Antigesuitismo – vol. I

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    Autore: Sabina Pavone

    L’antigesuitismo nacque contestualmente alla Compagnia di Gesù allorché il riconoscimento come ordine religioso da parte di Paolo III con la bolla Regimini militantis Ecclesiæ (1540) la rese oggetto di critiche proprio all’interno dell’establishment romano. La struttura peculiare della Compagnia – con l’abolizione della preghiera corale e di un abito distintivo – la fece apparire come un ordine “ermafrodito” (definizione di uno dei suoi più celebri detrattori, Etienne Pasquier): né secolare né religioso. Il quarto voto di obbedienza al papa circa missiones moltiplicò i timori di un’eccessiva autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica così come i dubbi sull’ortodossia di Ignazio di Loyola – accusato di contiguità con l’alumbradismo – insospettirono una parte della curia romana. Al tempo stesso, il ruolo assunto rapidamente nella Chiesa della Controriforma e la conseguente identificazione con Roma rese la Compagnia uno dei bersagli preferiti della propaganda protestante. Diversi tipi di antigesuitismo si vennero così a sommare, alimentati da contesti diversi ma propensi a utilizzare un arsenale polemico composto dai medesimi stereotipi: il desiderio di conquista del mondo, l’avidità di potere politico ed economico, la capacità di circonvenzione dei più deboli, la moralità assai dubbia e rilassata. Si trattò dunque di un fenomeno di lunga durata, non solo europeo ma globalizzato, poiché coinvolse tutti quei paesi nei quali i gesuiti esercitarono la loro influenza come confessori, educatori, teologi e missionari.

    In Italia le critiche alla Compagnia di Gesù vennero formalizzate nel 1564 dal vescovo Ascanio Cesarini in un libello dal titolo Novi advertimenti inviato al cardinal Saraceno. In quell’anno Pio IV aveva deliberato di affidare la gestione del nuovo Seminario romano proprio ai gesuiti e Cesarini, già personalmente in conflitto con i padri, attaccò la decisione pontificia che tollerava che il clero venisse formato da tedeschi e spagnoli, nient’altro cioè che da «eretici ed ebrei». Il carattere spiccatamente internazionale della Compagnia attirò dunque gli strali del vescovo e, forse per la prima volta, i gesuiti vennero definiti una «diabolica setta». Il pamphlet fece propri tutti quei temi declinati poi, insieme o separatamente, nei secoli successivi: la sete d’oro e dunque la scelta di favorire nell’accesso al noviziato i giovani di famiglie ricche, l’accusa di essere cristiani nuovi, il settarismo, la perversione sessuale, il desiderio di dominio del mondo, il disprezzo delle leggi comuni della Chiesa. Tali accuse si propagarono oltre i confini italiani e, su sollecitazione del cardinale Otto von Truchsess, Pio IV impegnò una commissione di cardinali per esaminarle: se i religiosi vennero discolpati, si suggerì però loro di scrivere un testo di chiarimento e fu così che prese forma, in quello stesso anno, l’Apologia Societatis Jesu contra episcopum Cæsarinum apud cardinales di Jerónimo Nadal (cf. Monumenta Historica Societatis Iesu, Nadal IV, 148-165), archetipo delle tante difese composte negli anni dai gesuiti per reazione ai molteplici attacchi subìti.

    Sin dal Cinquecento, d’altronde, lo scontro interno alla Compagnia fra un partito italiano e un partito spagnolo alimentò quello che altrove ho definito un “antigesuitismo gesuita”, fomentato da alcuni gesuiti italiani che videro con sospetto l’ingresso di figure appartenenti al mondo dei conversos. Benedetto Palmio – ex provinciale di Milano, assistente d’Italia dal tempo di Borgia e, dunque, una delle figure di maggior prestigio all’interno della gerarchia gesuitica – fu autore di un testo rimasto manoscritto dal titolo Descrittioni di alcune cause, dalle quali sono procedute le disgrazie con molti mali, et inconvenienti che tuttavia ci affliggono nella Compagnia (ARSI, Instit. 106, edito recentemente da Robert Maryks). Egli, nell’attaccare la «banda degli spagnoli» capeggiata da Dionisio Vázquez, tratteggiò del confratello una descrizione fortemente razzista che dai caratteri somatici faceva discendere una serie di conseguenze comportamentali. Lo stesso Palmio, nella sua Autobiografia, nominò poi un libello antigesuita inviato a Pio IV nel quale, pur non citandolo espressamente, è facile rintracciare il riferimento al testo del vescovo Cesarini: di fatto un gesuita, e non degli ultimi, faceva proprie le critiche di un aperto nemico della Compagnia. I confini fra esterno e interno erano allora molto ambigui se una parte dell’arsenale polemico del nemico poteva, seppure in una logica di scontro interno tra fazioni, essere utilizzato da quei gesuiti come Palmio che vedevano con timore la strada intrapresa allora dal governo dell’ordine.

    La crescita esponenziale del numero di collegi e il conseguente ruolo assunto dai gesuiti nel panorama scolastico italiano suscitò inoltre la reazione di quelle istituzioni, come l’Università di Padova, in cui una tradizione di studi secolare mal sopportava la fondazione di istituzioni pedagogiche alternative. Sin dall’estate del 1591 alcuni studenti si erano macchiati di vandalismo contro l’edificio del collegio gesuitico e graffiti antigesuitici erano apparsi in diversi punti della città. Cesare Cremonini si assunse il compito di intercettare un simile dissenso con l’Orazione … a favore delle università dello Studio di Padova contra li Rev. Padri Gesuiti (1591). Egli definì il collegio della Compagnia un «anti-studio» e accusò gli ignaziani di monopolio educativo «con l’intenzione di farsi in Padova i monarchi del sapere». A detta dello scienziato, la Repubblica di Venezia avrebbe dovuto sopprimere il collegio così come in passato aveva dichiarato illegali le istituzioni medievali rivali di Padova. Cremonini era un esponente di quell’aristotelismo eterodosso in contrasto palese con l’approccio alla scienza della Compagnia, i motivi dello scontro erano dunque molteplici e la presenza dell’Orazione in molte raccolte documentarie dell’epoca (tanto a stampa quanto manoscritte) dà la misura non solo della circolazione di tali idee ma anche di un clima culturale difficilmente irregimentabile secondo i criteri dell’ortodossia tridentina, specialmente in un contesto come quello veneziano.

    La Repubblica di Venezia fu infatti lo stato che, in un’ottica di lungo periodo, funse da catalizzatore dell’antigesuitismo italiano. Il momento culminante dello scontro con i gesuiti fu quello dell’Interdetto (1606) allorché si radicalizzò lo scontro fra l’anticurialismo veneziano e le posizioni romane: la Compagnia di Gesù divenne il primo obiettivo polemico nella battaglia delle scritture che vide protagonisti Paolo Sarpi e, sul fronte opposto, figure come Antonio Possevino e Roberto Bellarmino. In occasione dell’Interdetto la posizione dei gesuiti non fu più intransigente di quella degli altri ordini religiosi, ma gravò su di lei il già incrinato rapporto con alcune istituzioni veneziane nonché «una leggenda della Compagnia destinata a durare» (cf. A. Prosperi, «L’altro coltello», 287). Sarpi fu il più acceso critico dei gesuiti perché ne colse la capacità di condizionamento politico e sociale, cosa che ai suoi occhi rendeva la Compagnia assai più pericolosa degli altri ordini religiosi legati a Roma. Ulteriore motivo di preoccupazione fu l’evidente legame degli ignaziani con la monarchia iberica, cosicché la triade Spagna-Chiesa di Roma-Compagnia di Gesù divenne per Sarpi un mostro a tre teste da combattere senza esclusione di colpi.

    Legata all’ambiente sarpiano fu anche l’Istruzione ai prencipi della maniera con la quale si governano li Padri Gesuiti (1617) – attribuita in passato a Tommaso Campanella e probabilmente opera del confratello di Sarpi Fulgenzio Micanzio – nonché la prima edizione italiana dei Monita privata Societatis Iesu, pubblicati per la prima volta a Cracovia nel 1614 dall’ex gesuita polacco Hieronym Zahorowski. Riediti in Italia con il titolo di Aurea Monita e allegati poi a molte edizioni dell’Istruzione ai principi, i Monita secreta – questo il titolo con cui divennero più noti – si presentavano come le vere costituzioni della Compagnia di Gesù e divennero il testo antigesuita per eccellenza, archetipo di un vero e proprio genere letterario.

    L’antigesuitismo politico sarpiano, propenso a sovrapporre la Compagnia alla Chiesa di Roma e deciso a denunziarne i tentativi di conquista del mondo, ebbe fra gli epigoni figure come quella dell’ex gesuita Giulio Clemente Scotti, autore di numerosi pamphlets fra i quali il De potestate pontificia in Societate Iesu (1646), indirizzato a Innocenzo X. Scotti vi denunciò come la Compagnia si fosse allontanata dallo spirito originario e fosse ormai soggiogata da un generale tirannico e onnipotente. Attribuita fra gli altri a Giulio Clemente Scotti fu anche la Monarchia solipsorum (1645), dedicata a Leone Allacci, nella quale dietro i vizi e la smania di potere dei solipsi si celavano evidentemente i vizi dei gesuiti. Non è secondario rimarcare, ancora una volta, come molti di questi testi nascessero in un contesto contiguo all’ordine: se è vero che in molti casi il risentimento costituiva una leva potente, è altrettanto vero che la condanna di certi atteggiamenti presenti nella Compagnia, in particolare riguardo alla propensione della gerarchia ignaziana nel favorire determinate carriere interne, alimentò uno stato endemico di disagio che si espresse nella scrittura di molti testi che a buon diritto possono essere fatti rientrare nella categoria di antigesuitismo.

    Su un versante diverso vanno invece a collocarsi figure come Ferrante Pallavicino, Gregorio Leti e gli esponenti dell’Accademia degli Incogniti, guidata da Giovan Francesco Loredano, allievo a Padova di Cremonini. Qui, più che altrove, emerse la figura del gesuita moralmente condannabile, lascivo e seduttore. Pallavicino ne La pudicizia schernita (1639) attaccò la Compagnia di Gesù come esempio dell’immoralità del clero e l’opera venne immediatamente messa all’Indice (12 maggio 1639). Gli stessi temi vennero poi ripresi ne Il corriero svaligiato e ne La retorica delle puttane, il più feroce dei libelli antigesuitici.

    Intorno alla metà del XVII secolo la polemica contro la Compagnia venne nuovamente alimentata in ambito curiale dal dibattito sui riti cinesi e malabarici, considerati espressione dell’eterodossia gesuitica nella conduzione delle missioni orientali. Le congregazioni romane del Sant’Uffizio e di Propaganda, schierandosi contro la Compagnia, contribuirono non poco a quella crisi dell’ordine che si concretizzò nelle espulsioni dalle monarchie borboniche tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento per poi sfociare nella soppressione del 1773. D’altronde, la querelle des rites, a partire dagli anni Trenta, uscì in maniera dirompente dalle aule delle congregazioni per divenire uno dei grimaldelli della stampa antigesuitica: le requisitorie del commissario inquisitoriale Luigi Maria Lucini, una volta date alle stampe, divennero una delle pietre miliari di quella propaganda contro la Compagnia che ebbe nei Mémoires historiques sur les missions des Indes orientales del cappuccino père Norbert (editi a Lucca nel 1744 tanto in francese quanto in italiano), un altro punto di riferimento. Lo scambio polemico con il giansenismo toscano – alimentato evidentemente dalla pubblicazione delle Lettres Provinciales di Blaise Pascal – e l’enorme massa di testi antigesuitici pubblicati nella seconda metà del Settecento impressero quindi all’antigesuitismo un’ulteriore evoluzione. Come ha scritto Franco Venturi esso si saldò alla più vasta battaglia anticurialista, divenendone in qualche modo il climax ideologico. Tra i titoli dalla fortuna editoriale più lunga si possono citare I lupi smascherati, attribuiti all’abate piemontese Luigi Capriata, o ancora Intorno alla distruzione dei gesuiti in Francia, traduzione del pamphlet edito da D’Alembert. Vennero inoltre date alle stampe delle vere e proprie collane come i Monumenti veneti intorno i padri gesuiti, curati dal teatino Tommaso Antonio Contin (che riprendevano la tradizione antigesuita sarpiana) o le Inquietudini de’ gesuiti (raccolta stampata a Napoli dalla Tipografia reale a partire dal 1764, nella quale apparvero anche traduzioni di libelli editi in altri paesi), o ancora la Raccolta di opuscoli curiosi e interessanti intorno gli affari presenti di Portogallo, la più estesa collana (sei tomi) di opuscoli in italiano, pubblicata a Lugano a partire dal 1760.

    Restaurata nel 1814, la Compagnia di Gesù tentò di recuperare il suo ruolo all’interno della vita religiosa e politica italiana: l’esperienza russa – l’unico paese nel quale era sopravvissuta senza soluzione di continuità – ne aveva rafforzato l’identità conservatrice e le idee liberali trovarono i gesuiti sul fronte avverso, attenti a difendere le vecchie monarchie e decisi a opporsi a ogni spinta progressista che potesse metterne in discussione la legittimità. La Compagnia di Gesù venne espulsa da diversi stati italiani in seguito ai moti del Quarantotto, e chi si fece interprete di una profonda avversione nei confronti del suo spirito conservatore fu Vincenzo Gioberti.

    Nei Prolegomeni del Primato (1845) accusò i gesuiti di settarismo e si scagliò contro il “gesuitismo” (categoria morale incompatibile con la modernità e lo spirito nazionale, opposta al vero cattolicesimo). Le idee abbozzate nei Prolegomeni vennero riprese dall’autore ne Il Gesuita moderno. Pubblicata a Losanna nel 1846-47 l’opera venne influenzata dal soggiorno a Parigi nel corso della polemica sulle congregazioni e rafforzata dalla pubblicazione dei corsi tenuti al Collège de France da Jules Michelet ed Edgard Quinet (Des Jésuites, Paris 1843). I cinque volumi (un ultimo di soli documenti) erano impostati come replica alle accuse contro i Prolegomeni del Primato dei padri Carlo Maria Curci e Francesco Pellico (fratello di Silvio). Gioberti ritornò qui sulla categoria del “gesuitismo”: un insieme di lassismo morale, misticismo e autoritarismo. Accusò inoltre di “austrogesuitismo” il padre Luigi Taparelli d’Azeglio (fratello di Massimo) il quale in un suo scritto (Della nazionalità, 1848) aveva sostenuto la necessità di separare la nazionalità dall’indipendenza politica. Nonostante il tono esacerbato del Gesuita moderno suscitasse le critiche di Antonio Rosmini, Cesare Balbo e Niccolò Tommaseo, lo spirito polemico ne favorì la circolazione: della seconda edizione del 1847 ne vennero vendute 12.000 copie. Le critiche spinsero inoltre l’autore alla pubblicazione di una Apologia del libro intitolato «Il gesuita moderno» con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno, 1848). I gesuiti – appena espulsi dagli stati sabaudi – gli apparivano «morti politicamente», ma Gioberti continuava ad averne timore poiché pensava che ne sopravvivessero «gli spiriti». Dopo un primo momento di incertezza il libro venne condannato irrevocabilmente da Pio IX e messo all’Indice il 30 maggio 1849. Nel 1852 il Sant’Uffizio condannò quindi tutte le opere di Gioberti ma ciò non rappresentò la fine dell’antigesuitismo che anzi, vide ancora per tutto l’Ottocento e nel secolo successivo momenti di recrudescenza.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO