Cattolicesimo politico – vol. II

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    Autore: Andrea Ciampani

    Le conseguenze socio-politiche della Rivoluzione francese e dell’Impero napoleonico produssero negli Stati della penisola italiana un dibattito sull’evoluzione delle strutture di antico regime e sugli scenari politici proposti dalle tendenze costituzionali. Mentre si costituiva una “Santa Alleanza” tra la Prussia protestante, l’ortodosso impero russo e il cattolico impero asburgico, la sovranità temporale del papato si era indebolita. Nel contesto della Restaurazione europea e della nascita di nuovi Stati costituzionali (come nel caso del Belgio del 1831), le classi dirigenti cattoliche e lo stesso clero si confrontarono con le proposte che tendevano ad affermare l’autonomia dell’azione politica dalla religione e, talora, l’interferenza della prima nella sfera d’azione della seconda. Nell’epoca romantica si segnalò, peraltro, come ricorderà Tocqueville ancora nel 1848, “un ritorno generale e quasi inatteso […] verso le cose religiose” di molti ceti nazionali.

    Nella riflessione dottrinaria e nel concreto confronto pubblico della classe politica europea ottocentesca, comunque, era presente una significativa schiera di personalità cattoliche, espressione della società che rappresentavano. Anche all’interno delle élites degli Stati preunitari esponenti del cattolicesimo italiano animarono la discussione sui diversi profili del confronto politico e, naturalmente, sull’evoluzione dell’unificazione nazionale, partecipando anche ai moti del Risorgimento, cui presero parte anche sacerdoti e religiosi. Alcune figure si segnalarono non solo per aver indirizzato il dibattito del moderatismo liberale con i loro scritti, ma per il ruolo politico svolto, come al governo del Regno di Sardegna dopo la concessione dello Statuto albertino: tra gli altri, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio e Vincenzo Gioberti, che disegnò i tratti ideologici di un neoguelfismo. In una ben diversa e più ampia prospettiva di rinnovamento ecclesiale, l’abate Antonio Rosmini giungeva a delineare nel 1848 un percorso di unità nazionale frutto di una federazione di Stati, secondo un “modo […] giusto ed onesto”, “quello che è al di sopra della politica”.

    Durante il pontificato di Pio IX, intanto, emergeva l’esigenza di una sempre maggiore distinzione del governo della Chiesa cattolica dagli interessi temporali dello Stato pontificio, collocando l’autorità ecclesiale in una posizione superiore al congiunturale conflitto politico, nazionale e internazionale. Nel 1848 la concessione delle prime riforme statutarie nello Stato pontificio e la stessa allocuzione del 29 aprile sembravano assecondare tale dinamica. Nel novembre dello stesso anno, tuttavia, l’assassinio politico del costituzionalista posto a capo del governo pontificio, Pellegrino Rossi, bloccò il processo avviato: la drammaticità del nesso allora instauratosi tra la sorte politica dello Stato pontificio e il processo verso l’unità statuale italiana fu evidenziato dalla seguente fuga del papa a Gaeta e dall’effimero insediamento della Repubblica romana del 1849. Il prevalere della “guerra regia” sabauda sulla prospettiva di una “lega” italiana all’interno dello schieramento patriottico moderato e la rivendicazione politica di Roma capitale d’Italia, rafforzatasi dopo la spedizione garibaldina nel Mezzogiorno, influirono sulla riflessione dei gruppi dirigenti cattolici alla vigilia della costituzione dello Stato unitario del 1861. Ancora in quell’anno, mentre don Margotti sosteneva per la prima volta le ragioni di un astensionismo per le elezioni del primo parlamento italiano, Vito d’Ondes Reggio, già partecipe dei moti siciliani del 1848 e poi vicepresidente dell’Opera dei Congressi nel 1874, veniva eletto alla Camera dei deputati, esprimendovi aperto consenso alla proclamazione del regno d’Italia. Il congiungersi della politica ecclesiale dei governi italiani (riprovata dalla Chiesa) con il profilo anticlericale che assunse la questione romana porrà alcuni esponenti parlamentari di fronte al problema di conciliare rappresentanza delle istituzioni e fedeltà al papato, sollecitando una riflessione sulla possibilità di rappresentare politicamente l’opinione pubblica cattolica.

    Nel confronto apertosi all’interno al mondo cattolico sui caratteri della società moderna, i credenti che operavano all’interno delle Camere parlamentari degli Stati costituzionali, sedendo spesso nei banchi della Destra (nel Belgio identificata tout court come “partito cattolico”), venivano additati come sostenitori di un cattolicesimo liberale. In tale situazione gli episcopati e le classi dirigenti cattoliche si rivolgevano sempre più frequentemente al Vaticano per avere un orientamento in una polemica dai confini incerti; nel 1864 la pubblicazione dell’enciclica “Quanta cura”, contenente il Sillabo degli errori della modernità, non portò a una definitiva chiarificazione sull’applicazione dei principi affermati circa le relazioni tra la Chiesa e lo Stato. In effetti, considerata la prassi politica ottocentesca, la questione della partecipazione cattolica all’elettorato attivo e passivo veniva ancora esaminata a Roma considerando il piano della personale condotta morale del credente all’interno delle congiunture politiche delineate dall’attività legislativa parlamentare e dalle iniziative governative. La congregazione della Penitenzieria apostolica acquisiva, in questi anni, un particolare rilievo in margine ai comportamenti delle personalità cattoliche coinvolte nella vita politica, svolgendo un ruolo centrale nel dibattito vaticano, avviato nel 1864, sull’accesso dei cattolici italiani al voto politico, ritenuto praticabile fino al novembre 1867. Solo dopo le leggi eversive dell’asse ecclesiastico e la spedizione garibaldina a Mentana si delineò uno scenario nel quale alla S. Sede apparve “moralmente impossibile col concorso alle elezioni procurare un rimedio e rimuovere i gravissimi mali”: nel gennaio 1868 per la prima volta la curia romana si espresse a favore del non expedit.

    La questione di un orientamento pubblico dei cattolici italiani in politica, infine, assunse una propria dimensione dopo il 1870. In quell’anno il Concilio Vaticano I, che aveva proclamato il dogma dell’infallibilità pontificia ex cathedra, contestato dalle Potenze europee, venne interrotto dalla conquista militare di Roma da parte delle truppe italiane che poneva fine alla sovranità temporale del papa. Per sostenere la protesta pontificia e la rivendicazione della sua libertà e indipendenza, Pio IX rilanciò con forza il suo appello alla Chiesa universale e ai popoli cattolici. Gli episcopati incoraggiarono lo sviluppo di un sempre più articolato movimento cattolico, che tendeva ad assumere distinti orientamenti: al tradizionale conservatorismo politico delle classi dirigenti transigenti coinvolte nel processo e nella cultura liberal-costituzionale, si affiancava un movimento intransigente e socialmente avanzato, organizzato nella società civile e nelle parrocchie. Si spostava sul terreno politico il confronto, fino allora prevalentemente ecclesiale e pastorale, tra cattolici transigenti e intransigenti, e fuori d’Italia si sviluppava un movimento ultramontano a favore dei diritti del papato, che spesso la Santa Sede si troverà a dover moderare. Rafforzato in un primo tempo il non expedit per le elezioni politiche italiane, come protesta per i “fatti compiuti”, il Vaticano favorì l’irrobustirsi di un associazionismo cattolico, avviato negli anni Sessanta con la nascita della Gioventù cattolica, sostenendo nel 1874 la nascita dell’Opera dei Congressi cattolici, che fece propria la protesta di libertà per il pontefice privato di una sovranità territoriale. La questione romana, posta ora dalla S. Sede, veniva ad articolarsi in molteplici profili: la posizione del papa nel sistema internazionale; l’esercizio del magistero pontificio in Roma; l’intervento del movimento cattolico nelle responsabilità economiche, sociali e politiche del Regno d’Italia. L’interdipendenza tra questi differenti piani emerse nella congregazione cardinalizia che già nel 1876 delineò l’obiettivo del superamento del non expedit, ritenendo in linea di massima non solo essere lecito, ma anche essere “un dovere rigoroso dei cattolici di prender parte alle elezioni politiche”. Occorreva, tuttavia, creare un consenso nella curia romana sulle condizioni e sugli effetti di un tale intervento politico e predisporre l’opinione pubblica cattolica, per ottenere un positivo risultato dal concorso alle urne.

    Con l’elezione di Leone XIII, così, nel 1878 si affermò un articolato “centro cardinalizio” in grado di attrarre intorno al papa esponenti moderati degli schieramenti intransigente e transigente, coniugando una ferma ortodossia in materia di fede con un’apertura alla partecipazione politica di esponenti cattolici nelle istituzioni italiane nel quadro di una mobilitazione del movimento cattolico rispettoso delle “esigenze altissime” della S. Sede; una posizione, questa, che fu sintetizzata in una distinzione tra tesi e ipotesi che ribadiva posizioni di principio e tollerava opportune sperimentazioni nell’operare. Tale attitudine avrebbe permesso anche un’azione unitaria del mondo cattolico italiano, preoccupazione fondamentale per una S. Sede che vedeva indebolirsi l’incidenza pubblica del magistero della Chiesa. Con l’avviarsi del dibattito sulle forme organizzative del cattolicesimo politico italiano si apriva un’appassionata discussione sulle modalità e sugli effetti di un eventuale partito cattolico in Italia. Le cosiddette riunioni di “casa Campello” nel 1879 chiarirono le difficoltà di un movimento conservatore nazionale che avrebbe subordinato un “partito cattolico” alla politica di una parte della Destra liberale. Piuttosto, negli anni seguenti, l’orientamento vaticano pro nunc non expedire offrirà una prospettiva politica agli “unionisti” romani che, col sostegno vaticano, nella lotta capitolina promossero una permanente associazione elettorale, giungendo a sostenere anche candidati liberali, buoni amministratori e rispettosi della religione, in qualunque partito militassero. Durante l’età della trasformazione dei partiti operata da Depretis, posta al riparo della Triplice Alleanza la stabilità internazionale del regno d’Italia, col consenso degli ambienti monarchico – costituzionali fu possibile all’Unione romana partecipare dal 1883 al governo municipale della Capitale; si realizzò, allora, un’esperienza esemplare per lo sforzo organizzativo del laicato cattolico e per la capacità di costruire alleanze con le componenti dei partiti liberali, presupposto per una proiezione nella politica nazionale del movimento cattolico connessa a possibili ipotesi di riconciliazione.

    La politica di Crispi dell’autunno 1887, sotto il segno dell’anticlericalismo, frantumò gli equilibri raggiunti in Campidoglio, introducendo ulteriori diffidenze tra i governi nazionali e il movimento cattolico che aspirava a partecipare alla guida dei diversi settori della nazione. Nel protrarsi dell’irrisolto conflitto Chiesa-Stato, il rafforzarsi della presenza cattolica nei governi locali e nelle associazioni economico-sociali (particolarmente dopo la Rerum novarum del 1891), con un sempre più attivo ruolo del laicato alla formulazione di programmi e strategie d’azione, evidenziò una “politicizzazione” del movimento sociale cattolico. Si giunse, così, nel 1898 al momento più critico tra il governo italiano e l’associazionismo cattolico, oggetto di provvedimenti repressivi come organizzazione eversiva. All’interno dell’Opera dei congressi, intanto, sorgeva una divisione generazionale e di orientamento politico tra gli esponenti del primo intransigentismo e i sostenitori di un concetto cristiano di → democrazia a favore del popolo. Di fronte alla crescente questione sociale, nel giubileo del 1900, infine, si colse l’occasione di una prima tacita riconciliazione nazionale; tra l’enciclica Graves de communi del 1901 e lo scioglimento dell’Opera nel 1904, così, il movimento cattolico tornava a interrogarsi sul significato della democrazia cristiana e delle sempre maggiori brecce aperte dall’episcopato cattolico nel divieto ai credenti di partecipare alle elezioni politiche.

    Incoraggiato dall’iniziativa di Giuseppe Toniolo, il mondo cattolico ricercò una rinnovata unione d’intenti nell’articolazione dell’Unione popolare, promossa dalla S. Sede nel 1904, come pure nell’avvio delle Settimane sociali dei cattolici italiani, sull’esempio di quelle francesi. Nel movimento democratico cristiano, in cui si segnalavano il lombardo Filippo Meda e il siciliano don Luigi Sturzo, si distinguevano i percorsi di coloro che immaginavano di riprendere il cammino degli accordi negoziati con candidati liberali (additati come clerico – moderati) e i sostenitori dell’affermazione di uno specifico programma socio-politico. In questo contesto, era stato eletto alla Camera un gruppo di “cattolici deputati”, che enfatizzavano la responsabilità personale e rifiutavano di farsi identificare in un partito confessionale. Profili religiosi e dinamiche politiche tornavano a sovrapporsi nel dibattito tra i cattolici italiani, intrecciandosi talora con la polemica sul modernismo: dopo aver costituito la Lega democratica nazionale, don Romolo Murri entrò in parlamento, tra il 1907 e il 1909, appoggiato da socialisti e radicali e condannato dal Vaticano.

    A fronte dei blocchi popolari anticlericali, la finanza e la stampa cattolica come le organizzazioni cristiano – sociali, sviluppate nel movimento cooperativo e nei sindacati “bianchi”, aspiravano a veder riconosciuto il loro ruolo nelle istituzioni dell’Italia giolittiana in un Paese cattolico investito da un processo di secolarizzazione della vita pubblica. Nel 1913 si giunse, infine, a formulare le condizioni del “patto Gentiloni”, dal nome del presidente dell’Unione elettorale, perché l’elettorato cattolico nel suo complesso potesse influire, generalmente in senso moderato, sul risultato delle prime elezioni a suffragio elettorale maschile dell’epoca liberale: alcune rivendicazioni politiche (dal rispetto per le scuole cattoliche al rifiuto del divorzio) avanzate dal movimento cattolico sarebbero state sottoposte ai singoli candidati liberali che avrebbero richiesto il voto dei cattolici. Forte era la preoccupazione di Pio X, impegnato in un’ampia riforma della Chiesa, di mantenere in quella delicata congiuntura l’unione del popolo cattolico alla gerarchia, con l’intento di evitare una traslazione sul piano ecclesiale delle differenti scelte che si erano manifestate sul piano politico.

    L’avvenuta “nazionalizzazione” del mondo cattolico italiano comportò, peraltro, il suo sostegno alla guerra di Libia e la condivisione dello sforzo bellico del primo conflitto mondiale, sebbene una parte significativa dell’opinione pubblica cattolica manifestasse inizialmente remore all’entrata in guerra: l’opzione di una “neutralità condizionata” prendeva le distanze dalla retorica nazionalista e promuoveva, contemporaneamente, un’identificazione tra le sorti dell’Italia cattolica e la politica dello Stato unitario che avrebbe dovuto facilitare la riconciliazione. In effetti, nel “fronte interno” i cattolici italiani contribuirono alla coesione sociale del Paese, mentre nelle zone di combattimento l’afflato religioso favorì la solidarietà nelle drammatiche sofferenze dell’“inutile strage” condannata da Benedetto XV. Alla fine del conflitto, peraltro, i colloqui parigini del 1919 tra mons. Bonaventura Cerretti e il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando mostravano accessibile un percorso di conciliazione tra Chiesa e Stato sulla base di negoziati accordi bilaterali.

    Nel frattempo, inserendosi nella tendenza ad un’adesione di massa ai partiti politici del dopoguerra, nel novembre 1918 Luigi Sturzo aveva promosso nei locali dell’Unione romana la costituzione di un partito nel quale potessero riconoscersi tutte le componenti del movimento cattolico impegnato a recuperare una centralità nella vita politico-istituzionale nazionale e orgogliosamente partecipe delle sorti della patria italiana. Con l’appello a “tutti gli uomini liberi e forti” del gennaio 1919 nasce il Partito Popolare Italiano, che, ispirandosi “ai saldi principi del Cristianesimo”, mirava ad orientare con la sua presenza parlamentare i governi di un’Italia scossa dall’azione di un partito socialista massimalista e dalle convulsioni sociali della “vittoria mutilata”. La segreteria di Stato vaticano permise il tentativo del Ppi come partito aconfessionale, affiancato dal sindacato della Confederazione Italiana del Lavoro, rimarcando una chiara distinzione con l’Azione cattolica destinata ad assumere nel pontificato di Pio XI il carattere di un’associazione laicale di collaborazione all’apostolato gerarchico della Chiesa. Di fronte alla chiusura delle classi dirigenti liberali, all’aggressiva propaganda socialista e al sorgente squadrismo fascista, tuttavia, si manifestò presto la tendenza a sovrapporre la militanza cattolica con la contemporanea adesione alla Ac, alla Cil e al Ppi; così l’appartenenza all’azione cattolica sembrava identificarsi con l’azione dei cattolici più impegnati nella politica dei popolari.

    Dopo la marcia su Roma del 1922 e la formazione di un gabinetto di coalizione da parte di Mussolini, si acuirono nel Ppi le tensioni irrisolte che laceravano il cattolicesimo politico italiano, portando alle dimissioni di Sturzo da segretario politico del Ppi, al dissenso di Guido Miglioli sulle lotte sociali, all’espulsione dal partito di esponenti dell’ala destra, come Egilberto Martire (nel 1924 nascerà un piccolo partito, il Centro nazionale, che fiancheggerà i fascisti fino al 1930). Riemergeva, così, la preoccupazione vaticana che caratterizzazioni d’indole puramente politica fossero portate in seno all’azione cattolica, rompendo la concordia dell’apostolato cristiano. L’atteggiamento di Mussolini, che affiancava le aperture al Vaticano alla violenza contro le opposizioni politiche e sociali, condurrà la gerarchia cattolica italiana a concentrare il proprio impegno nella difesa della presenza educativa e religiosa di fronte al tentativo avviato nel 1925 di edificare un regime totalitario. La difficoltà a sostenere uno scontro diretto con la Chiesa e la ricerca del consenso cattolico spinsero il fascismo a negoziare i Patti Lateranensi del 1929: il trattato internazionale e la convenzione finanziaria mettevano fine al conflitto tra Italia e S. Sede, mentre il concordato stabiliva le norme dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato. La tolleranza nel regime dell’organizzazione cattolica sul piano dell’eduzione religiosa, peraltro, provocò un latente conflitto tra fascisti e azione cattolica, che talora si acuiva come nello scontro con la Fuci del 1931. Arrestandosi di fronte alla “politica dell’altare”, comunque, il fascismo trovò un ostacolo deciso alla sua penetrazione nella vita sociale italiana.

    Se gli ambienti del cattolicesimo conservatore inclinarono al filofascismo, enfatizzando le opportunità di restaurare una nazionale cattolica, sotto l’ombrello delle associazioni cattoliche si alimentava la speranza degli antifascisti ridotti al silenzio, mentre parte significativa della Chiesa italiana coltivava nell’afascismo un’alterità morale e religiosa che si asteneva dall’impegno socio-politico. Nelle associazioni cattoliche degli anni Trenta si formava, così, una “gioventù pura” affidata ai ritiri, alle catechesi, alle processioni e all’apostolato, dai tratti talora militareschi. Il varo delle leggi razziali contro gli ebrei nel 1939 incrinò l’instabile equilibrio raggiunto tra il regime e la Chiesa italiana, nel reciproco tentativo di delimitare i confini tra spazio politico e religioso. Durante la guerra i cattolici che avevano potuto giovarsi di proprie strutture educative erano in grado di avviare una fase di elaborazione di strategie per il periodo successivo ad un’eventuale caduta di Mussolini. Dopo il luglio 1943, mentre l’Azione cattolica si proponeva di dare un apporto alla ricostruzione civile del Paese, gruppi di cattolici parteciparono alla formazione dei Comitati di liberazione nazionale, agendo poi nella clandestinità come partigiani nella Resistenza.

    Il partito della Democrazia cristiana, costituitosi attorno ad Alcide De Gasperi con l’ambizione di raccogliere insieme alla dirigenza popolare prefascista nuove generazioni di intellettuali e militanti cattolici, poteva organizzarsi col sostegno di ampi settori dell’episcopato. Tra continuità e fratture, comunque, occorreva misurarsi con l’eredità del Ventennio sull’impegno civile del cattolicesimo italiano nella vita democratica; un processo che si prolungò sino alla crisi degli anni Cinquanta. Maturavano differenti progettualità per declinare l’impostazione “morale” dell’impegno cristiano sul piano “temporale”: i principi del Codice di Camaldoli, disegnando nuovi scenari socio-politici, posero la questione di una distinzione tra la “professione d’apostolato” e il “fare professione politica”. Tra il 1944 e il 1946, intanto, numerosi giovani dirigenti dell’azione cattolica e della Fuci, come Giulio Andreotti, si formarono alla politica facendo politica nella Dc, mentre ancora nelle associazioni si coltivava un sospetto verso l’agire politico. Altri venivano attratti dal movimento dei Cattolici comunisti e dal Partito della sinistra cristiana di Franco Rodano, che nel 1945 confluì nel Pci, o dal socialismo cristiano che alimentò il Partito cristiano sociale di Gerardo Bruni tra il 1946 e il 1948.

    Alla vigilia del referendum costituzionale e delle elezioni per l’Assemblea costituente, dunque, l’Azione cattolica s’impegnò ad educare gli associati (che raggiungevano i due milioni di iscritti) al superamento dell’apoliticità, mantenendo un’apartiticità che avrebbe conservato l’unione dei credenti. Dopo aver contribuito alla formulazione della Costituzione italiana tra il 1946 e il 1947, il mondo cattolico italiano percepì chiaramente l’importanza che per la sua attuazione avrebbero avuto le elezioni della prima legislatura repubblicana. Il costituirsi dell’alleanza politica social-comunista nel Fronte popolare fece maturare il convincimento che la Chiesa italiana dovesse contribuire all’emergenza politica costituita dalle elezioni del 18 aprile 1948. Si svolsero missioni religioso-sociali come campagna di “educazione civica” nelle diocesi italiane, coordinate infine da Giuseppe Lazzati, mentre si costituivano i Comitati civici, affidati a Luigi Gedda, per mantenere l’azione dei cattolici militanti a sostegno della propaganda democristiana su di un piano prepartitico. La vittoria della Dc e la sua conferma come perno di ogni possibile coalizione per il governo del Paese pose ben presto il cattolicesimo italiano di fronte a un’ulteriore questione: la centralità della politica democristiana nella vita politica repubblicana di un Paese aderente al sistema politico occidentale e atlantico nel confronto mondiale bipolare. Dal 1950 la presenza di De Gasperi accanto al francese Robert Schuman e al tedesco Konrad Adenauer tra i padri dell’integrazione europea giunse ad evocare l’idea di un’Europa vaticana.

    Da allora, e fino al crollo del Muro di Berlino nel 1989, il dibattito sul cattolicesimo politico italiano coinciderà con le problematiche della Dc, sul piano interno (le formule di governo, le politiche di alleanze, la costituzione delle “correnti” democristiane) e sul piano delle relazioni internazionali (in particolare rispetto agli interlocutori statunitensi, alla politica mediterranea e mediorientale). Assunto il ruolo di “partito della nazione”, la Dc pure non rinunciava alla sua interlocuzione con la gerarchia cattolica, assumendo col tempo non solo un ruolo di mediazione degli interessi che questa esprimeva, ma anche una capacità di orientamento della presenza cattolica nella società: già negli anni Cinquanta, alcuni ambienti dell’associazionismo cattolico chiedevano al partito di non usare la Chiesa come organizzazione collaterale. Le classi dirigenti democristiane, nei ripetuti governi di Amintore Fanfani, di Aldo Moro e di Mariano Rumor, introdussero graduali riforme nell’Italia che s’industrializzava, in un sistema economico di economia mista, ricercando un sempre più ampio consenso politico delle forze liberali e socialiste, nell’impossibilità di un’alternanza di governo in presenza di un’opposizione guidata dal più forte partito comunista occidentale.

    Negli anni Sessanta, peraltro, il mondo cattolico si trovò di fronte a nuove difficoltà per la trasformazione dei tradizionali modelli della famiglia e per i riflessi sull’esperienza politica dell’eco del Concilio Vaticano II. Così, mentre si radicava il primato dei partiti nella società, l’affermarsi della “terza generazione” di leader democristiani accompagnava l’inaridimento della formazione giovanile nel partito e l’ampliarsi del dissenso del mondo cattolico si proiettava nell’arena politica: all’opzione socialista nelle Acli seguirono le esperienze dell’Associazione di Cultura Politica (Acpol) e del Movimento Politico dei Lavoratori (Mpl), cui si affiancò l’esperienza dei Cristiani per il socialismo negli anni Settanta. Sotto il pontificato di Paolo VI non mancarono richiami all’unità politica dei cattolici di fronte all’affacciarsi di tematiche come il divorzio e l’aborto che spingevano a una nuova riflessione sul significato sulla presenza pubblica dei cattolici italiani. La stessa Dc non mancò di collegarsi con alcuni ambienti, come la Lega democratica e il Movimento popolare, che esprimevano una proiezione prepartitica di un rinnovato associazionismo cattolico, non più maggioritario nella società italiana. In effetti, la crisi della Dc non diede vita ad un rinnovamento interno della classe dirigente e della sua cultura negli anni Ottanta, frantumandosi il dibattito sugli assetti del partito, senza intercettare le modificazioni profonde della società italiana e le sue ripercussioni sui corpi intermedi promossi dal mondo cattolico.

    La stessa Chiesa italiana, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, vide crescere il ruolo della Conferenza episcopale per suscitare nel laicato impegnato nella società civile una rinnovata etica politica e condivise risposte agli emergenti temi della biopolitica. Dopo l’esaurirsi dell’esperienza democristiana nel 1994, la collocazione di esponenti cattolici in diverse formazioni politiche ha aperto nuovi interrogativi sulla rappresentanza dei cattolici, in un contesto di cambiamento epocale delle dinamiche socio-economiche e degli scenari internazionali. L’occasione dei centocinquanta anni di storia d’Italia, peraltro, ha consentito di apprezzare l’incidenza storica della presenza dei cattolici nella vita pubblica dello Stato unitario. Ricordando che la Chiesa non ha “soluzioni tecniche da offrire” nell’arena politica e “non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati” (così ancora nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI del 2009), dunque, il cattolicesimo italiano s’interroga sulle modalità con le quali esercitare una libertà responsabile a favore di “una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione”.

    Fonti e Bibl. Essenziale

    Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello e G. Campanini, vol. I, Tomi 1-2, Editrice Marietti, Torino, 1981; Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino, 1997; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Studium, Roma 19824; K.-E. Lönne, Il cattolicesimo politico nel XIX e XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1991; A. Canavero, I cattolici nella società italiana: dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, La Scuola, Brescia 1991; M. Casella, 18 aprile 1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Galatina, Congedo editore, 1992; C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1996; P. Scoppola, La repubblica dei partiti: evoluzione e crisi di un sistema politico, 1945-1996, Il Mulino, Bologna 1997; A. Ciampani, Cattolici e liberali durante la trasformazione dei partiti: la questione di Roma tra politica nazionale e progetti vaticani, 1876-1883, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 2000; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Morcelliana, Brescia 2002; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007; M. Belardinelli, Il Risorgimento e la realizzazione della comunità nazionale, Roma, Studium 2007; A. Ciampani, Il dibattito sulle origini di un partito cattolico in Italia e l’Unione romana, in “Archivio della Società romana di storia patria”, vol. 134 (2011), 81-126.


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