Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Concilio di Trento - vol. I


Autore: Elena Bonora

Fu convocato a Mantova nel 1536, poi a Vicenza e nel 1542 a Trento, città dell’Impero al di qua della Alpi sottoposta all’autorità del principe-vescovo, e quindi luogo adatto alla mediazione con i protestanti, ma fu subito sospeso a causa della guerra tra Carlo V e il re di Francia. Dopo tanti rinvii, indetto nuovamente da Paolo III Farnese con la bolla Laetare Jerusalem nel novembre 1544, fu solennemente aperto il 13 dicembre 1545 a Trento. Di qui nel marzo del 1547 fu trasferito a Bologna, città pontificia. La traslazione, motivata da Roma con il diffondersi di un’epidemia, provocò la protesta ufficiale di Carlo V. Mentre i vescovi filoimperiali restavano a Trento e tra gli osservatori contemporanei si diffondeva il timore dello scisma, la sguarnita assemblea conciliare si prolungò stentatamente a Bologna sino alla morte del papa nel novembre 1549 (prima fase). Riaperto a Trento da Giulio III Del Monte nel maggio 1551 e nuovamente sospeso un anno dopo per la ripresa delle ostilità franco-asburgiche (seconda fase), il concilio non fu riconvocato durante il pontificato dell’intransigente Paolo IV Carafa, impegnato in una rovinosa politica anti-imperiale e anti-spagnola. Fu riaperto a Trento solo il 18 gennaio 1562 sotto il successore, il milanese Pio IV Medici, e portato a termine a tappe forzate il 4 dicembre 1563 (terza fase). Vi parteciparono, oltre ai vescovi, anche un folto numero di teologi e canonisti privi del diritto di voto, i generali e gli abati degli ordini regolari nonché, in qualità di osservatori, gli ambasciatori delle grandi potenze che avevano un forte peso sui loro episcopati. I lavori si svolsero sotto il saldo controllo di cardinali legati pontifici. Se durante le prime due fasi l’affluenza dei vescovi era stata scarsa e prevalentemente italiana, nella terza vi fu una consistente partecipazione anche di spagnoli e francesi.

Le due massime autorità dell’Europa cristiana – il papa e l’imperatore – guardavano al concilio da diverse prospettive. Nelle intenzioni dell’imperatore esso avrebbe dovuto in via preliminare affrontare le questioni disciplinari con una severa riforma dei costumi ecclesiastici e della corte romana: ciò avrebbe permesso di dividere e indebolire il fronte dei principi protestanti organizzati nella lega di Smalcalda contro i quali era imminente la guerra, ponendo nel contempo le premesse per una conciliazione della cristianità. Il pontefice invece, temendo un attacco alla propria autorità e al sistema ecclesiastico-istituzionale su cui si basava, premeva per la definizione delle questioni teologiche contro le dottrine di Lutero. A Trento si decise di trattare simultaneamente i due ordini di problemi, ma sin dalla prima fase furono approvati una serie di decreti che sancirono la rottura con il mondo riformato.

Nonostante le voci dissenzienti, il prevalere delle posizioni teologiche dei grandi ordini mendicanti condusse al decreto del gennaio 1547 che ribadì il valore salvifico delle opere contro la giustificazione sola fide dei protestanti. La volontà di una netta definizione dell’ortodossia e l’irrigidimento delle posizioni confessionali furono evidenti anche sul nodo decisivo delle fonti della Rivelazione. Contro il sola Scriptura dei luterani si stabilì infatti l’eguale importanza della tradizione orale amministrata dalla Chiesa; fu fissato il canone della bibbia; si dichiarò che la Vulgata di s. Girolamo era la sola traduzione latina autorizzata. La dottrina del peccato originale fu parimenti definita in chiave anti-protestante; i sacramenti (dei quali si ribadì il significato di «segni efficaci della grazia», cioè il valore salvifico per il fedele) furono confermati nel numero di sette contro i due ammessi dalla dottrina luterana (battesimo ed eucaristia). Furono decretati il carattere di sacrificio della messa e l’uso del latino nella liturgia. Più avanti furono riaffermati l’esistenza del Purgatorio, la validità delle indulgenze, il culto dei santi e della Vergine.

I decreti relativi alla riforma delle strutture ecclesiastiche non riguardarono gli organi di governo romani, vertici mai neppure lambiti dai dibattiti tridentini, ma la riorganizzazione delle chiese locali attraverso il potenziamento del ruolo dell’episcopato. Ciò avvenne soprattutto nella terza fase, allorché la consistente partecipazione di vescovi francesi e spagnoli rese più difficile per la curia romana il controllo dei dibattiti conciliari, come mostrano gli aspri scontri sull’obbligo della residenza che, qualora dichiarato di diritto divino, avrebbe privato i dicasteri romani e il papa della possibilità di concedere dispense in deroga.

Al fine di combattere il diffuso fenomeno dell’assenteismo si vietò il cumulo dei benefici con cura d’anime, imponendo l’obbligo della residenza per vescovi e parroci. Si decretò l’erezione di seminari per la formazione del clero diocesano, cui furono imposti con nuova rigidità il celibato ecclesiastico e l’abito talare allo scopo di instaurare quella separatezza tra chierici e laici che la dottrina luterana del sacerdozio universale negava. Richiamando in vigore antiche prescrizioni si rinnovarono l’obbligo per l’ordinario o i suoi collaboratori di effettuare le visite pastorali; si prescrisse la convocazione triennale dei concili provinciali e quella annuale dei sinodi diocesani.

Sinodi e concili erano le sedi per l’esercizio delle funzioni legislative e di governo delle chiese locali sotto l’autorità del vescovo, mentre le visite pastorali rappresentavano il momento della verifica e del controllo oltre che degli ecclesiastici, anche della vita religiosa dei fedeli. Nei loro confronti, i parroci furono incaricati di organizzare scuole per insegnare la dottrina cristiana, della redazione dei registri parrocchiali dove annotare battesimi, matrimoni sepolture e della compilazione degli status animarum (stati delle anime) dove veniva registrato l’assolvimento dei precetti religiosi da parte dei parrocchiani tenuti alla confessione e alla comunione annuali. L’imposizione di forme rituali (i sacramenti) rigidamente definite e controllate dalla Chiesa e la clericalizzazione delle tappe fondamentali della vita umana modificarono, non senza tenaci resistenze, pratiche sociali diffuse e consolidate, come dimostra il profondo cambiamento della disciplina matrimoniale introdotto dal decreto conciliare Tametsi dell’11 novembre 1563.

A conclusione dei lavori, l’assemblea affidò al papa alcune importanti integrazioni tra le quali la pubblicazione dell’indice dei libri proibiti (1564), la redazione del catechismo per i parroci (1566) e la riforma dei libri liturgici (1568-1570). Nel caso del catechismo, però, il progetto di un agile e chiaro testo su modello erasmiano auspicato da molti padri a Trento trovò ben diversa realizzazione nel Catechismus romanus, ponderosa sintesi teologica redatta da tre domenicani.

Il decreto tridentino del 1546 aveva stabilito contro il libero esercizio della critica testuale di filologi e umanisti che la Vulgata era l’unica traduzione latina della bibbia ammessa dalla Chiesa. Solo nel 1592 e dopo varie traversie l’edizione ufficiale fu pubblicata e imposta d’autorità ai cattolici. Un’altra integrazione alla normativa conciliare fu la professio fidei (14 novembre 1564), ossia la professione di fede obbligatoria per ecclesiastici ma anche per medici e maestri all’atto di assunzione del loro ufficio, che riassumeva i principi dottrinali fissati dal concilio e si concludeva con la promessa di obbedienza all’autorità papale.

Nel corso delle ultime delicate battute del concilio era fallito il progetto (utilizzato da Roma anche come strumento di pressione politico-diplomatica) di affrontare la «riforma dei principi», ossia di far approvare misure atte a salvaguardare la giurisdizione ecclesiastica rispetto ai poteri civili. I sovrani opposero privilegi e diritti dei loro stati, rafforzati da quei concordati e concessioni papali che tra Quattro e Cinquecento avevano accentuato il carattere nazionale delle loro Chiese e la subordinazione di queste all’autorità del re. Di tali aspetti occorre tener conto nel valutare la ricezione europea del concilio. Prontamente accolta dagli stati regionali italiani, dal Portogallo e dalla Polonia, la normativa conciliare fu infine ufficialmente approvata da Filippo II di Spagna ma con limitazioni verso quei decreti considerati lesivi delle prerogative regie. Nell’Impero la pubblicazione del concilio si rivelò impossibile così come in Francia dove si scontrò con la tradizione gallicana, largamente condivisa dalle massime istituzioni civili del regno e dallo stesso clero francese, nonché con gli assetti giuridico-istituzionali originati dalle guerre di religione. Il re di Francia quindi non confermò i decreti tridentini neppure quando furono infine approvati dall’Assemblea del clero nel 1615.

Con la bolla Benedictus Deus (30 giugno 1564) Pio IV promulgò i decreti tridentini avocandone l’interpretazione alla congregazione cardinalizia del Concilio appositamente istituita per risolvere i problemi e i dubbi che le innovazioni avrebbero creato nella loro applicazione, e in seguito incaricata anche di valutare la congruità con la normativa tridentina della produzione legislativa dei vescovi a livello locale.

Si trattava di una straordinaria affermazione del centralismo romano ottenuta attraverso la secretazione e il monopolio dell’interpretazione delle norme conciliari. La Santa sede bloccò infatti la già annunciata edizione degli atti (che fu realizzata solo a partire dal 1901) e vietò tassativamente di stampare senza autorizzazione papale ogni commento o glossa ai suoi decreti, cui si aggiunse in seguito la proibizione di pubblicare senza licenza i decreti della congregazione cardinalizia del Concilio.

Negli anni successivi il disegno di rinnovamento basato sul rafforzamento della funzione episcopale e della parrocchia si dovette confrontare oltre che con le tenaci resistenze provenienti dalla società e dalle autorità civili, anche con gli ostacoli frapposti da logiche e componenti interne all’istituzione ecclesiastica. L’esigenza strutturale del papato di impiegare gli ordinari negli incarichi istituzionali connessi al governo della Chiesa e dello stato pontificio fu spesso all’origine dell’inadempienza dell’obbligo tridentino della residenza. Lo strumento della deroga di concessione papale incise anche sulle facoltà di reclutamento del clero diocesano da parte del vescovo, dal momento che attraverso il meccanismo della resignazione molti cardinali nel rinunciare a un vescovato non solo trattenevano una parte preponderante delle sue entrate, ma potevano riservarsi il diritto di nomina ai benefici vacanti di collazione vescovile nella diocesi cui avevano rinunciato. La stessa selezione dei vescovi fu accentrata in curia e condotta sulla base delle informazioni provenienti dai nunzi delegati papali, laddove invece il Tridentino aveva attribuito un importante ruolo ai concili provinciali nel vaglio dei candidati.

Per aggirare il divieto del cumulo di benefici fissato dal concilio, le mense episcopali furono gravate di pensioni istituite a vantaggio di terzi accordate direttamente dal papa che ne decurtavano l’entità in misura ben superiore alla percentuale massima (1/3) consentita dai canoni conciliari. In questo modo le entrate per mezzo delle quali i vescovi avrebbero dovuto finanziare le riforme (ad es. l’erezione dei seminari) venivano dirottate a favore di cardinali, di curiali e persino dei tribunali inquisitoriali, secondo una logica da cui emerge come i pontefici privilegiassero il rafforzamento del proprio patronage e il consolidamento degli apparati coercitivi della Chiesa piuttosto che il rinnovamento tridentino delle chiese locali.

Occorre inoltre ricordare come l’esercizio delle prerogative dell’Inquisizione, progressivamente allargatesi dall’eresia teologica al campo del controllo sociale, interferisse sovente in modo conflittuale oltre che con l’attività giudiziaria svolta dai tribunali episcopali, anche con il governo pastorale del vescovo e con i progetti di riforma fondati sulla sua autorità. Ma soprattutto, i vescovi non potevano contare sull’appoggio della Santa sede contro quanti – chierici e laici – continuamente si rivolgevano ai dicasteri centrali (come la congregazione dei Vescovi e regolari) o ai tribunali delle nunziature rivendicando esenzioni e privilegi per sottrarsi alla giurisdizione dell’ordinario. E se i ricorsi a Roma erano di norma in grado di legare le mani ai vescovi, specie a quelli più deboli ed esposti dell’Italia meridionale, le dilazioni e i ritardi con i quali in curia si ratificavano gli atti sinodali (diocesani e provinciali) alla lunga riuscirono a fiaccare lo slancio riformatore anche degli ordinari post-tridentini più zelanti e agguerriti.

A Trento i vescovi avevano tentato di limitare il monopolio detenuto dagli ordini religiosi sulla predicazione nonché i tradizionali privilegi ed esenzioni che li sottraevano al controllo degli ordinari diocesani. Ciononostante i regolari mantennero un’importanza centrale nella cura d’anime e nella vita religiosa: nella predicazione, nell’assistenza, nella confessione, nell’educazione e nell’organizzazione delle devozioni. Ciò avvenne grazie alla riconferma e all’ampliamento dei loro privilegi ed esenzioni da parte dei pontefici post-tridentini, per i quali la struttura gerarchica e centralizzata degli ordini e i vincoli d’obbedienza che la percorrevano costituivano un capitale prezioso da valorizzare e di cui servirsi rispetto alle tendenze autonomistiche dei vescovi e all’intreccio di fedeltà che spesso legava il titolare di una diocesi alle autorità civili.

Il progressivo depotenziamento operato dalla Santa sede delle soluzioni e degli strumenti operativi emersi dai dibattiti conciliari nonché delle aspirazioni di riforma che ne erano all’origine si accompagnò già all’indomani della chiusura del concilio a una precoce esaltazione agiografica e di maniera del Tridentino. L’uso strumentale del tridentinismo ai fini dell’autorappresentazione della Chiesa post-conciliare, il suo diventare categoria ideologica e di maniera entro una realtà che invece aveva seguito altre direzioni furono lucidamente analizzati da Paolo Sarpi nell’Istoria del concilio tridentino (Londra, 1619).

Solo a partire dalla fine del Seicento e nel corso del secolo successivo il confronto con le profonde trasformazioni operanti nella cultura e nella società, nonché la necessità di rispondere con strutture e uomini adeguati agli attacchi delle autorità civili e delle loro sempre più sviluppate burocrazie, condussero progressivamente la Santa sede a fare assegnamento sulla centralità degli episcopati e sulle riforme tracciate dal Tridentino.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Alberigo, I vescovi italiani al concilio di Trento (1545-1547), Firenze, Sansoni, 1959; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, 4 voll., Brescia, Morcelliana, 1973-812; E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari, Laterza, 2007; Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992; Il concilio di Trento come crocevia della politica europea, a cura di H. Jedin e P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 1979; Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna, Il Mulino, 1996; Il concilio di Trento nella prospettiva del terzo millennio, a cura di G. Alberigo e I. Rogger, Brescia, Morcelliana, 1997; C. Donati, Chiesa italiana e vescovi d’Italia dal XVI al XVIII secolo. Tra interpretazioni storiografiche e prospettive di ricerca, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XXX, 2004, 375-389; P. Prodi, Il paradigma tridentino. Un’epoca della storia della Chiesa, Brescia, Morcelliana, 2010; A. Prosperi, Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001; A. Tallon, Il concilio di Trento, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2004; I tempi del concilio. Religione, cultura e società nell’Europa tridentina, a cura di C. Mozzarelli e D. Zardin, Roma, Bulzoni, 1997; M. Mancino – G. Romeo, Clero criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2013.


LEMMARIO