Autore: Bernadette Majorana
Il teatro ha con la Chiesa in Italia un rapporto costante, che coinvolge a vario titolo tutta la comunità, chierici e laici, e suggerisce di essere affrontato attraverso le convergenze e le opposizioni, non meno che le contraddizioni con cui si delinea.
Alla fine del I secolo a.C. l’azione scenica si è ormai sciolta dalla parola letteraria e il corpo di mimi e pantomimi diventa il perno esibitorio dei theatra, suscitando la pura eccitazione sensoriale ed emozionale del pubblico: la Chiesa entra in contatto con la tradizione teatrale greco-romana mediante questo genere di spettacoli. Tertulliano, Lattanzio, Agostino e altri vi si oppongono per un insieme di ragioni, tra cui spicca appunto la condanna dell’offrirsi allo sguardo, giacché ritengono che il potere esercitato dalla finzione della scena, e in essa dagli histriones, produca nello spettatore passioni vere, ma oscure, che si trasmettono alla comunità in un contagio corruttore delle anime e dei corpi.
Insieme con l’opposizione della Chiesa, la fine dell’impero d’Occidente porta all’abbandono degli edifici teatrali e alla dispersione di quanti vivono di spettacolo. Le istituzioni e l’idea stessa di teatro si dissolvono e tuttavia parte del patrimonio drammaturgico si conserva al di fuori delle scene, nei monasteri, dove le opere latine vengono studiate e ricopiate.
D’altronde, per quel processo d’inculturazione raccomandato già da Gregorio Magno (VI-VII sec.), alcuni rituali drammatici si riversano nella teatralità cristiana alimentandola. Tra Natale ed Epifania, per esempio, dal X secolo il clero minore realizza feste che, come quelle pagane del passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo, si basano sul mascheramento e sul sovvertimento dei ruoli sociali. Nonostante le denunce dei canoni conciliari, esse restano vive fino al XVI secolo.
L’arte dell’attore perdura intanto sotterraneamente, saldandosi con le pratiche barbariche per poi riconfigurarsi nell’attività eclettica dei giullari (non vi sono rari i clerici, benché condannati da Bonifacio VIII): i giullari si esibiscono senz’altro apparato che quello di corpo e voce, ovunque si possa formare un gruppo di spettatori. Le censure ecclesiastiche ne stigmatizzano l’inutilità, l’esteriorità fittizia, il parlare vano, gli eccessi gestuali, l’alterazione dell’aspetto, cioè dell’immagine di Dio riposta in ogni uomo. La corrispondenza tra condotte teatrali e cattiva vita si ritiene indubitabile, manifesta nel nomadismo e nella mercificazione del corpo esibito per guadagno. La professione teatrale viene però riconsiderata nel quadro della scolastica e in particolare da Tommaso d’Aquino (XII-XIII sec.), ma l’orientamento della Chiesa resta negativo, nel tentativo di frenare l’adesione dei cristiani all’offerta di spettacolo giullaresca, estesa e pervasiva, apprezzata nelle corti e presso gli ecclesiastici (soggetti perciò, nel 1286, ai richiami del Concilio di Ravennna), fino alla Roma pontificia del XVI secolo e oltre.
Teatro e Chiesa s’incontrano, all’opposto, sul terreno dei riti e della liturgia, della festa, della devozione, dell’educazione cristiana, dove l’esperienza teatrale non è mestiere ma eccezione, principio ordinatore di una intenzione comunicativa o partecipativa, ed è svolta senza fini economici. Sino all’avanzata età moderna la legittimazione delle attività comprese in questo orizzonte contrasta con gli attacchi mossi parallelamente agli attori professionisti, fondandosi sulla possibilità di informare il teatro a strumenti e scopi della Chiesa e del suo magistero.
In alcune solennità cristiane la liturgia esprime dal X secolo azioni note come drammi o uffici liturgici, sviluppatesi nelle chiese abbaziali e cattedrali e rese possibili dalla duttilità della liturgia, nella quale s’inquadrano: queste azioni, dialogate, articolate nello spazio della chiesa, compiute dai chierici nell’ambito ristretto della loro comunità, sono originariamente prive di intento spettacolare. Dal XII secolo, però, la presenza dei fedeli, la varietà drammaturgica e la caratura teatrale raggiunta da talune azioni dipendenti dalla liturgia segnalano finalità ulteriori, la volontà di educare il popolo attraverso di esse, istruendolo suggestivamente sul senso ultimo del mistero cristiano. L’ufficio più antico, detto Visitatio sepulchri, l’incontro delle Marie con l’Angelo presso il sepolcro vuoto, si svolge al termine del Mattutino di Pasqua. A questo si aggiungono episodi evangelici contigui e legati al ciclo di Natale, documentati fra XII e XV secolo. Col diversificarsi dei soggetti (biblici, agiografici, morali) crescono anche personaggi e scene, fornite di testi in versi, didascalie, notazioni musicali; gli allestimenti nelle chiese si fanno più studiati e impressionanti, come per esempio il volo dell’Angelo nelle feste dell’Annunciazione (Parma ante XV sec., Firenze 1439).
I drammi liturgici non subiscono censure in Italia, dove sopra tutti s’impongono gli uffici del tempo di Passione: la cosiddetta Passione cassinese ne è il documento più antico (XII sec.); il Planctus Mariae di Cividale (XIV sec.) e in generale quelli dell’area veneto-friulana ne sono esempi importanti. Ma è al di fuori della liturgia che il legame tra la Madonna e il Cristo sacrificato diventa il perno del teatro religioso italiano: si tratta della lauda in volgare, sorta nell’ambiente laico delle confraternite d’ispirazione penitenziale e diffusasi tra XIII e XV secolo in forma drammatica dall’Umbria in molte parti d’Italia (in Abruzzo o a Roma, per esempio, dove ogni Venerdì santo, fino al 1539, l’Arciconfraternita del Gonfalone allestisce al Colosseo una Passione che influenza tutto il Lazio). Debitrice ai giullari per le forme metriche, la lauda ha impianto dialogico a più personaggi; gli autori sono anonimi, forse ecclesiastici o laici letterati; i membri delle confraternite realizzano l’allestimento e sostengono tutte le parti, cantate e recitate. Rappresentata in chiesa a Quaresima e nella Settimana santa, la lauda si estende presto ad altri tempi e temi religiosi; in ambito francescano e domenicano viene anche integrata nella predicazione. Le sacre rappresentazioni fiorentine (XV sec.), di ambiente borghese, estinguono l’austera potenza devozionale della lauda, da cui provengono, accentuando la psicologia dei personaggi, la ricercatezza letteraria e l’invenzione degli apparati. Intanto la festa del Corpus Domini assume rilievo rispetto a quelle locali dei santi patroni, spesso destinate a rimanere inalterate per secoli: a Viterbo, nel 1462, la processione eucaristica è guidata da Pio II, che ne delinea anche l’assetto spettacolare e gli elementi drammatici, testimonianza di criteri festivi operanti nella comunità dall’alto, secondo un preciso progetto intellettuale.
Ripensando l’antichità classica, la civiltà curtense e umanistico-rinascimentale fornisce contenuti e forme a questa nuova concezione, dove convergono tutte le espressioni della cultura più attuale. A Roma la Chiesa costruisce un nuovo Stato, di cui la festa è immagine e strumento politico. Evento extra-quotidiano, che si manifesta nella metamorfosi temporanea dei luoghi cittadini e dell’aspetto di persone e gruppi partecipanti alle azioni pubbliche, la festa s’impernia sulla esibizione del potere gerarchico, rappresentando al contempo una società ideale. Da Pio II a Leone X e oltre, i papi la promuovono e ne sono protagonisti: paradigmatico il possesso, magnifica cavalcata processionale che conduce il pontefice appena incoronato da San Pietro al Campidoglio a San Giovanni in Laterano. Le feste religiose sono regolari e frequenti (ricorrenze solenni, traslazione di reliquie, giubilei: per quello del 1500 Alessandro VI fa rappresentare un trionfo di Cesare con dieci carri); si affiancano a quelle politiche (paci, conquiste, vittorie), a entrate trionfali di principi (nel 1471 Paolo II fa apparare sontuosamente la città per l’arrivo di Borso d’Este, a cui dedica un mese di feste; tuttavia il cardinal Ammannati Piccolomini esprime viva riprovazione al papa amante di lussi e spettacoli) e alle feste profane di tradizione cittadina come il Carnevale, a cui le corti romane contribuiscono con nuovi intrattenimenti: banchetti-spettacolo, musiche, rappresentazioni drammatiche e allegoriche, recitate, cantate, danzate, buffoni, attori, declamazioni oratorie. La recitazione delle opere classiche, avviata dal retore Pomponio Leto nello Studium Urbis, viene sostenuta dai papi e dai cardinali: l’agere sulla scena degli oratores riveste funzione morale nella civitas christiana (celebre, nel 1486, un Ippolito di Seneca). La commedia italiana ha a Roma la propria consacrazione: fra le altre si allestiscono in Vaticano, davanti a Leone X, la Calandria del cardinal Bibbiena, con scene di Baldassarre Peruzzi (1514), e I suppositi di Ariosto, con scene di Raffaello (1519). La Chiesa diventa inoltre soggetto drammaturgico: nella Cortigiana dell’Aretino (1525) le corti di Leone X e Clemente VII sono il centro di ogni intrigo, frati e preti sono personaggi ambigui e ridicoli nella Mandragola di Machiavelli, messa in scena anche per Leone X (1520).
Dalla metà del XVI secolo la scena teatrale si distingue dalla festa: viene coltivata nelle corti private e nelle dimore signorili a Roma e altrove, consentendo sperimentazioni impegnative, come quelle del teatro di palazzo Barberini, aperto dai cardinali nipoti di Urbano VIII, dove operano insieme scenografi come Gian Lorenzo Bernini, drammaturghi come Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX, e importanti musicisti.
Le riforme e il Concilio di Trento determinano trasformazioni importanti. I padri conciliari non si esprimono riguardo alla rappresentazione teatrale, che a differenza della figurativa non è investita di questioni dottrinali dirette e urgenti; ma la separazione di sacro e profano, di alto e basso, la depurazione delle pratiche devote e collettive da ciò che è considerato eterodosso, osceno, indiscreto, irrisorio toccano subito la pratica teatrale, struttura portante della vita sociale: seguito da altri vescovi, Carlo Borromeo vieta esemplarmente la rappresentazione della Passione e di storie di santi, riconducendone i contenuti a narrazioni fatte dai predicatori in chiesa, cioè alla competenza sacerdotale, agli spazi sacri e, quanto ai laici, a una pietà più interiorizzata (1565); proibisce le azioni teatrali profane estranee al tempo festivo e al culto, come le mascherate e i riti di fecondità e corteggiamento del primo di maggio, da sostituire con la venerazione dei santi del giorno (1569, 1579). Tuttavia, nelle aree marginali di campagna e di montagna, molte esperienze tradizionali resistono, anche per l’adesione a esse del clero curato.
Nel contesto post-tridentino la Chiesa non è però soltanto controparte del teatro. La strategia comunicativa e persuasiva cattolica comprende una intensa azione spettacolare, imponente in molte città (Roma, Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo): la festa è progetto retorico universale (il modello romano è esteso fino agli estremi confini dell’orbe cattolico), attento al piacere e alla comprensione dei dotti come degli illetterati, realizzato attraverso le più avanzate risorse tecniche e artistiche; l’artificio visivo vi è cruciale e la musica vi ha parte cospicua. Si affermano nel XVII secolo le quarantore, a santificazione delle profanità del Carnevale, le pompe funebri, macchine macabre grandiose e visionarie, le feste per le beatificazioni e le canonizzazioni che in ogni città seguono al rito celebratosi a Roma. Si può parlare di pastorale festiva non meno che di pastorale drammatica: la scena confessionale si pone sotto il segno della edificazione e della esemplarità delle condotte, incorporandosi in nuove realtà pedagogiche e devote. Collegi, accademie, congregazioni sono agenti di un teatro offerto alla collettività come esercizio virtuoso e pio intrattenimento, vincolato alla drammaturgia scritta (circolante a stampa anche per la lettura), recitato da dilettanti che sottoponendosi a una lunga preparazione, da cui non è esclusa la componente ludica, perfezionano i procedimenti attoriali di stampo oratorio a fini etico-pratici e d’intrattenimento, personali e sociali. Gli spettacoli si svolgono in occasioni straordinarie e in luoghi collegati al gruppo che li realizza: gesuiti, barnabiti, somaschi allestiscono, per esempio, sale e cortili delle loro scuole e gli apparati scenici vi raggiungono notevole complessità. Le produzioni dei collegi della Compagnia di Gesù, in latino e col Sei-Settecento sempre più in italiano, sono da Siracusa a Milano un fenomeno pubblico di grande rilevanza. Si afferma la tragedia spirituale e s’incrementano i soggetti agiografici, figure storiche che fra antichi martiri e nuovi santi rispondono tanto al criterio filologico che guida le indagini sulla Chiesa delle origini, quanto alle recenti prospettive della santità, incentrata sulla imitabilità dei più alti modelli cristiani. La sapienza scenica dei dilettanti (sempre maschi) determina uno scarto rispetto ai comportamenti quotidiani di attori e spettatori, ed esso stesso si qualifica come essenza ed eccellenza dell’esempio rappresentato (sulla base di questa consapevolezza, il missionario gesuita Paolo Segneri, già ottimo attore nel Collegio Romano e oratore di rango, usa la propria competenza drammatica nella predicazione ai semplici delle aree rurali, mettendo a punto nel 1671 una performance di grande efficacia compuntiva, sorte di emblema vivente della conversione, adottata e sviluppata da molti suoi seguaci). Già dal primo Cinquecento, intanto, e fino a tutto il secolo seguente, i conventi femminili danno spazio sotto forma di intrattenimento devoto e riflessivo alla commedia spirituale, recitata dalle novizie e poi dalle stesse monache per un pubblico ristretto.
Questo teatro, non solo ammesso in seno alla Chiesa, ma da essa anche promosso e regolato, si afferma mentre dalla metà del XVI secolo avanza con immensa fortuna il teatro dei professionisti: la Chiesa condanna quella che sarà poi detta commedia dell’arte servendosi più che di provvedimenti formali, parziali ed episodici, della predicazione, coscienziosa e capillare secondo le disposizioni tridentine. Gli antichi argomenti delle auctoritates contro istrioni pagani e giullari sono attualizzati in ragione degli aspetti specifici del moderno professionismo, vera e propria industria del divertimento: compagnie organizzate e itineranti, specializzazione drammaturgica (maschere e improvvisazione su canovaccio), economia di mercato (pubblico pagante indifferenziato). La novità maggiore è la presenza della donna, che mai aveva avuto un posto parimenti decisivo nella tradizione teatrale europea, pagana e cristiana: non più soltanto canterine o ballerine, come talvolta se n’erano viste, le donne dell’arte recitano come gli uomini ed esercitano una seduzione potente. Sulle scene dell’arte s’incarna l’anti-modello cristiano, facile, irrazionale, opposto a quello grave e pensoso del teatro dei dilettanti. I comici più coltivati rispondono ai detrattori affidando alle stampe la difesa morale del proprio mestiere e protestano la loro personale aspirazione alla perfezione cristiana, non disgiunta dalla disciplina recitativa quotidiana, esempio della possibilità di percorrere nel proprio stato la via della santità. D’altronde, l’offensiva ecclesiastica è di poco esito: al di fuori del tempo festivo, il successo è difficile da contenere e in assenza di testi drammatici scritti in forma distesa non lo si può nemmeno censurare preventivamente. Lo attestano, fra gli altri, i tentativi di Borromeo a Milano e di Paleotti a Bologna.
Le opposizioni della Chiesa vanno scemando nel XVIII secolo, mentre la pratica dilettantesca di uomini e donne si diffonde in ogni ambiente (i sacerdoti non sono rari), si aprono molti teatri pubblici, si rinnova il professionismo e, da Muratori (1706) fino a Manzoni (1823), si dibatte sulla riforma di generi, attori e recitazione per un teatro necessario alla maturazione morale della società. Nella disputa tra l’arcade Scipione Maffei, rinnovatore della tragedia italiana, assertore di un teatro aperto a tutti, e il domenicano Daniele Concina, che vuole la proibizione di ogni forma di spettacolo, Benedetto XIV si pronuncia a favore del primo (1753).
Il 1798-99 vede la Roma pontificia consacrata alla Repubblica dalle feste rivoluzionarie francesi: sulla resa di Pio VI a Napoleone si allestisce subito, alla Scala di Milano, senza che l’arcivescovo possa fermarlo, Il ballo del papa, pantomima del massone Fracncesco Saverio Salfi (1797). Nel processo risorgimentale, melodrammi, tragedie come quelle di Silvio Pellico, attori di rilievo come il mazziniano Gustavo Modena e i suoi allievi appassionano alla causa patriottica. Ma il nodo dei rapporti fra Stato e Chiesa impegna la censura teatrale prima e dopo l’unità, a tutela del sentimento religioso e dei rischi di scontro causati dagli attacchi alla figura del papa, ai religiosi (domenicani e gesuiti in ispecie), ai parroci: l’anticlericalismo, meditato o demagogico, caratterizza una gran quantità di drammi e commedie. Dopo la proclamazione del Regno le feste pontificie intendono rappresentare efficacemente, nei cortei splendidi, nella presenza delle milizie, negli apparati sontuosi, nelle allocuzioni ai prelati e ai fedeli spettatori, la potenza del capo di Roma e la gravità della minaccia sulla Chiesa: nel 1862, convenuti cardinali e vescovi da ogni parte dell’orbe cattolico, partecipe un’immensa folla, Pio IX canonizza i ventisei martiri uccisi in Giappone nel 1597 indicandoli esplicitamente come esempio del coraggio necessario a fronteggiare gli italiani nemici della religione. Una magnifica macchina pirotecnica, raffigurante la Gerusalemme dell’Apocalisse, incendiata per la Pasqua del 1870, è l’ultimo segno spettacolare della Roma dei papa-re.
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