Ebrei – vol. II

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    Autore: Anna Foa

    I rapporti tra la Chiesa e gli ebrei, già peggiorati a partire dall’avanzare della secolarizzazione, nella seconda metà del Settecento, e poi dall’emancipazione concessa agli ebrei italiani da Napoleone, toccarono il loro momento peggiore con la Repubblica Romana del 1848 e poi con la fine del potere temporale dei papi e il compimento dell’Unità italiana. Un contesto in cui la Chiesa, sulla difensiva e segregata in Vaticano, vede negli ebrei i simboli della modernità, gli eredi della Rivoluzione francese e della scristianizzazione, i fautori dell’odiato progresso, della tolleranza e dell’indifferentismo religioso. Di qui, il taglio netto da parte della Chiesa di quella sorta di cordone ombelicale che aveva legato, nei secoli, Chiesa ed ebrei. “Non più figli, ma cani latranti nelle strade”, definisce gli ebrei Pio IX dopo il 1870. La polemica contro l’uguaglianza civile e politica ottenuta dagli ebrei con l’unità italiana era destinata ad inasprirsi ulteriormente sotto il pontificato di Leone XIII e a trascinarsi anche nel nuovo secolo. L’uguaglianza degli ebrei violava per la Chiesa il principio base su cui si era regolata nei secoli la loro presenza, cioè quello della subordinazione, una subordinazione che andava intesa prevalentemente in senso teologico, come subordinazione dell’errore alla verità.

    Questa ostilità all’emancipazione, interpretata come l’inizio della presa del potere degli ebrei nella società, rappresenta il trait d’union tra il vecchio antigiudaismo a carattere religioso, privo di connotazioni razziali, e il nuovo antisemitismo legato all’idea del sangue e della razza. Perché il problema dominante del rapporto tra Chiesa ed ebrei era ormai quello dell’antisemitismo dilagante in gran parte d’Europa. Sarebbe riuscita la Chiesa, senza rinunciare al suo tradizionale antigiudaismo, a restarne del tutto immune? L’idea di una diversità naturale, razziale, dell’ebreo andava contro quella della conversione, che era ancora al cuore della dottrina sugli ebrei della Chiesa di Roma, e poneva una barriera al diffondersi di tesi troppo radicalmente razziste. In Italia le suggestioni del nuovo razzismo sul cattolicesimo, che pur ci furono, furono accompagnate non dalla mistica ariana, come in Germania, ma dalla ripresa e dalla riacutizzazione di antichi stereotipi della tradizione antigiudaica. Si trattava, comunque, di una rielaborazione degli antichi schemi, che rendeva l’immagine degli ebrei proposta dal mondo cattolico negli ultimi decenni dell’ Ottocento diversa da quella tradizionale e definibile più con il termine di “antisemitismo” che con quello di antigiudaismo.

    Gli stereotipi antigiudaici si rinnovano, come nell’attacco al Talmud, già messo all’indice dalla Chiesa nel Cinquecento, ed ora sottoposto a rinnovate accuse. Esse partirono da un sacerdote cattolico, professore a Praga, August Rohling, che pubblicò nel 1871 un libro, L’ebreo talmudico, dove si proponeva l’idea molto “moderna” di un complotto ebraico per dominare il mondo e soprattutto dove si sosteneva che il Talmud prescriveva l’uccisione rituale di bambini cristiani. Il libro di Rohling gettò non senza ragione nel panico le comunità ebraiche dell’Est Europa, dove numerose erano le accuse di omicidio rituale. In Francia l’Ebreo talmudico veniva tradotto con una prefazione di Drumont, il leader dell’antisemitismo cattolico razzista. Quanto alla Chiesa, non solo non lo condannò, ma ne prese le distanze con ritardo, e solo dopo che un processo aveva sollevato seri dubbi sulle conoscenze talmudiche di Rohling. In Italia, nella campagna antiebraica e nella ripresa dell’antica accusa di omicidio rituale si distinsero, insieme con molta stampa cattolica locale, l’organo dei gesuiti La Civiltà Cattolica, il milanese L’Osservatore Cattolico, diretto da don Davide Albertario, e L’Osservatore Romano. La Civiltà cattolica sostenne, in una violenta campagna di articoli firmati da Padre Giuseppe Oreglia la realtà di queste accuse, facendone la storia nei secoli. E quando, nel dicembre del 1899, un gruppo di anglicani e cattolici inglesi, tra cui l’arcivescovo di Westminster, scrisse al Papa Leone XIII chiedendogli di ribadire ripubblicandola la Bolla con cui Innocenzo IV, nel 1247, aveva sostenuto l’assurdità di simile accusa, Leone XIII passò il caso al Santo Uffizio, che nei primi giorni del nuovo secolo diede una risposta negativa alla richiesta. La Chiesa non sosteneva ufficialmente la realtà dell’accusa, ma rifiutava di confutarla. Sul finire del secolo, dopo il trauma provocato dall’affaire Dreyfus, in cui la Chiesa aveva sostenuto a lungo il partito degli antidreyfusards, e mentre un sindaco cattolico e dichiaratamente antisemita, Karl Lueger, governava su Vienna, i rapporti tra Chiesa e ebrei in Italia come nel resto dell’Europa cattolica toccavano uno dei punti più bassi della loro storia.

    La polemica antiebraica della Chiesa sembra attenuarsi intorno al 1903, dopo l’avvento al soglio pontificio di Pio X: la Civiltà Cattolica cessa la sua campagna antisemita, e nel 1905 lo stesso pontefice condanna i pogroms in Russia. Ma negli anni della Grande Guerra, dopo la Rivoluzione russa e la dichiarazione Balfour, l’antiebraismo divampa nuovamente nella Chiesa in forma assai radicale, volta a identificare ebraismo, bolscevismo, sionismo, massoneria. Era il cosiddetto “partito integrista”, ostile ad ogni forma di modernismo, legato alla destra radicale dell’Action française e ai cristiano-sociali austriaci, i cui più noti esponenti erano Umberto Benigni e Ernest Jouin, fra i maggiori diffusori in Europa dei “Protocolli dei savi di Sion”. Esso non rappresentava tuttavia, ormai che una parte della Chiesa, come dimostra la condanna dell’ antisemita Action française, nel 1926, da parte di Pio XI e i mutamenti di rotta di vari organi di stampa cattolici, tra cui la rivista dei gesuiti francesi Etudes. Questo cambiamento trovò il suo culmine nella Società degli Amici di Israele, nata a Roma nel 1926 su iniziativa del cardinale olandese Wilhelm von Rossum, che sosteneva una linea di netta ed aperta condanna dell’antisemitismo, pur non senza suggestioni conversionistiche. Ma la situazione in seno alla Chiesa era complessa, tanto che nel 1928, pur condannando contemporaneamente, e per la volta, l’antisemitismo, il Sant’Uffizio sciolse la Società degli Amici di Israele.

    L’inizio degli anni Trenta, con l’avvento al potere del nazismo e con la nascita di uno Stato razziale, mise la Chiesa di fronte ad un’ideologia del sangue, della razza e del primato ariano lontanissima dai suoi principi. L’enciclica Mit Brennender Sorge, del 1937, pur non nominando la persecuzione antisemita, rappresentò una ferma condanna del razzismo. Ma l’idea che potesse esistere un antisemitismo moderato, spirituale ed etico, lontano dagli eccessi nazisti, era diffusa in una parte almeno del mondo cattolico come della Chiesa, e fu, secondo una parte rilevante della storiografia, responsabile della debolezza complessiva dell’atteggiamento della Chiesa di fronte al nazismo che pur percepiva non solo come antisemita ma anche come anticristiano. D’altronde, non mancarono nella Chiesa e nel mondo cattolico tentativi di conciliare cattolicesimo e razzismo antisemita. In Italia, l’esponente più importante di questa linea fu il rettore dell’Università Cattolica di Milano, Padre Agostino Gemelli, al centro, tra il 1938 e il 1939, di un tentativo fallito da parte dell’ala del fascismo più oltranzista rappresentata da Roberto Farinacci, di sottolineare le convergenze tra razzismo e cattolicesimo, o se preferiamo tra antigiudaismo e antisemitismo.

    Nello stesso momento, le leggi razziste del 1938 introducevano anche in Italia l’antisemitismo di Stato e ricacciavano gli ebrei italiani in uno statuto giuridico simile a quello del periodo che aveva preceduto l’emancipazione. Di basso profilo fu la reazione della Chiesa, che si limitò a protestare pubblicamente sulle norme che violavano il concordato, cioè quelle sui matrimoni misti. Sul terreno diplomatico, ed anche sul giornale della Santa Sede, L’Osservatore Romano, la reazione fu più decisa ma ugualmente inefficace di fronte alla rigidità con cui il regime difese la svolta razzista. Nel febbraio del 1939, Pio XI moriva, e il suo segretario di Stato, Eugenio Pacelli, diveniva papa con il nome di Pio XII: Pio XI lasciava un’enciclica non ancora resa pubblica di netta condanna del razzismo, la Humani Generis unitas, che il nuovo pontefice preferì non pubblicare. Il mondo si avviava alla guerra, e la Santa Sede era preoccupata di salvaguardare al massimo la sua neutralità, di non esporre i cattolici dei territori sotto il nazismo alla persecuzione, di manovrare, come nella sua tradizione, attraverso discrete trattative diplomatiche e non di farsi espressione pubblica ed aperta di una funzione profetica, quella di denunciare il nazismo, che le avrebbe precluso ogni libertà di movimento. Furono queste le posizioni che Pio XII avrebbe continuato a mantenere nel corso della guerra: da una parte, questo permise alla Chiesa di salvare molti ebrei in pericolo, di nasconderli a Roma e altrove in Italia e in Europa in chiese e parrocchie, di impedire che la città di Roma fosse teatro diretto della guerra. Dall’altra, sono i suoi “silenzi”, termine usato per primo dallo stesso papa durante la guerra, su cui ancora la discussione resta accesissima tra quanti accusano Pio XII di non aver fatto quanto in suo potere per fermare lo sterminio degli ebrei europei e quanti invece lo difendono da queste accuse. E’ questo il contesto storiografico che fa da sfondo alla proposta di beatificazione del pontefice.

    Il 16 ottobre 1943, oltre mille ebrei furono prelevati dai nazisti a Roma, “sotto le finestre” del pontefice. Ancora una volta, prevalse la linea del compromesso e della diplomazia. Dopo il 16 ottobre, si moltiplicarono le iniziative vaticane di solidarietà concreta, in cui furono direttamente coinvolte le massime personalità di Curia e di cui il pontefice non poteva non avere piena conoscenza. I conventi e le chiese si riempirono di ebrei, di partigiani, di soldati disertori, tutti nascosti. Era un momento in cui “mezza Roma nascondeva l’altra metà”. Migliaia di ebrei dovettero la salvezza a questa politica. Ma essa ebbe un prezzo alto, il silenzio politico sullo sterminio.

