. Nelle campagne, che occupano ancora nel 1881 più della metà dei lavoratori attivi in assai differenziate condizioni di lavoro, si manifesta la presenza di quella drammatica questione agraria che, con gravi riflessi socio-politici, caratterizzerà l’intera storia nazionale. Negli ultimi decenni del secolo, la “questione sociale” iniziò a imporsi nel dibattito pubblico anche in connessione ai moti ribellistici delle “boje” nelle campagne settentrionali durante la crisi del 1882, alla repressione dei fasci siciliani e dei movimenti anarchici in Lunigiana nel 1894, e all’esplosione di tumulti sociali nelle città del 1898, mentre si moltiplicavano gli scioperi e sorgevano accanto alle leghe di resistenza le prime Federazioni sindacali nazionali e le Camere del lavoro. In questi anni, peraltro, si incrementò l’inurbamento e si sviluppò il fenomeno migratorio verso l’Europa e le Americhe, destinato a toccare il suo apice nei primi anni del Novecento.

    La presenza della Chiesa negli Stati preunitari e nel Regno d’Italia (il censimento nazionale del 1861 registrava una popolazione che si dichiarava cattolica nella sua generalità) aveva alimentato un profondo impiego delle Opere pie e delle attività di beneficienza per fronteggiare pauperismo e mendicità. Misurandosi con la trasformazione degli ordinamenti di Antico Regime e con la cultura liberale dei nuovi gruppi dirigenti nazionali, anche la Chiesa italiana fu chiamata a confrontarsi con l’affermazione della società moderna nel suo complesso; in tal senso, l’enciclica di Pio IX Quanta cura e l’accluso Sillabo del 1864 può essere considerata a buon diritto la prima enciclica sociale. Mentre la politica ecclesiastica dei governi sabaudi, prima e dopo la costituzione del Regno d’Italia, si rivolgeva contro la “manomorta”, imponendo la conversione dei beni immobili degli Enti morali ed ecclesiastici, l’indemaniamento delle confraternite, la pubblicizzazione delle Opere pie, si avviò un processo di aggregazione del laicato cattolico italiano intorno al magistero pontificio, come segnala la nascita nel 1868 della Società della Gioventù Cattolica, alle origini dell’Azione Cattolica.

    Dopo la Breccia di Porta Pia nel 1870, in stretta connessione con la questione romana sollevata dalla protesta pontificia, nel 1874 si costituì l’Opera dei Congressi per sostenere una presenza pubblica dei cattolici nella società civile; al suo interno sorse una Sezione dell’economia sociale cristiana, volta a coordinare comitati parrocchiali, casse rurali e società operaie, che promosse nel 1889 un’Unione cattolica di studi sociali per formare la cultura degli operatori cattolici. Si organizzò l’impegno sociale cattolico nelle opere di assistenza e d’istruzione (col sostegno del clero diocesano e degli ordini religiosi, alcuni dei quali fioriti proprio nell’Ottocento), dell’assistenza mutualistica, della cooperazione e del credito. Le classi dirigenti cattoliche favorirono il passaggio dai monti frumentari alle Casse rurali, sostennero la diffusione delle Banche popolari e delle Casse di risparmio, non esitarono a dar vita propri istituti bancari (nel 1888 la Banca San Paolo di Brescia, nel 1895 il Banco Ambrosiano di Milano, nel 1896 il Piccolo Credito Romagnolo a Bologna). Anche l’impegno sociale del cattolicesimo italiano fu incoraggiato dalla promulgazione nel maggio 1891 dell’enciclica di Leone XIII Rerum Novarum, che denunciava i mutamenti che agitavano le popolazioni nella società moderna. In tale documento erano contenute le linee di sviluppo di un magistero sociale che si sviluppò, attraverso le encicliche di Pio XI, di Giovanni XXIII e di Paolo VI, fino alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II nel 1991. Nell’enciclica leoniana, infatti, in relazione allo sviluppo della persona nelle comunità naturali della società civile, si delineavano l’opportuno dispiegamento dell’associazionismo professionale operaio e l’esigenza di ricomporre i conflitti di lavoro in una prospettiva di ordine sociale: nei differenti contesti e periodi del secolo seguente, personalità e correnti del movimento sociale cattolico enfatizzarono ora l’uno, ora l’altro aspetto.

    In Italia, dopo i falliti tentavi degli anni Ottanta dell’Ottocento per superare il non expedit e reinserire il cattolicesimo politico negli istituti parlamentari, il movimento cattolico venne a caratterizzarsi sempre più per una politicizzazione della sua diffusa presenza sociale. In tal senso, anche i cattolici vennero coinvolti nel processo che vedeva il movimento socialista e l’approccio liberale dell’età giolittiana ricondurre l’esplosione della questione sociale, segnata da un aspro scontro di classe, alla semplice prospettiva politica di introdurre le masse nello Stato, mortificando il dinamismo dei soggetti sociali. Un riflesso di tale problematica si manifestò nelle divisioni che non tardarono a manifestarsi circa il senso della “benefica azione cristiana a favore del popolo” promossa dal movimento democratico cristiano d’inizio secolo e all’interno dell’Unione economico sociale istituita nel 1905 dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi, mentre la riflessione sulle dinamiche economico- sociali, alimentate dal pensiero di Giuseppe Toniolo, trovarono sbocco nei convegni delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, avviate nel 1907. Nelle trasformazioni produttive provocate della prima guerra mondiale e nel conflitto sociale dell’immediato dopoguerra (durante le occupazioni delle terre e le lotte operaie che culminarono alla fine del “biennio rosso” con l’occupazione delle fabbriche del 1920), restava aperto il problema del rapporto dell’azione sociale dei cattolici con la loro organizzazione confessionale e la loro azione politica, dal 1919 rappresentata dal Partito Popolare Italiano promosso da don Luigi Sturzo. L’associazionismo sociale “bianco” (che vide tra i suoi leader Achille Grandi, Guido Miglioli e don Carlo De Cardona) vide restringersi il campo d’azione durante la formazione del regime fascista, mentre si riducevano le libertà politiche e si tentava la costruzione dello stato totalitario. La tutela per l’azione religiosa derivante dai Patti Lateranensi del 1929 incentivò il carattere morale dell’azione sociale cattolica, che si concentrò in un’indipendente formazione culturale.

    Alla caduta del fascismo e alla fine della guerra mondiale, così, la classe dirigente cattolica poteva elaborare un’azione di ricostruzione sociale del Paese, svolgendo un ruolo importante per far ottenere e gestire aiuti internazionali destinati all’assistenza delle popolazioni più misere e ad avviare la ripresa produttiva nazionale. Nell’Italia repubblicana, mentre i governi della Democrazia cristiana consentivano di misurare l’impegno riformatore di un cattolicesimo sempre più articolato sul piano sociale, come accadeva con la Confcooperative e con le Associazioni Cristiana dei Lavoratori Italiani; sul piano sindacale i cattolici italiani aderirono soprattutto alla Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori, organizzazione non confessionale. Con le sue molteplici associazioni, laiche e religiose, il mondo cattolico accompagnò la trasformazione dell’Italia in un Paese industriale, con la conseguente emersione di nuovi disagi, favorendo l’istruzione e l’educazione delle classi popolari, condividendo le rivendicazioni sociali nelle grandi imprese e alleviando l’emigrazione meridionale verso le aree industrializzate del Nord. Nei conflitti industriali degli anni Sessanta si rinnovò l’impegno dei cattolici perché si riconoscesse dignità al lavoro, valorizzando l’azione dei soggetti sociali e l’autonomia della società civile organizzata dal collateralismo con i partiti politici. Il nuovo malessere provocato dalla società dei consumi e dai suoi limiti, riletto anche alla luce del magistero del Concilio Vaticano II, sollecitò un complessivo ripensamento dell’impegno cattolico a sostegno dei rapporti familiari e sociali, collegandosi con la Chiesa locale o sviluppando nuove forme associative. I sempre più rilevanti flussi d’immigrazione e le nuove marginalità nel nostro Paese, inoltre, hanno spinto il mondo cattolico a sottolineare una rinnovata azione sociale a sostegno delle categorie sociali più deboli. Negli ultimi decenni del ’900, così, i cattolici italiani hanno promosso forme responsabili di associazionismo e di rappresentanza sociale nella fase di ripensamento dello Stato assistenziale, sollecitato dalle nuove dinamiche del capitalismo contemporaneo, anche realizzando opere economico-sociali volte a contrastare il dirigismo con la sussidiarietà e ad orientare socialmente l’economia con la partecipazione degli attori sociali.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO