Barocco – vol. I

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    Autore: Andrea Spiriti

    Al di là degli etimi/paretimi (la perla scarmazzzata “barroca”, il sofisma “baroco”), il termine gode attualmente di un’estensione semantica duplice: un senso estensivo e meramente cronologico per indicare la sviluppo artistico ed architettonico europeo (con cospicui influssi in America ed Asia) dall’ultimissimo cinquecento fino alla metà del settecento, con il problema dipendente del tardo barocco e del rococò; un senso specifico, a significare uno specifico “stile” basato sul nesso fra grandiosità e persuasione, fra teatralità e metamorfismo. Risulta palese il legame con l’evoluzione ideologica della Chiesa Cattolica, che fin dal Concilio di Trento si era trovata di fronte all’alternativa fra un’arte chiara, precisa nella trasmissione dei significati, comprensibile per quasi tutti, rigorosa e un po’ noiosa, cerebrale; ed un’arte coinvolgente, attenta alla dimensione psicoemotiva, inevitabilmente ambigua e polisemica, ossia più bella e più rischiosa. La durezza del contrasto con il mondo protestante e la percezione di rischio anche nelle aree rimaste cattoliche spinse alla prima scelta, che si tradusse in quel manierismo già definito “senza tempo”: una fase che giunge fino a Federico Barocci (peraltro già aperto ad un intimismo dolce dalla brande futuro ottocentesco) e che si chiude simbolicamente con il rogo di Giordano Bruno (1600). Le aperture successive (si pensi alla sorte molto meno tragica di Galileo) e la nascita del barocco vanno di conserva: e non è casuale la nodalità intellettuale ed artistica dei papati di Paolo V Borghese (1605-1621) e di Urbano VIII Barberini (1623-1644).

    Gli esiti trionfali del classicismo emiliano romanizzato (Correggio, i Carracci, Guido Reni, Domerichino, Francesco Albani, Guercino) e l’irriducibilità del Caravaggio, col suo naturalismo (preferirei iperverismo) che condivide istanze teatralizzanti e drammatiche ma gode di un proprio incatalogabile linguaggio, per poi divenire fenomeno europeo, non sono affatto fondativi di mondi in comunicanti, ma aperti ad un continuo interscambio: si pensi al tema del drappo angolare superiore che, nato con la Madonna Sistina di Raffaello si ripropone in contesto sacro per Caravaggio, in ambito ritrattistico per Rubens e Van Dyck. Questo rende spesso difficile la cronologia e la stessa appartenenza categoriale: esemplare il mondo milanese, dove Carlo Borromeo finanzia pittori di manierismo internazionale (Carlo Urbini, Aurelio Luini), mentre il secondo successore Federico Borromeo creerà l’iconografia carliana grazie a pittori tardo manieristici ma anche a cavaliere fra manierismo e barocco (Cerano, Morazzone) o fra classicismo e barocco (i Procaccini, Daniele Crespi). Così nell’Urbe il cardinale Scipione Borghese commissiona al giovane Bernini due opere paradigmatiche come il David e l’Apollo e Dafne: un binomio biblico e classico nel quale il rapporto non condizionato col passato rinascimentale si unisce ad un virtuosismo metamorfico molto più profondo della propria perizia tecnica. Ma ancora nell’età barberiniana vecchio e nuovo, barocco e no coesistono: così nello stesso palazzo di famiglia l’architettura di Carlo Maderno da Bissone, affiancato dai giovani Borromini e Bernini, racchiude gli affreschi scenografici di Pietro Berrettini da Cortona ma anche quelli classicisti di Andrea Sacchi. Del resto in età Borghese lo stesso Maderno –portatore della sapienza architettonica ed ingegneristica degli artisti dei laghi lombardi – aveva proseguito la linea di sistemazione di un monumento/simbolo quale la basilica vaticana iniziata dalla cupola dei Della Porta e del Fontana, raggiungendo un compromesso accettabile fra le due istanze di pianta centrale e pianta longitudinale che fin dall’età di Giulio II si erano alternate. In parallelo, un cantiere innovativo come la casa-madre filippina di Santa Maria in Vallicella vedeva coesistere sugli altari le opere di Barocci, Caravaggio e Rubens, visti come compatibili dalla committenza pilotata da Cesare Baronio. Il paradigma di questa fase è proprio Pieter Pauwel Rubens, sia per le sue tappe italiane (Milano, Mantova, Venezia, Firenze, Roma e soprattutto Genova) sia per il respiro europeo che presto assume la sua arte, con le grandi committenze per la propaganda di stato di Fillippo IV in Spagna, di Maria de’ Medici in Francia, di Carlo I in Inghilterra: non a caso sovrani, con diverse gradazioni, cattolici o filocattolici.

    Spesso mediata da quegli Ordini religiosi che una storiografia “episcopalista” ha sottovalutato, la diffusione di questo primo barocco nei centri italiani eccelle, per impatto urbano e qualità di realizzazioni, a Genova e a Napoli. Nel primo caso, la volontà patrizia di visualizzare il proprio status con scenografiche committenze sacre si traduce in spazi “ariosi” di forte impatto: esemplare la Santissima Annunziata del Vastato, coi grandi affreschi dei lacuali Carloni di Rovio. A Napoli il fittissimo tessuto di architettura dei regolari crea un percorso ininterrotto che ha il suo culmine nella certosa di San Martino al Vomero, con la volontà di servirsi dei migliori artisti degli altri territori della Monarchia Cattolica, dal lombardo Cosimo Aliprandi del Fanzago allo spagnolo Jusepe de Ribera. Questa dimensione ecumenica della Spagna filippina (oltretutto dominatrice, dal 1580 al 1640, del Portogallo e del suo immenso dominio coloniale) crea circolazioni di artisti ed opere di cui è difficile sminuire la portata; e che in Europa si traduce in un interscambio Madrid – Lisbona – Bruxelles – Milano – Napoli – Palermo – Cagliari, senza dimenticare le due piazze vitali per la Monarchia di Roma e Genova.

    Il successo di Bernini negli anni di Urbano VIII, la sua iniziale marginalizzazione clientelare e recupero trionfale nel periodo di Innocenzo X e la fase grandiosa di Alessandro VII scandiscono le tappe di una ditta il cui leader si gioca sempre più in un ruolo di regìa, coordinando competenze specifiche ed articolate, e declinandosi in realizzazioni che diventano paradigmi: si pensi ai modelli alternativi di tomba papale elaborati per Barberini (pontefice seduto, benedicente/trionfante) e per Chigi (pontefice inginocchiato orante). Né sul piano formale Bernini si astiene dalle arditezze metaforiche: si pensi alla Transverberazione di Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria (con la sua geniale lettura sottesa della poesia di Giovanni della Croce) o all’iconema del Lago di sangue. Anche sul piano architettonico la grandiosità del baldacchino petrino, l’articolazione scenografica della cattedra-gloria e l’ellissi della piazza colonnata costituiscono modelli di lunga fortuna europea.

    A Roma le alternative possibili sono due: il classicismo “greco”, sublime, idealizzato della scultura bolognese di Alessandro Algardi (si pensi all’altare petrino di San Gregorio Magno); e l’architettura “concettosa”, iperrazionalizzata eppure scenografica del lombardo Francesco Castelli il Borromini (San Carlo alle Quattro Fontane, Sant’Ivo alla Sapienza), capace al Laterano di un restauro filologico molto lacuale. Né va dimenticata la preziosa mediazione dei lombardi Ercole Ferrata ed Ercole Antonio Raggi, per un verso modelli a loro volta per la grande diffusione europea, che aveva portato gli artisti dei laghi ad alterare l’attività nei centri italiani con la conquista della Mitteleuropa, spesso utilizzando un medium tecnico adattissimo come lo stucco, modellato in intrecci manieristici e barocchi; e questo mentre a Roma l’eredità berniniana si declinava nelle scenografie del Baciccio, nella fioritura francesizzante, nel grandioso finale dell’altare di Sant’Ignazio al Gesù coordinato dal lombardo Andrea Pozzo, che peraltro nella sua attività di pittore (volta di Sant’Ignazio) porterà all’estremo la dialettica fra doxa e pistis, fra apparenza/parere e Fede. In parallelo l’attività napoletana, fiorentina e spagnola di Luca Giordano segnerà per un verso il trionfo di una pittura capace di rileggere Veronese in termini barocchi, per un altro di finire nel modo migliore la storia figurativa della Monarchia Cattolica di Spagna. E questo mentre lo Spatbarock dell’Europa Centrale creava straordinari complessi devozionali (spesso proseguiti nel Settecento, da Einsiedeln a Wies, da Vierzehnheilingen a Waldsassen) e i centri italiani raggiungevano il culmine dell’impatto urbano, dalle monumentali conferme di Milano, Genova, Napoli alla pirotecniche facciate di Venezia (Santa Maria del Giglio, San Moisé, peraltro con Sinai interno che riprendeva la grande lezione teatrale dei Sacri Monti lombardo-piemontesi seicenteschi, da Varallo a Varese ad Orta) e al borrominismo di Guarino Guarini a Torino (cappella della Sindone, San Lorenzo).

    Ed è sintomatico che già nel 1665 il celebre viaggio di Bernini a Parigi (programmato per fallire, e infatti simbolo dell’inizio nell’arte di quel primato francese che dal 1648 era dato politico) includa l’accettazione della sua scultura come strumento di propaganda e il rifiuto classicista della sua architettura, Ma questo contribuisce a spiegare perché l’ultimo barocco si delinei soprattutto in quella Mitteleuropa dove l’Austria asburgica diveniva (grazie alla genialità di Innocenzo XI Odescalchi, all’assedio ottomano del 1683, al nuovo asse Roma – Vienna – Varsavia) la potenza alternativa, unificata visivamente dal quel barocco dei lacuali già pronto, come avverrà nel primo quinquennio del Settecento a divenire rococò in netto anticipo sulla Francia. Ma proprio questa evoluzione segnerà le ambiguità del rocaille: per un verso la sua eredità linguistica barocca, per un altro la sostituzione all’estetica del grandioso della nuova estetica del delicato, del miniaturistico, del grazioso, con tutti i rischi conseguenti (e puntualmente avverati) di crisi del sacro come categoria artistica.


    LEMMARIO