    Sul lungo periodo, la Shoah ebbe come conseguenza una profonda trasformazione delle relazioni tra il mondo cristiano e gli ebrei. Ma anche questo cambiamento, come tanti altri in quel difficile dopoguerra, non fu immediato. Sui tempi brevi, prevalsero le vecchie concezioni, riemerse il tradizionale antigiudaismo della Chiesa, sommerso ma non cancellato dall’antisemitismo razziale. Non si trattava di residui del passato, ma di una linea politica e teologica precisa, che veniva autorevolmente riaffermata. Erano posizioni che il mondo cattolico non avrebbe certo abbandonato subito, nemmeno quando le dimensioni immani di quello che era avvenuto sarebbero divenute chiare. Sono anni, questi, in cui tra i cattolici sono poche le voci che si alzano ad ammonire sui pericoli della tradizione dell’odio e a mostrare l’urgenza di sostituirla con una nuova visione dei rapporti con gli ebrei. La necessità per la Chiesa, di sbarazzarsi della vecchia teologia antigiudaica, e di iniziare un’opera di insegnamento del rispetto che sostituisse quell’insegnamento del disprezzo di cui si erano viste le terribili conseguenze, fu affermata già nel 1947 a Seelisberg, in Svizzera, in una conferenza internazionale sull’antisemitismo organizzata da personalità ebree e cristiane di varie confessioni. La conferenza, prendendo atto dell’esplosione di antisemitismo che aveva condotto alla persecuzione e allo sterminio milioni di ebrei, pubblicò un appello rivolto alle Chiese cristiane perché evitassero di formulare nell’insegnamento e nella predicazione qualsiasi ostilità nei confronti degli ebrei. Il principale ispiratore delle tesi di Seelisberg fu lo storico ebreo francese Jules Isaac, che nel 1949 presentò a Pio XII, in un’udienza pubblica durata pochi minuti, l’appello finale della conferenza, noto come “I dieci punti di Seelisberg”, senza che ne seguisse alcun effetto. Nel 1950, Isaac partecipò alla fondazione dell’Amicizia ebraico-cristiana in Italia: iniziava così il dialogo fra cristianesimo ed ebraismo, un dialogo che preparò e precedette il Concilio e che ne venne poi fortemente stimolato e incoraggiato. Nel 1960, Isaac incontrò Giovanni XXIII, che lo mise in contatto con il cardinal Bea. Da questo incontro, sarebbe nata l’idea di portare nella discussione conciliare il rapporto tra Chiesa ed ebrei.

    Il documento fondamentale con cui venivano inaugurate le linee di una nuova teologia cattolica dell’ebraismo fu la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate, emanata dal Concilio Vaticano II il 28 ottobre 1965, a Concilio quasi ultimato. Due sono sostanzialmente le linee di trasformazione del rapporto con l’ebraismo su cui si muove nel suo importante paragrafo 4, che è quello dedicato agli ebrei: il primo, il più noto, e anche quello che ha suscitato la maggiore opposizione durante i lavori del Concilio, è la cancellazione della colpa collettiva del deicidio, che va nella direzione di togliere fondamento alle argomentazioni su cui era cresciuta la tradizione antigiudaica. Ma le formulazioni della dichiarazione sono assai più ampie dal punto di vista teologico, come rivela l’incipit del testo: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo”. L’adozione di un punto di vista di questo genere rappresentava una forte rottura nella immagine tradizionale della Chiesa degli ebrei e del loro ruolo nell’economia della salvezza e apriva molte possibilità di cambiamento nella teologia cristiana dell’ebraismo, anche se non sgombrava completamente il campo, a favore dell’idea di un’irrevocabilità dell’elezione degli ebrei, dell’antica teologia della sostituzione, secondo cui la Chiesa aveva sostituito Israele nell’elezione. Ma il ruolo particolare riconosciuto all’ebraismo lasciava aperta la possibilità di parlare di una sola alleanza, di cui il cristianesimo avrebbe rappresentato non una rottura ma un approfondimento,

    La questione su cui il dibattito iniziato con il Concilio ha portato a radicali cambiamenti è quella dell’antigiudaismo. La sua condanna è stata netta, ed altrettanto nettamente è stato riconosciuto il suo contributo a creare il clima di ostilità antiebraica che avrebbe consentito la Shoah. Una linea di autocritica e di richiesta di perdono che avrebbe trovato il suo compimento prima nella visita di Giovanni Paolo II nella Sinagoga romana nel 1986, che sarà seguita nel 2010 da quella del suo successore Benedetto XVI, e nel documento del 1998 Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, emanato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo: “Il fatto che la Shoah abbia avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei”. Su questa profonda revisione attuata dal Concilio si sarebbe innestata una vasta e continuativa opera di catechesi, di propaganda e di dialogo. Un dialogo sentito, non privo di momenti difficili e di tensioni, ma vivo e tuttora in atto.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO