Finanze ecclesiastiche – vol. II

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    Autore: Giovanni Gregorini

    Il tema della gestione economico-finanziaria dei beni della Chiesa nell’Italia postunitaria appare storicamente caratterizzato da alcune tappe normative ben definite, le quali si incontrano e quindi interagiscono con percorsi differenziati in termini di prassi strategiche praticate a livello centrale vaticano come in sede locale diocesana, compresi i rapporti tra le diocesi stesse ed i diversi tipi di enti ecclesiastici esistenti sul territorio. In tale ambito generale alla non marginale questione del mantenimento del clero secolare distribuito sul territorio si unisce dunque quella dell’amministrazione finanziaria dei beni posseduti dalla Chiesa ai diversi livelli, come pure quella delle interconnessioni che si sono verificate con le economie di altre entità istituzionali di natura religiosa, dovendosi in tutto ciò compendiare normative canonistiche, civilistiche e concordatarie comprese le relative giurisprudenze.

    In età contemporanea una prima svolta legislativa si verificava presso la monarchia Sabauda alla metà del XIX secolo, allorquando al tentativo di ridimensionare la rilevanza economica e finanziaria della Chiesa giungevano anche gli Stati liberali, dopo le precedenti esperienze dei sovrani riformatori e degli interventi napoleonici. In tale prospettiva si ponevano le cosiddette leggi Siccardi (n.1013 del 9 aprile e n.1037 del 5 giugno 1850), le quali nell’ambito di una ratio separatista abolivano alcuni privilegi goduti sino ad allora dal clero cattolico (foro ecclesiastico, diritto di asilo, manomorta), ma ancor più la legge Rattazzi n.878 del 29 maggio 1855, mediante la quale il Regno di Sardegna disponeva la soppressione delle Corporazioni religiose non dedite a predicazione, assistenza degli infermi ed istruzione, prevedendo altresì la devoluzione delle loro proprietà all’ente governativo denominato dapprima Cassa ecclesiastica, in seguito Fondo per il culto. Tramite la vendita dei beni degli enti ecclesiastici così soppressi, come pure riscuotendo un contributo dagli altri enti mantenuti e più dotati finanziariamente, la citata cassa doveva assicurare ai parroci meno tutelati economicamente la garanzia di un reddito minimo. In questo modo lo Stato contribuiva al sostentamento del clero non più gravando sul proprio bilancio, ma attingendo al nuovo fondo in tal modo costituito dal quale veniva estratto il cosiddetto supplemento di congrua.

    Quest’ultimo, dal canto suo, si andava ad aggiungere al beneficio ecclesiastico, ovvero alla figura giuridica che veniva affiancata al singolo ufficio parrocchiale – come poteva essere in maniera diffusa e prevalente la stessa parrocchia –, rappresentandone la dotazione patrimoniale (mobiliare ed immobiliare) con la cui redditività veniva storicamente retribuito il funzionario ecclesiasticamente corrispondente. Concretamente la retribuzione versata dallo Stato a titolo di congrua consisteva in una prestazione la cui natura era quella di un assegno alimentare a carattere personale, era indicizzata alla rendita garantita dal beneficio, ed era quantificata sul reddito dominicale in base al quale venivano altresì calcolate le imposte. La congrua veniva corrisposta agli ufficiali ecclesiastici il cui beneficio garantiva redditi in misura inferiore ad una determinata somma minima stabilita dalla legge, prevedendosi progressivi aggiornamenti legati alla svalutazione monetaria corrente. Nel 1922 il sistema così delineato veniva esteso ai vescovi, ai vicari, ai cappellani curati ed ai canonici semplici.

    Per quanto concerneva più in particolare i vescovi diocesani, nel corso della prima metà del XIX secolo persisteva la funzionalità della cosiddetta mensa vescovile (o episcopale), ovvero della istituzione più che millenaria rappresentata dal patrimonio di beni mobili e di immobili a disposizione dell’Ordinario per il mantenimento della propria persona e di coloro che svolgevano funzioni al suo servizio. Costituita soprattutto da proprietà fondiarie, essa era storicamente gravata da consistenti oneri sia da parte della curia papale che dagli Stati regionali e nazionali, mentre nel complesso veniva consistentemente intaccata mediante incameramento statale stabilito dalle leggi eversive postunitarie di cui si dirà in seguito. Di tutta rilevanza finanziaria erano poi le Fabbriche delle cattedrali, economicamente correlate ai relativi Capitoli quanto meno nelle più grandi diocesi italiane, i cui sviluppi funzionali si sono evoluti sino alla contemporaneità più recente.

    Gli antichi Ordini religiosi sopravvissuti continuavano a mantenersi in virtù delle rispettive storiche dotazioni patrimoniali opportunamente amministrate, con un ruolo solo gradualmente crescente attribuito alla redditività ottenuta mediante remunerazione del lavoro produttivo svolto all’interno dei monasteri. Erano invece soprattutto le nuove Congregazioni religiose ottocentesche – sia maschili ma soprattutto femminili – che venivano gravemente colpite da altri specifici interventi normativi nella fase immediatamente postunitaria, le cosiddette leggi eversive del 1866 e 1867, coinvolgenti anche le mense vescovili. Sinteticamente, la legge n.3036 del 7 luglio 1866 negava il riconoscimento giuridico (e quindi la capacità patrimoniale) a tutti gli Ordini, le Corporazioni, e le Congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportavano vita in comune con carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi venivano incamerati dal demanio statale, mentre parallelamente veniva stabilito l’obbligo di iscrizione nel Gran libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto. Era quindi sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, ad eccezione delle parrocchie; in tal senso venivano incamerati anche i beni delle citate mense vescovili. La legge n.3848 del 15 agosto 1867, invece, prevedeva la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti dallo Stato superflui per la stessa vita religiosa della nazione: rimanevano esclusi dal provvedimento i seminari, le cattedrali, le parrocchie, i canonicati, le fabbricerie e gli ordinariati.

    La storiografia più recente ha mostrato come l’applicazione della legislazione citata trovava talvolta in sede locale elementi elusivi di resistenza, come pure si avviava una serie di prassi economiche e legali capaci di conservare l’esistenza e soprattutto la funzionalità delle Congregazioni religiose alle quali era stata negata la capacità giuridica. In questa prospettiva si verificavano casi di riacquisto dei beni delle mense vescovili intestati successivamente a laici, ma garantiti in possesso ai relativi vescovi, come avveniva ad esempio a Bergamo. Per quanto concerneva invece le Congregazioni, che continuavano a vivere e prosperare grazie prevalentemente ai risparmi derivanti dal lavoro dei religiosi e delle religiose, si diffondevano pratiche ancora più varie e complesse: l’acquisto di beni poi intestati a singole suore in qualità di libere cittadine; la compravendita per interposta persona; la costituzione di società civili o di enti morali (quali le società tontinarie, le trasformazioni degli istituti in enti morali, la costituzione di società per azioni o immobiliari o ancora cooperative, l’adesione a società diocesane, la creazione di casse rurali e piccoli crediti). Nel caso delle società diocesane, come la Juventus di Bergamo (1919) o la Domus di Vicenza (1920), si venivano intrecciando le forze economico-finanziarie delle diocesi con le esigenze di tutela e protezione delle Congregazioni religiose in una non breve fase di continui timori e minacce ulteriormente soppressive.

    Con riferimento precipuo alla Sede apostolica, la questione della gestione dei beni appartenenti alle finanze vaticane subiva una prima forte sollecitazione con la nascita del regno d’Italia, ed il conseguente ridimensionamento del territorio ricompreso nei confini dello Stato pontificio. In relazione a tutto ciò riprendeva grande vigore il ruolo svolto in entrata nel bilancio vaticano dall’Obolo di S. Pietro, la più importante forma di contribuzione dei fedeli cattolici di tutto il mondo per il sostegno della Santa Sede. Tuttavia un’ulteriore evoluzione ancora più consistente, anche perché definitivamente traumatica, avveniva con gli eventi del 20 settembre 1870 e quindi con l’annessione all’Italia del Lazio e di Roma stessa. Si apriva in questo modo un lungo dissidio avviato a soluzione solo con il Concordato del 1929, dato che la stessa legge 13 maggio 1871 delle Guarentigie prevedeva una cospicua dotazione annua per il papato a compensazione parziale delle perdite subite, rifiutata però da Pio IX (Questione romana).

    A seguito di tali eventi, tra scelte consapevoli e risposte contraddittorie a situazioni congiunturali, iniziava a configurarsi una poliedrica strategia del papato moderno volta a potenziare il proprio raggio di operatività – e la conseguente capacità di incidere sulle società contemporanee mondiali – facendo leva sugli strumenti economico-finanziari, alla luce della ormai definitiva perdita di ogni formula di potere temporale. In questo senso il 5 agosto 1871 veniva consolidata istituzionalmente l’Opera dell’obolo di San Pietro, mentre dal 1878 papa Leone XIII nominava un Prefetto dei sacri palazzi nonché Amministratore del patrimonio rimasto alla Santa Sede, nella persona del suo segretario di Stato. Successivamente, con motu proprio dell’11 dicembre 1880 e 23 maggio 1883, veniva incaricata una Commissione cardinalizia di sovrintendere all’Amministrazione dell’obolo e del patrimonio della Santa Sede con voto consultivo. Più stabilmente, nel 1891 veniva affidata a detta Commissione la diretta amministrazione del patrimonio della Santa Sede, con incarico di estendere le proprie cure a tutti gli altri rami e affari economici ad essa correlati. Pio XI a sua volta, con motu proprio 16 dicembre 1926, disponeva invece la riunione delle suddette funzioni con gli uffici amministrativi della Prefettura apostolica e della Sezione dicasteri ecclesiastici, costituendo così la generale Amministrazione dei beni della santa sede.

    In tale contesto otto-novecentesco prendeva forma il graduale quanto inarrestabile passaggio dal prevalente interesse delle finanze vaticane (ed in generale ecclesiastiche) per il settore immobiliare, specie della proprietà terriera, a quello più efficacemente rivolto al comparto tipicamente finanziario, di per sé più elusivo e dinamico anche in un senso transnazionale. Così si ampliavano le fonti di finanziamento della Sede apostolica, unendosi alla raccolta delle offerte che giungevano da tutto il mondo la redditività derivante dalle forme sempre più diversificate di investimento, per cui si veniva formando un modello di finanza globale capace anche di offrire sostegno alle Chiese locali bisognose, pure tramite la gestione separata della Congregazione De propaganda fide. E mentre le forme di sostentamento del papato si articolavano in un senso planetario, si verificava una corrispondente internazionalizzazione (specie americanizzazione) della curia romana e del collegio cardinalizio.

    Nel peculiare caso italiano, si aprivano ampi spazi per esperienze diversificate di interconnessione tra ambiti strettamente ecclesiali ed ambienti finanziari guidati da personalità del cattolicesimo sociale, come avveniva ad esempio nel caso della Banca cattolica del Veneto o del sistema creditizio attivato in Lombardia da Giuseppe Tovini, fondatore di Banca di Vallecamonica, Banca San Paolo di Brescia e Banco ambrosiano a Milano (seguendo quindi una evidente progressione territoriale), come pure nel caso degli intrecci articolati sull’intero territorio nazionale resi possibili dal movimento del credito cooperativo e popolare, ancora oggi orientato alla ricerca della solidarietà efficiente e storicamente ispirato dall’iniziale realtà delle casse rurali ed artigiane, diffuse nelle diocesi italiane a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo. Le complesse vicende legate agli sviluppi dei rapporti tra Vaticano e particolari istituti di credito come il Banco di Roma guidato da Ernesto Pacelli, il Banco di Santo Spirito, la Cassa di risparmio di Roma ed il citato Banco ambrosiano rappresentano ulteriori ambiti – anche estremamente critici – di evoluzione della storia delle finanze ecclesiastiche nel corso del Novecento sino ad oggi.

    Esito di una graduale intesa tra Stato e Chiesa avviatasi nel primo dopoguerra italiano, i Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio 1929 rappresentavano una svolta novecentesca fondamentale, comprendendo una apposita convenzione finanziaria allegata al trattato, con cui si stabiliva che il patrimonio immobiliare della Santa Sede (di cui veniva fornito un elenco dettagliato) godeva di numerose esenzioni specie dal punto di vista tributario, ma soprattutto venivano chiuse le pendenze economiche fra le parti in causa mediante un cospicuo versamento da parte del governo italiano (750 milioni di lire) unito alla cessione di una consistente quantità di consolidato italiano 5% al portatore (1 miliardo di lire), quale indennizzo dei danni subiti dal papato con l’annessione degli ex Stati pontifici all’Italia e la conseguente liquidazione di buona parte dell’asse patrimoniale ecclesiastico. In relazione a questi eventi papa Pio XI, mediante motu proprio del 7 giugno 1929, costituiva l’Amministrazione speciale della Santa Sede, allo scopo prevalente di gestire i citati fondi versati dal governo italiano al Vaticano.

    In seguito all’accordo generale rappresentato dal Concordato, inoltre, con gradualità le Congregazioni religiose potevano acquisire – richiedendola – la personalità giuridica e quindi la possibilità di tornare nella piena titolarità dei loro beni, cosa che avveniva in maniera cadenzata sia per radicati sospetti rispetto alle prospettive evolutive di rapporto tra Chiesa e regime, sia per questioni fiscali tutt’altro che marginali.

    Dal canto suo, a partire dal 1942, la Chiesa cattolica a livello centrale continuava a perseguire le proprie strategie di investimento nell’ambito del capitalismo finanziario contemporaneo per mezzo dell’Istituto per le opere di religione (Ior) – pensato sin dal 1887 nella forma della Commissione ad pias causas – provvedendo alla custodia ed all’amministrazione dei beni mobili ed immobili trasferiti o affidati allo stesso da parte di persone fisiche o giuridiche, beni comunque destinati ad attività religiose o di carità. Lo Ior, nonostante sia tutt’oggi un’entità economico-finanziaria che utilizza strumenti bancari impegnandosi in operazioni di intermediazione creditizia, si considera un’organizzazione senza scopo di lucro, che continua a svolgere la propria funzione istituzionale prima delineata. Il network finanziario generato dalla operatività di questo ente nel corso del XX secolo ha avuto stagioni di particolare efficacia come quella della direzione affidata a Bernardino Nogara (negli anni 1929-1954, quindi sia nell’ambito dell’Amministrazione speciale che dello Ior), nonostante le gravi difficoltà generate dalla grande depressione mondiale seguita al crollo di Wall Street nel 1929 e quelle correlate agli eventi della seconda guerra mondiale, valorizzando appieno il suo ruolo personale ricoperto all’interno della Banca commerciale italiana. Tuttavia seguivano anche periodi di più discussa funzionalità, come quello della guida di Paul Marcinkus, specie in relazione al coinvolgimento nel crack del Banco ambrosiano datato 1982. Successivamente – con gradualità, successi e sconfitte – una serie di circostanze sia interne (le alternanze alla guida dell’ente) che esterne (e quindi ambientali, come l’instabilità dell’economia globale oppure la revisione degli accordi monetari intercorsi con l’Unione Europea per quanto concerne le norme sul riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo) hanno indotto a privilegiare obiettivi di sempre maggiore linearità e trasparenza proprio nella amministrazione dello Ior, ispirandosi anzitutto ai principi stabiliti nel Motu Proprio di Benedetto XVI datato 30 dicembre 2010 (istitutivo tra l’altro dell’Autorità di Informazione Finanziaria).

    Con il 1967 invece – nell’ambito della riforma della Curia vaticana fortemente voluta da Paolo VI – nasceva l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), istituzione che concentrava due precedenti uffici (l’Amministrazione dei beni della Santa Sede e l’Amministrazione speciale della Santa Sede) ed acquisiva le competenze di gestione dei beni complessivamente posseduti dal Vaticano destinati a fornire fondi necessari all’adempimento delle funzioni della curia romana, secondo uno schema in due sezioni: la sezione ordinaria si occupava dell’amministrazione del patrimonio della curia suddetta, la sezione straordinaria gestiva invece il patrimonio mobiliare di tutti gli enti vaticani. Vedeva la luce contemporaneamente la Prefettura per gli affari economici, quale istituto di vigilanza e di controllo formale dei bilanci economici redatti dai diversi organismi vaticani.

    Sempre a partire dalla metà del XX secolo, in sede locale diocesana e quindi con pratiche differenziate a seconda dei contesti e delle consuetudini, si radicavano talune procedure di gestione dei beni appartenenti alla Chiesa mediante l’istituzione ad esempio di Consorzi economici diocesani, mentre non raramente l’Ordinario o suo delegato partecipava alla nascita ed all’amministrazione di appositi enti (spesso fondazioni) creati per perseguire finalità assistenziali ed in generale caritative, dotati in certi casi di patrimoni finanziari anche ingenti. Il legame tra gerarchie ecclesiastiche e personalità del mondo economico (specie bancario), che spesso guidavano le citate istituzioni, costituisce ancora oggi uno dei tratti distintivi della presenza sociale cattolica nel tempo della globalizzazione.

    Il Concilio Vaticano II portava dal canto suo ad una ulteriore svolta maturata internamente alla Chiesa, che avrebbe condotto a definitive conseguenze nel medio periodo. Dando concretezza alle indicazioni avanzate nel decreto Presbyterorum ordinis (soprattutto al n.20), l’applicazione del canone 1274 del Codice di diritto canonico prevedeva il passaggio cadenzato dal precedente sistema beneficiale di retribuzione del clero ad un nuovo più moderno e più equo modello, caratterizzato dalla nascita degli Istituti diocesani (o interdiocesani) per il sostentamento del clero. A questi si giungeva concretamente all’indomani dell’accordo 15 novembre 1984 di revisione del Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, grazie anche alla legge n.222 del 20 maggio 1985 (in particolare il capo I) con la quale il governo nazionale si impegnava a continuare a corrispondere i supplementi di congrua fino all’entrata in vigore del nuovo sistema. I vecchi benefici ecclesiastici dunque si estinguevano e i loro patrimoni venivano devoluti ai suddetti Istituti, che succedevano ai primi in tutti i rapporti economici attivi e passivi. Da questa modalità di trasferimento rimanevano esclusi gli edifici di culto e tutti i beni estranei alla dote del beneficio che invece venivano trasferiti alle diocesi o alle parrocchie, appositamente individuate entro il 30 settembre 1986.

    A completamento del nuovo schema la Conferenza episcopale italiana ha attivato un Istituto centrale per il sostentamento del clero, nato con un fondo di dotazione conferito dalla CEI stessa. Le ulteriori entrate principali sono costituite, in base a quanto previsto dalla citata legge 222 (art.40), dalle oblazioni ricevute dai fedeli (detraibili dal reddito imponibile), come pure dalle somme derivanti dalla quota di imposizione nazionale (8 per mille dell’irpef) devolute a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa. Per sua natura l’Istituto centrale opera in via sussidiaria rispetto agli Istituti diocesani, i quali possono far fronte alle loro necessità attingendo ai rispettivi patrimoni ma altresì ricevendo il contributo dell’Istituto centrale in caso di bisogno.

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