Liturgia (dall’ VIII al XIX secolo) – vol. I

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    Autore: Norberto Valli

    Secoli viii-x. Gli albori del secolo viii videro la fine del pontificato di Sergio I (687-701), che ebbe notevole importanza nella storia della liturgia; a quel tempo risale infatti la diffusione in Occidente della festa dell’Esaltazione della Croce, caratterizzata dall’ostensione e dall’adorazione della più insigne delle reliquie della passione del Signore. L’introduzione del canto dell’Agnus Dei durante la celebrazione eucaristica al momento della frazione del Pane costituì un’ulteriore novità, rispondente al desiderio di sottolineare il valore del sacrificio con il quale Cristo si è offerto per la salvezza del mondo. La decisione del papa fu determinante per l’ordo missae romano, non toccando quello ambrosiano, dotato di un Confractorium variabile, inserito nel “proprio” della messa e ancora oggi eseguito subito dopo il Canone. Inoltre a Sergio I si deve l’accoglienza dall’Oriente delle quattro feste mariane diffusesi nei secoli successivi in tutto l’Occidente: l’Assunzione, la Purificazione, l’Annunciazione e la Natività di Maria santissima. Il culto della Vergine, unito a quello dei martiri e dei santi, ricevette ulteriore incremento sotto il siro Gregorio III (731-741), succeduto al romano Gregorio II (715-731), che aveva difeso la venerazione delle immagini mentre divampava la lotta iconoclasta orientale e, verosimilmente, promosso l’arricchimento del sacramentario con i formulari per i giovedì di Quaresima. Le direttive date alle Chiese della Baviera tramite i missionari che egli inviò sembrano già fare del rito romano il modello al quale le altre tradizioni liturgiche occidentali si sarebbero dovute conformare.

    La penisola italica, sia nella parte settentrionale che in quella meridionale, aveva visto la fioritura di una varietà di riti e di usi locali che la documentazione manoscritta è in grado, almeno in parte, di testimoniare. Si pensi, a titolo di esemplificazione, al peculiare ordinamento delle letture evangeliche della liturgia aquileiese, che si segnala per numerosi punti di contatto con quella ambrosiana: lo attestano il capitolare risalente proprio al secolo viii, contenuto nel codex Rehdigeranus, e quello del codex Forojuliensis. Grazie allo studio comparato dei codici ambrosiani del secolo ix è possibile risalire alla fase precarolingia e comprendere l’evoluzione avvenuta nell’eucologia e nel lezionario della Chiesa milanese, riconoscendo la conservazione di persistenti strutture distintive, tra le quali il radicamento negli usi gerosolimitani della Settimana Santa e la peculiare strutturazione dell’anno liturgico. L’evoluzione storica dei due riti aquileiese e ambrosiano ha avuto esiti diversi. La ricezione di usi e di testi di matrice romana, da semplice risultato di un influsso del tutto comprensibile, divenne ad Aquileia con il patriarca Paolino II (787-802), esponente di spicco dell’ambiente culturale carolingio, una precisa linea di condotta ecclesiastica. Ne derivò una progressiva omologazione al rito romano già molti secoli prima della definitiva soppressione degli usi aquileiesi avvenuta nel 1596 da parte del patriarca Francesco Barbaro. Al piano di unificazione liturgica concepito da Pipino il Breve e soprattutto da Carlo Magno, i vescovi della metropoli milanese invece reagirono, riuscendo a salvaguardare le proprie specificità. La ricostruzione della vicenda non è agevole, dovendo appellarsi all’Historia Mediolanensis di Landolfo Seniore (secoli xi-xii) che si pone tra storiografia e leggenda. L’autore informa che all’imperatore, intenzionato a distruggere o, comunque, a far sparire tutti i libri liturgici ambrosiani sia stato impossibile estinguerli completamente; si può infatti dedurre che l’intervento di un tenace quanto disinteressato difensore del rito ambrosiano abbia costituito la ragione determinante della sua preservazione. Landolfo presenta la figura del transmontanus episcopus Eugenio, che presso papa Adriano (772-795), nel corso di un sinodo, avrebbe perorato la causa del rito ambrosiano e ottenuto il riconoscimento pubblico della sua legittimità, accanto al romano, attraverso una sorta di ordalia. La tesi, sostenuta da alcuni studiosi, secondo la quale a Milano si ritroverebbero gli antichi usi romani non intaccati dalle innovazioni subentrate lungo i secoli nella liturgia papale, non ha mai avuto dimostrazioni convincenti. L’assimilazione degli influssi esterni è avvenuta attraverso una loro originale rielaborazione. Lo dimostra, tra l’altro, il canto. Soprattutto dal secolo viii in avanti la chiesa milanese ha assunto una rilevante parte del repertorio cosiddetto “gregoriano”. La storiografia più recente ha ridimensionato però l’idea che con la riforma carolingia ci siano state fortissime pressioni per l’abolizione del canto ambrosiano nell’ambito del tentativo di romanizzazione del rito. Sembra più verosimile che i milanesi abbiano ammesso per l’uso liturgico testi e musiche provenienti dalla tradizione romana, in grado di arricchire il repertorio preesistente. Non c’è però traccia dell’accoglienza da parte dei cantori ambrosiani del sistema modale gregoriano e di tutto ciò che esso comporta. I prestiti non influirono dunque sulla struttura fondamentale del canto ambrosiano; al contrario, si può dire che in questa transizione furono i pezzi gregoriani a subire modifiche al fine di essere adattati al repertorio locale.

    Nell’Italia meridionale accanto agli antichi riti locali di matrice occidentale va considerato il rito bizantino o, più precisamente, italo-bizantino. Per quanto riguarda i primi, è stata rinvenuta nel celebre evangeliario di S. Cuthbert (Cotton ms. Nero D. IV), scritto a Lindisfarne all’inizio del secolo viii, una lista di passi neotestamentari da leggersi in determinate circostanze, che riflette l’uso napoletano. Una conferma è fornita dal fondo dei manoscritti pergamenacei della biblioteca dell’Università di Würzburg, dove è conservato il cosiddetto evangeliario di Burchard, codice, giunto in Germania dall’Inghilterra, al seguito di missionari, con note liturgiche assai vicine a quelle dell’evangeliario di S. Cuthbert, che mostrano l’innesto di elementi romani su un ordinamento concepito per la chiesa di Napoli. La varietà di consuetudini è ulteriormente comprovata dalle testimonianze documentarie ascrivibili a Benevento, tutte posteriori però al secolo ix. Non può essere trascurata poi, come si è detto, la presenza orientale, specificamente bizantina. È noto che il Patriarcato di Costantinopoli dall’viii all’xi secolo esercitò la propria giurisdizione su alcune regioni del Meridione. Infatti attorno al 732-733 un editto dell’imperatore Leone III Isaurico (717-741) le sottrasse alla giurisdizione metropolitana del Vescovo di Roma. La presenza di ellenofoni in fuga prima da Persiani e Arabi e poi dagli iconoclasti offrì all’amministrazione bizantina il pretesto per sostituire l’episcopato latino con quello greco. Si comprende così lo svilupparsi di una chiesa greca in Italia, che si è distinta fino a oggi per una liturgia caratterizzata da elementi peculiari rispetto alla metropoli costantinopolitana. Nella seconda metà del secolo xi, in seguito all’invasione normanna, il papato riottenne i territori alienati nel secolo viii, ma le chiese locali rimasero bizantine. Dopo le tensioni con Fozio (858-897) e la crisi del 1054 i vescovi greci d’Italia, ormai sotto la giurisdizione romana, si trovarono nella difficoltà di non essere più in comunione con la Chiesa da cui dipendeva la loro liturgia e, più in generale, la loro identità religiosa. Da rilevare è, in ogni caso, l’attenzione che, qualche tempo dopo, il Lateranense IV (1215) riservò, in modo particolare, ai fedeli di tradizione bizantina, raccomandando nel canone IX ai vescovi delle diocesi in cui fossero stati presenti persone di varia provenienza, ma uniti dalla stessa fede, la predisposizione di un clero idoneo a celebrare nei loro riti.

    La penisola italica deve essere quindi ritenuta, in epoca medievale, teatro di una molteplicità di espressioni liturgiche, facenti capo alle sedi episcopali più rilevanti. Il processo di romanizzazione non fu certamente istantaneo, ma l’esito è visibile nei sacramentari, nei lezionari e nei messali plenari che, dall’età carolingia in avanti, tesero a conformarsi al modello imposto da Pipino il Breve e dal figlio Carlo Magno, benché la non immeditata fruibilità dei testi manoscritti abbia reso l’operazione meno rapida di quanto si possa pensare, lasciando sopravvivere a lungo le forme cultuali preesistenti. Bisogna, comunque, ricordare che quando Carlo nel 783 chiese a papa Adriano un sacramentario romano puro con l’intento di sostituire i “gelasiani misti” in circolazione, ottenuto il sacramentario papale lo fece integrare da Benedetto di Aniane (c. 750-821) con il Supplementum, atto a soddisfare esigenze ignorate nella fonte a lui pervenuta. La successiva sintesi del gregoriano adrianeo con i gelasiani produsse quello che è stato definito il gregoriano “gelasianizzato” del x e xi secolo, antecedente del messale della Curia romana del xiii.

    Parimenti, gli Ordines romani, che lasciarono Roma nella prima metà del secolo viii, furono rielaborati in territorio franco-germanico fino a costituire quel pontificale romano-germanico del x secolo, ripreso nei secoli seguenti dai pontificali della Curia Romana. Gli stessi imperatori ottoniani che governarono, in seguito, con il fervore religioso dei carolingi, imposero, intorno alla metà del secolo xi, papi germanici che celebravano nelle modalità proprie della loro terra d’origine. La liturgia affermatasi nei secoli successivi al ix in gran parte della penisola italica, contestualmente al resto dell’impero, non è da ritenersi dunque romana pura, bensì il risultato dell’innesto su quel ceppo di elementi propri del contesto franco-germanico. Del resto, con la decadenza a Roma degli scriptoria, giungevano regolarmente ai papi libri liturgici dai monasteri d’Oltralpe. Tra le pratiche liturgiche originatesi fuori dall’Italia e che ebbero nei territori della penisola larghissima diffusione si annovera quella delle Rogazioni o Litanie, che il Concilio di Magonza dell’anno 813 confermò e rese di uso universale per tutto l’impero carolingio. Non trascurabili, infine, furono nel corso di quei secoli dell’alto medioevo, l’arricchimento dei calendari locali con nuove celebrazioni di santi, spesso legate a traslazioni di reliquie e alla devozione suscitata dal loro passaggio attraverso città e campagne, e l’incremento, documentato dalle fonti, delle feste di santi, come gli apostoli, significativi a livello universale.

    Dalla riforma monastica cluniacense del x secolo derivarono l’intensificazione delle devozioni alla Croce, all’Eucaristia, a Maria e ai Santi, la commemorazione annuale di tutti i fedeli defunti e un impulso alla moltiplicazione delle messe celebrate in forma “privata”, rispecchiato dalla stessa architettura delle Chiese, dotate, allo scopo, di numerosi altari laterali. Vi sono pareri discordanti a riguardo del rapporto tra pratica delle messe private e formazione del messale plenario. Da una parte si è intravisto infatti un nesso di causalità, dall’altra lo si è negato, affermando che erano celebrate già prima della diffusione di tale libro liturgico; l’accorpamento di sacramentario, lezionario e antifonario sarebbe stato determinato non solo da una pietà sacerdotale portata a recitare ogni parte, ma anche dallo sviluppo della cura d’anime nei territori lontani dai grandi centri diocesani o monastici con la conseguente esigenza pratica di un unico libro facilmente trasportabile. In ogni caso, è innegabile un’evoluzione che condusse a ritenere l’azione eucaristica sempre più di competenza dei sacerdoti e sempre meno celebrazione comunitaria. Un segnale evidente dello sfaldamento della compagine liturgica e dell’acuirsi dell’isolamento della figura sacerdotale può essere identificato nell’ordo lateranense del 1140, che prescrive al celebrante di leggere tutti i testi destinati al canto mentre sono eseguiti dai cantori.

    Il loro compito era stato nel frattempo facilitato dall’opera di Guido D’Arezzo (995-1050), insigne trattatista e didatta, prima monaco di Pomposa, trasferitosi in seguito ad Arezzo, dove fondò una scuola di canto. Suo merito fu non solo avere dato un nome alle note, prendendo ispirazione dalle sillabe iniziali delle varie sezioni di una strofa dell’inno di san Giovanni Battista, ma aver anche saputo ideare una forma di scrittura musicale idonea a fissare in modo preciso gli intervalli tra i suoni, fondamentale per lo sviluppo della diafonia e successivamente della polifonia.

    Uno sguardo sul x sec. conduce, infine, a scorgere all’interno della liturgia e a partire da essa, soprattutto nel contesto dei riti pasquali, il crescente spazio dato alla drammatizzazione. La riproduzione visiva degli eventi celebrati rispondeva all’esigenza di avvicinare maggiormente il popolo ai contenuti delle celebrazioni e di suscitare una partecipazione emotiva più intensa, facendo, tuttavia, prevalere l’aspetto mimetico su quello anamnetico. In Italia ancora oggi, specialmente durante la Settimana Santa, in alcune regioni è molto diffusa una ritualità di questa natura.

    Secoli xi-xiii. Nella prima metà del secolo xi alla solennità della liturgia cluniacense, accompagnata da una sontuosità architettonica e artistica, fecero riscontro in Italia, in ambito monastico, le tendenze a una maggiore essenzialità dei fondatori di Camaldoli e Vallombrosa, san Romualdo (951/53-1027) e san Giovanni Gualberto (995-1073); in una direzione simile si mossero i certosini e i cistercensi.

    Novità di grande importanza nella celebrazione della santa messa romana fu, agli inizi del secondo millennio, l’introduzione del Credo. Quando nel 1014 l’imperatore Enrico II venne a Roma si meravigliò che mancasse. Il clero gli spiegò che la chiesa di Roma non aveva bisogno di esprimere la professione di fede, essendo da sempre depositaria dell’ortodossia. Benedetto VIII (1012-1024) cedette però all’insistenza imperiale e cominciò a farlo recitare secondo l’uso franco, dopo il Vangelo. Venne in seguito la determinazione dei giorni in cui usare il Simbolo durante la celebrazione eucaristica. Diversamente, nel rito ambrosiano, che lo ricevette dall’Oriente, il Credo fu collocato dopo la presentazione dei doni e lì ancora si trova.

    Il secolo xi vide nel 1073 l’ascesa al soglio pontificio di Gregorio VII. Senza considerare qui la sua complessiva azione di riforma, basti sottolinearne la volontà di affermare l’autorità del romano Pontefice anche mediante la liturgia, imponendo la celebrazione delle feste dei papi santi in tutte le Chiese locali, e il proposito di riportare la liturgia all’antico uso romano, precedente agli influssi franco-germanici. Quest’ultima istanza sarebbe stata ripresa da Pio V per il messale tridentino e poi da Paolo VI per quello del 1970. In effetti, il pontificale romano del xii secolo, se confrontato con il pontificale romano-germanico, denota l’eliminazione di elementi ritenuti non pertinenti all’indole o in contrasto con la sensibilità culturale romana, senza giungere, tuttavia, a cancellare alcuni apporti subentrati a partire dall’età carolingia. Tale libro si diffuse presso le chiese locali d’Italia e anche d’Oltralpe.

    Alla fine del secolo xii divenne papa con il nome di Innocenzo III (1198-1216) Lotario di Segni, autore di un commento alla messa dal titolo De altaris mysteriis, al quale si ispirarono analoghe opere tardo medievali, che spesso ne riassumevano i contenuti. A lui si deve, tra l’altro, la designazione dei cinque colori liturgici rimasti in uso fino a oggi. Negli ultimi anni di pontificato, Innocenzo III intervenne sull’ufficio divino, ma lasciò invariata la celebrazione eucaristica. Il successore, Onorio III (1216-1227), sottopose di nuovo l’ufficio a qualche intervento e produsse un Breviario, adottato nel 1230 dai Frati minori (Breviario della Regola); creò anche un messale, accolto dagli stessi Francescani, in quanto assai conveniente alla loro missione itinerante, del quale intorno al 1240 avvenne già una revisione a opera della Curia e, poco dopo, insieme agli altri libri della Regola, a opera di Aimone di Faversham, quarto superiore generale dei Francescani. Questi ripetuti rimaneggiamenti generarono una certa confusione a motivo della facile coesistenza di testi a diverso livello di rielaborazione.

    In pieno xiii secolo il territorio della penisola registrava una predominanza della tradizione liturgica romana che si rifaceva ai libri della corte papale, distinta da quella romana antica praticata nella basilica di San Pietro e nelle chiese dell’Urbe, almeno fino al 1250, e da quella in uso presso il Laterano, le quali furono sottoposte dal cardinale Giovanni Orsini, poi Niccolò III (1277-1280), a un tentativo di fusione senza successo, a motivo della sua morte e del trasferimento del papato ad Avignone. A prevalere fu dunque la consuetudine della Curia papale, rispecchiata dal messale adottato già dai Francescani e ratificato all’inizio del secolo xiv dall’approvazione di Clemente V (1305-1314).

    Al di là di questo esito, il popolo era sempre più portato ad assistere devotamente a un’azione rituale affidata al clero e alla schola cantorum. Già a cominciare dal ix secolo l’offerta del pane e del vino fu sostituita da un’elargizione di denaro. La comunione eucaristica dei fedeli diventò sempre meno frequente, per ragioni che si possono intuire, ma non facilmente definire, tra le quali il forte sentimento di inadeguatezza personale rispetto alla santità del Sacramento, accentuato dalle prescrizioni di purità rituale, la severità della disciplina penitenziale e le norme relative al digiuno. Alla disaffezione avevano cercato di far fronte ripetute disposizioni disciplinari culminanti nel famoso canone del Lateranense IV (1215) che prescrisse la comunione almeno a Pasqua per ogni fedele giunto all’età della discrezione. La pietà eucaristica dei fedeli si esprimeva sommamente nell’adorazione: la lontananza dalla comunione era compensata dalla “visione” del Corpo di Cristo. All’inizio del xiii secolo il gesto liturgico dell’elevazione durante il Canone era infatti ormai conosciuto in ogni luogo e l’esposizione dell’Eucaristia sempre più praticata. La richiesta, mediante un obolo ai sacerdoti, della celebrazione di sante messe, per ragioni di devozione, impetrazione di grazie o suffragio, portava con sé una visione meno comunitaria e piuttosto individualista. La diffusione di questa prassi è da ritenersi, tra l’altro, causa, non effetto, dell’ordinazione sacerdotale di molti monaci. La reiterazione dell’Eucaristia da parte del medesimo sacerdote per soddisfare le molte richieste provocò la reazione delle autorità ecclesiastiche che sanzionarono ripetutamente la prassi. Si pensi ai divieti di binazione comminati da Innocenzo III nel 1206 e, prima di lui, da Alessandro II (1061-1973) nel 1065. Il riflesso in ambito clericale della privatizzazione della celebrazione fu la progressiva crescita delle cosiddette apologie sacerdotali negli ordinari della messa, come emerge dai documenti fin dal ix secolo.

    Quanto all’interpretazione della celebrazione eucaristica, in Italia fu accolto il metodo della lettura allegorica dei singoli riti inaugurato da Amalario di Metz (770/80-850), secondo il quale la messa è imitazione vera e reale della passione. Il genere dell’expositio missae e, in modo particolare, del canon missae risulta assai praticato dall’età carolingia in avanti. Tra le opere più significative in tale ambito è da annoverare il Mitrale di Sicardo di Cremona (1155-1215). Dal secolo xi si svilupparono pure commenti alle feste dell’anno liturgico.

    La comprensione del sacramento dell’Eucaristia dovette confrontarsi con la crisi del linguaggio tipologico-figurale tipico dell’età patristica. Ne conseguì il prevalere del fisicismo, al fine di contrastare l’indebolimento dell’identità tra le specie consacrate e il Corpo di Cristo. L’offensiva contro il pensiero di Berengario di Tours (+ 1088), la cui concezione di sacramento non appariva in grado di custodire la realtà di ciò che accade durante la messa, si manifestò in territorio italiano prima a Vercelli (1050) e poi a Roma nei due sinodi del 1059 e del 1079. Un grande ruolo ebbero nella controversia Lanfranco di Pavia (+ 1089) e Guitmondo di Aversa (+ 1094) che, pur rimanendo ancorati al fisicismo, in relazione alle specie eucaristiche operarono una distinzione tra una dimensione che muta e una che resta immutata. Tale linea di pensiero fece da preludio all’elaborazione del concetto di transustanziazione operata dalla teologia scolastica con la decisiva riflessione di Tommaso d’Aquino (1225-1274). Concomitante fu la fioritura nella penisola di numerosi miracoli eucaristici. Quello avvenuto a Bolsena nel 1263 ebbe come riflesso, l’anno seguente, l’estensione della festa del Corpus Domini, già dal 1246 introdotta nella diocesi di Liegi, a tutta la Chiesa da parte di Urbano IV (1261-1264) mediante la bolla Transiturus, nella quale, tuttavia, non si fa alcun cenno all’evento prodigioso.

    Figura di spicco, in ambito liturgico, nella seconda metà del xiii secolo fu Guglielmo Durando (1230 – 1296), francese d’origine, ma vissuto a lungo in Italia. A lui si deve la revisione del pontificale romano e il suo adattamento alle esigenze dei vescovi. Quest’opera costituì il punto di riferimento per le successive compilazioni. Ormai verso la fine del xiii secolo conobbe una tappa non irrilevante il processo di latinizzazione delle chiese bizantine della penisola: il sinodo di Melfi del 1284 rese per loro obbligatoria l’introduzione del Filioque nella professione di fede.

    Secoli xiv-xvi. I secoli xiv e xv furono contrassegnati in Italia, come nel resto dell’Europa, da luci e ombre: a un intenso fervore culturale, si accompagnava il malessere dovuto ai conflitti e a grandi tragedie, tra le quali la pestilenza del 1380. La spiritualità vedeva il prevalere dell’individualismo sul senso ecclesiale con la conseguente fatica a considerare la liturgia, continuamente interpretata secondo i criteri dell’allegoria, una fonte essenziale per la spiritualità cristiana; a prevalere erano dunque le svariate forme della pietà popolare. In quest’epoca, per di più, il consolidarsi dell’istituto della commenda ebbe tra le sue conseguenze deleterie il disimpegno nella liturgia da parte di ecclesiastici, privi talvolta di ordini maggiori, o il suo esercizio in modi sconvenienti, sanzionati dal Concilio di Vienne (1312-13). Si aggiungano i contrasti tra clero diocesano e ordini mendicanti, continuamente dotati di privilegi, esenzioni e facoltà di agire nell’ambito della vita sacramentale. D’altra parte, le grandiose cattedrali sorte nelle città della penisola esigevano una liturgia celebrata con solennità e si dimostrarono luoghi adatti ad accogliere il gusto musicale che andava diffondendosi, più orientato a dilettare con la sua piacevolezza che a nobilitare il testo sacro, curandone l’intellegibilità. È documentato, soprattutto nella seconda metà del xiv secolo, il riordino delle regole per l’ufficiatura corale dei Capitoli. I fedeli erano avvertiti della preghiera con il suono delle campane e intervenivano direttamente quasi solo ai Vespri domenicali.

    Nel 1334 papa Giovanni XXII (1316-1334), spinto dalla sua diffusione a livello locale, introdusse nel calendario universale della Chiesa la festa della Santissima Trinità nella domenica dopo Pentecoste, superando l’opposizione di principio fino ad allora sostenuta dalla Sede Apostolica, contraria a legare a un giorno specifico il mistero di Dio sempre celebrato. Gregorio XI (1370-1378) fissò al 21 novembre la festa della Presentazione di Maria al Tempio, Urbano VI (1378-1389) nel 1389 quella della Visitazione. La crescita continua dei giorni considerati festivi rende ragione della discussione che sarebbe avvenuta al Concilio di Costanza (1414-1418) in merito alla possibilità di lavorare dopo aver compiuto il dovere di presenziare alla messa. Fu di Urbano V (1362-1370), nel 1370, l’iniziativa di inviare Giacomo d’Itri (+ 1387/93), che avrebbe avuto poi parte attiva nello scisma d’Occidente, a visitare chiese e monasteri di rito bizantino per correggere gli “errori” dei loro libri liturgici, in particolare nella preghiera eucaristica. Nel confermare, l’anno seguente, le disposizioni del predecessore, papa Gregorio XI parlò di “alcune parole aggiunte” al testo del Canone che generavano una interpretazione erronea ed eretica e che andavano immediatamente cassate. I presunti “errori” individuati erano la supplica epicletica per la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, che nelle anafore orientali viene dopo il racconto dell’istituzione.

    Nel secolo xv si evidenziò la tendenza ad adottare, nel modo di celebrare, il fasto tipico delle corti signorili, parallelamente a una progressiva diminuzione della preoccupazione liturgico-pastorale. Lo si constata nei cerimoniali, redatti a partire dal pontificale di Guglielmo Durando, da illustri componenti della corte papale, quali Giovanni Burcardo (c. 1450-1506), Agostino Patrizi Piccolomini (c. 1435-1495) e Paride Grassi (c. 1460-1528). Si avvertiva, al contempo, l’aspirazione a una riforma della liturgia, dentro il quadro della più generale riforma della Chiesa “in capite et in membris” promossa dal Concilio di Costanza e intrapresa da alcuni vescovi.

    Del Concilio di Firenze (1439-1445) si deve ricordare, nella Bolla Exsultate Domino (22 novembre 1439) sull’unione con gli Armeni, la precisazione del settenario sacramentale con la specificazione di materia e forma celebrativa. Poiché tale decreto ometteva la formula di consacrazione del Corpo e del Sangue del Signore, essa fu inserita nel decreto di unione con i copti e gli etiopi (4 febbraio 1442).

    L’inizio del Cinquecento avvenne in Italia nel desolante quadro spirituale lasciato da Alessandro VI (1492-1503), per altro grande mecenate e protettore di insigni umanisti, contro il quale predicò Girolamo Savonarola (1452-1498). Al domenicano che dovette patire la scomunica e la condanna a morte per eresia, si deve il Trattato nobilissimo del sacramento, emblematico per intendere gli sviluppi dell’approccio allegorico alla celebrazione della messa, originatosi nell’alto medioevo. Giulio II (1503-1513), oltre ad accentuare lo splendore dei luoghi di culto, fondò la Cappella musicale che da lui prese il nome per garantire la celebrazione quotidiana delle Ore canoniche. Morì durante il Concilio Lateranense V (1512-1517) da lui convocato e proseguito da Leone X (1513-1521), al quale fu indirizzato un Libellus, nel quale si chiedeva l’unificazione di tutti i libri liturgici e, descritta la situazione deplorevole in cui versava la pietà dei fedeli, spesso vittime della superstizione e inclini a credere alla magia, si avanzava la proposta che durante il culto si usasse la lingua parlata. Recentemente la paternità dell’opera, da sempre attribuita ai nobili veneziani, poi monaci camaldolesi, Tommaso Giustiniani e Vincenzo Quirini, è stata ascritta al solo Giustiniani. Il Lateranense V affrontò la questione liturgica solo sotto il profilo disciplinare, dando però alcune regole per la formazione, che contemplano l’attenzione alla dimensione celebrativa. Negli anni successivi cominciarono a farsi strada interessanti tentativi volti a restaurare lo spirito liturgico nel clero a utilità dei fedeli. Il domenicano Alberto Castellani (o da Castello) preparò una nuova edizione del pontificale romano, dedicandola a Leone X e poco dopo compose un altro libro liturgico di ben più largo interesse, il Liber sacedotalis, nel quale raccolse tutti gli ordinamenti rituali di competenza presbiterale, riordinando tutte le leggi canoniche con attenzione pastorale. Tra l’altro vi incluse l’ordo missae composto da Burcardo, che Alessandro VI aveva deciso di far introdurre in tutti i messali di rito romano.

    Il successo dell’opera di Castellani indusse Leone X a progettare una revisione del breviario, che affidò al vescovo Zaccaria Ferreri (1479-1524), il quale si dedicò soprattutto agli inni, ma non poté concludere l’opera, perché affidata da Clemente VII (1523-1434) prima a Gaetano da Thiene (1480-1547) e, in seguito, al cardinale spagnolo Francisco Quiñonez (c. 1482-1540); anche la proposta di quest’ultimo, certamente apprezzabile e per molti aspetti precorritrice dei tempi, non ottenne mai un’approvazione ufficiale.

    La chiusura del Lateranense V coincise con il divampare della riforma protestante, per le cui vicende si rimanda all’abbondante trattatistica. La riforma cattolica pre-tridentina non aveva ignorato la causa della liturgia, pur fra differenti sensibilità nell’assumerla. Rimanendo nell’ambito dell’ufficiatura, il bisogno di rinnovamento si manifestò in ordini e congregazioni religiose che talora recuperarono lo stile dell’antico opus Dei benedettino (Eremitani), più spesso ne fecero l’espressione della pietà personale (Cappuccini, Barnabiti): i Gesuiti giunsero persino ad abolire il coro. Quanto ai fedeli, la loro attenzione continuò a essere rivolta soprattutto al culto eucaristico con l’incremento delle esposizioni del Santissimo Sacramento, anche nella forma delle cosiddette Quarantore, spesso animate da intenti riparatori, e con l’impulso dato alle Confraternite, nelle quali si coltivava l’abitudine alla comunione mensile.

    Nei Padri conciliari riuniti a Trento fu forte la consapevolezza che un vera riforma cattolica, anche nel campo liturgico, si sarebbe potuta attuare solo grazie a un clero formato nei seminari. In ogni caso, si avvertiva l’esigenza di nuovi libri liturgici, la cui preparazione iniziò al termine dell’assise e condusse alla pubblicazione anzitutto del breviario nel 1568, segno dell’avvertita necessità di una nuova spiritualità sacerdotale, poi del messale nel 1570, con un ridimensionamento del santorale rispetto al de tempore, del martirologio nel 1583, del pontificale nel 1586, del cerimoniale dei vescovi nel 1600 e del rituale nel 1614. Nella bolla di pubblicazione del breviario comparve il criterio, esteso poi agli altri libri liturgici, che ne sanciva l’uso per tutte le Chiese d’occidente, a eccezione di quelle provviste di un rito risalente almeno a duecento anni prima. Tale disposizione ratificò la salvaguardia della liturgia ambrosiana, che, sotto san Carlo, avviò la revisione dei propri libri liturgici. In Occidente, fu decretata così la fine di tutte le altre espressioni rituali, ad eccezione del rito ispanico, conservatosi, per iniziativa del cardinale Cisneros, nella cappella del Corpus Christi all’interno della cattedrale di Toledo. Qualche intuizione pastorale di carattere liturgico emersa a Trento non ebbe conseguenze effettive: di fronte al pericolo protestante si ritenne maggiormente prudente non proporre la lettura in volgare delle epistole e dei vangeli. L’interpretazione allegorica dei riti era ormai consolidata insieme alla pratica della comunione spirituale, assai più sentita di quella eucaristica, prevista per i fedeli abitualmente al di fuori della messa. Prevalse invece la preoccupazione di riordinare dal punto di vista disciplinare ogni realtà inerente al culto. San Carlo Borromeo, fedele interprete delle direttive tridentine, si fece promotore a questo scopo di un concilio provinciale, svoltosi nel 1565, le cui risoluzioni ispirarono la legislazione di molte diocesi europee. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525/6-1594) con le sue composizioni polifoniche, ispirate alla purezza delle forme gregoriane e protese alla massima attenzione all’intelligibilità del testo, rappresentò, dal punto di vista musicale, l’esito più ragguardevole del disciplinamento attuato a Trento.

    Verso la fine del secolo, nel 1588, nacque la Congregazione dei riti che diede grande importanza soprattutto alla fissazione delle rubriche, aspetto che sarebbe risultato determinante e, troppo spesso esclusivo nell’ambito della formazione del clero, almeno fino al sorgere del movimento liturgico.

    Secoli xvii-xix. Il secolo xvii, l’età del barocco, mostra nella stessa architettura il prevalere della devozione sulla liturgia. Gli altari, dotati di una piccola mensa, erano concepiti come grandiosi monumenti con al centro il tabernacolo sovrastato dalla pala con le immagini dei santi venerati; le opere d’arte miravano a suscitare stupore e commozione. In tale clima la festa del Corpus Domini con la sua ottava acquistò in Italia sempre maggiore fasto. Al culto eucaristico si affiancava quello mariano che, dopo aver registrato l’istituzione della festa del Rosario, a ricordo della vittoria di Lepanto (1571), si apprestava ad assumere quella del Nome di Maria, per commemorare la cacciata dei Turchi da Vienna (1683), mentre andava rafforzandosi la devozione alla Vergine nel giorno di sabato e si intensificavano i pellegrinaggi con la continua edificazione di santuari.

    Contro la spettacolarizzazione della liturgia, durante la quale suono e canto, dopo la misurata esperienza della polifonia rinascimentale, tendevano, mediante l’arricchimento strumentale, a forme di grande splendore, non sempre, però, idonee all’ordinamento celebrativo, intervenne nel 1643 la competente Congregazione romana, sanzionando l’introduzione di brani musicali non funzionali al rito e persino tali da subordinarlo alle loro esecuzioni. Nel frattempo, il rifiorito uso del latino ridestava l’interesse per l’innodia. Urbano VIII (1623-1644) promosse la correzione dei testi ad carminis et latinitatis leges. Durante il suo papato reagì, inoltre, al dilagare delle dottrine gianseniste con la bolla In eminenti del 1642, mentre, soprattutto dai Gesuiti, l’antidoto a tale spiritualità era individuato nel culto al Sacro Cuore di Gesù, inteso come riconoscimento dell’infinita misericordia divina. La festa liturgica, celebrata per la prima volta in Francia nel 1672, sarebbe stata estesa a tutta la Chiesa nel 1856.

    Non mancarono nel Seicento raffinate sensibilità verso lo studio scientifico della liturgia come quella del cardinale Giuseppe Maria Tomasi (1659-1713), che si dedicò all’edizione di antichi sacramentari. Tra i commentatori va ricordato altresì il cardinale Giovanni Bona (1609-1674), che scrisse nel 1688 il trattato De Sacrificio Missae con qualche idea nuova sulla partecipazione dei fedeli.

    Il contesto culturale del secolo dell’Illuminismo, teso all’esaltazione della ragione e in generale alle diverse forme del sapere, generò interesse ancora maggiore per gli studi liturgici. Tralasciando qui quanto prodotto nel resto d’Europa, degna di nota in Italia fu l’attività svolta da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) nell’ambito della ricerca storica, in una costante tensione a denunciare le degenerazioni subentrate nel culto e a proporre riforme per sostenere la spiritualità dei fedeli. Nel sua “operetta”, come egli stesso la chiamava, intitolata Della regolata devozione dei cristiani (1743) affrontò, tra l’altro, il tema della partecipazione del popolo alla messa. Già il cardinale Tomasi con una sua breve istruzione sul modo di assistervi fruttuosamente, edita nel 1710, aveva tentato di offrire un’alternativa alla più diffusa concezione devozionale, ulteriormente consolidata dalle Massime eterne (1728, con ristampe fino al xx secolo) di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Muratori si spinse fino a tradurre e a commentare l’ordinario della messa ed entrò nel dibattito a riguardo della comunione eucaristica, di cui aveva trattato l’anno prima papa Benedetto XIV (1740-1758) nell’enciclica Certiores, dopo la cosiddetta questione di Crema del 1737; si espresse pure contro la musica sacra posta al servizio del puro piacere e in merito alle feste di precetto, oggetto di ripetute controversie, auspicandone la riduzione a vantaggio di chi era costretto a lavorare. Sulla presa di posizione di papa Lambertini contro l’uso del volgare, non del tutto conforme alle idee da lui espresse da arcivescovo di Bologna, influì la preoccupazione di contrastare il giansenismo. Il pontefice aveva in animo riforme in campo liturgico, ma morì prima di riuscire ad attuarle.

    Alla grande attenzione di Muratori alle fonti liturgiche, documentata nella sua opera dal titolo Liturgia romana vetus, è da associare quella di Francesco Antonio Zaccaria (1714-1795), autore della Bibliotheca ritualis, vera e propria storia dei libri liturgici unita alla prima bibliografia liturgica.

    Pur tralasciando l’approfondimento dei risvolti che ebbe in Italia il giansenismo e dei suoi legami con le riforme promosse dal governo austriaco, non si può trascurare il loro punto di approdo rappresentato dal sinodo di Pistoia del 1786, promosso da Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana dal 1765 al 1790 (poi Leopoldo II d’Asburgo- Lorena), animato dal teologo Pietro Tamburini (1737-1827) e guidato dal vescovo Scipione de’ Ricci (1740-1810), la cui ambizione a divenire il fulcro di una riforma, di evidente indole antiromana, estesa a tutta l’Italia fallì, anche per suoi atteggiamenti invisi ai fedeli, trascinandolo verso una condanna formale. Di per sé le proposte del sinodo erano molto all’avanguardia, anticipando scelte in materia liturgica che sarebbero state incoraggiate dal Vaticano II, quali l’introduzione della lingua volgare, la semplificazione dei riti, il divieto di celebrare più messe contemporaneamente nella stessa chiesa, la centralità della domenica e dell’Eucaristia parrocchiale. Già i vescovi toscani nel 1787 si dichiararono sfavorevoli alle risoluzioni di Pistoia; nel 1794 con la bolla Auctorem fidei Pio VI (1775-1799) condannò ottantacinque tesi, giudicandone alcune eretiche, altre scismatiche. Nel 1805 Scipione de’ Ricci avrebbe abiurato le sue tesi in un incontro a Firenze con Pio VII (1800-1823), il papa che nello stesso anno, il 23 maggio, con un rito trionfalistico incoronava, nel Duomo di Milano, Napoleone re d’Italia. Se, dopo il tentativo di distruzione del culto cristiano operato dalla rivoluzione francese, l’imperatore sembrò restaurarlo, abolendo il calendario repubblicano e ripristinando quello tradizionale, le sue reali intenzioni si palesarono con nuove soppressioni degli ordini religiosi e la conferma di quelle già avvenute. Con la successiva restaurazione non fu semplice eliminare i disagi che si erano creati nel regolare svolgimento del culto, anche a motivo della secolarizzazione, o persino della distruzione, di molte abbazie, chiese e conventi.

    Nonostante queste difficoltà, nei primi anni del xix secolo si percepiva un movimento per la partecipazione dei fedeli alla liturgia: comparvero infatti parecchie traduzioni del messale a uso dei fedeli e si moltiplicarono testi illustrativi e di commento. Si pensi alla Guida liturgica (1829-30) di Giuseppe Maria Pavone, al Dizionario sacro liturgico (1931-32) di Giovanni Diclich o, in ambito milanese, alle Memorie storiche relative al rito ambrosiano (1824) di Giacinto Ferrario e agli studi di Luigi Biraghi (1801-1879). È nota, altresì, la denuncia della “divisione del popolo dal clero nel pubblico culto”, espressa da Antonio Rosmini (1797-1855) nel suo libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, scritto nel 1832, ma pubblicato nel 1848, nel quale identifica tra le cause l’uso del latino. La Santa Sede non si mostrava incline a introdurre novità. Lo dimostrano l’atteggiamento di Gregorio XVI (1831-1846), che nel 1841 non approvò una rinnovata edizione del breviario ambrosiano, e di Pio IX (1846-1878) che nel concistoro del 9 dicembre 1854 invitava a istruire i fedeli solo a una presenza devota alla santa messa. Si comprende dunque il successo del Manuale di Filotea di Giuseppe Riva (1803-1876) che continuava ad affiancare ai momenti della celebrazione eucaristica gli eventi della vita di Cristo, per suscitare sentimenti corrispondenti alle diverse circostanze. Un’autentica spiritualità liturgica poteva essere coltivata solo da chi aveva la cultura sufficiente per intendere i testi.

    Nel corso dell’Ottocento la musica usata durante le celebrazioni si andò caricando sempre più di teatralità, tanto da suscitare giudizi negativi anche al Concilio Vaticano I che, apertosi l’8 dicembre 1869, non ebbe il tempo di affrontare la questione liturgica, essendo stato aggiornato sine die il 20 ottobre 1870.

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    LEMMARIO