Autore: Pasquale Bua
Le sorti dell’ecclesiologia italiana dall’unità nazionale ai nostri giorni sono strettamente legate ai due principali eventi ecclesiali di questo lungo periodo: il concilio Vaticano I (1869-70) e il concilio Vaticano II (1962-65), certamente i due concili più “ecclesiologici” della storia della Chiesa. Sebbene oggetto di apposita trattazione in altri luoghi di questo Dizionario, essi rappresentano lo sfondo dottrinale imprescindibile per comprendere lo sviluppo della teologia della Chiesa nei 150 anni dell’Italia unita.
Come è noto, le sorti del Vaticano I e quelle del Belpaese sono intimamente intrecciate, giacché il concilio presieduto da Pio IX, dominato fin dall’inizio da un’aperta ostilità verso le mire risorgimentali sulla scorta del Syllabus emanato nel 1864, venne interrotto e posticipato sine die in seguito alla presa di Roma il 20 settembre 1870, allorché il Regno d’Italia veniva completato manu militari a spese del potere temporale del papa. A questo si aggiunga che nel 1873 il parlamento nazionale decretava la soppressione delle facoltà di teologia nelle università di stato, ufficializzando così l’esclusione del pensiero teologico dalla cultura italiana. Non senza ragione, nel 1897, Achille Ratti, futuro Pio XI, doveva riconoscere con amarezza: «Veri studiosi ed anche veri scienziati e di alto valore ce ne sono tra i cattolici italiani, ma una scienza cattolica italiana, ma un largo movimento cattolico, schiettamente e rigorosamente scientifico, fra noi non c’è». Da quel momento in poi, la teologia italiana dipese in larga misura dagli orientamenti delle università pontificie, visto che da queste proveniva la maggior parte dei docenti dei seminari, contentandosi al più di seguire al rimorchio le intuizioni migliori delle correnti di pensiero transalpine.
La chiusura anzitempo del Vaticano I determinò pesantemente il destino dell’ecclesiologia postconciliare, e questo per due ragioni diverse, l’una di tipo dottrinale e l’altra di tipo contingente, che tuttavia si rivelavano in ultima analisi convergenti. Anzitutto, al momento della presa di Porta Pia lo schema De Ecclesia non era stato ancora approvato, ad eccezione del solo capitolo De Romano Pontifice che, isolato dal suo contesto originario ed ampliato con il dogma dell’infallibilità, era stato promulgato il 18 luglio 1870. D’ora in poi la costituzione dogmatica Pastor Aeternus sarebbe venuta a rappresentare, per forza di cose, la magna charta dell’ecclesiologia cattolica. In secondo luogo, la “questione romana” imponeva anche ai teologi nostrani di prendere posizione per difendere l’indipendenza, la libertà e la sovranità del papa, autoproclamatosi “prigioniero” tra le mura vaticane.
Non stupisce, con tali premesse, che l’ecclesiologia postconciliare finì per occuparsi quasi esclusivamente dell’autorità della Chiesa nella sua forma monarchica di governo sotto il successore di Pietro, sposando non di rado quella concezione ultramontanista dell’infallibilità pontificia che pure il concilio si era guardato bene dall’avallare. L’accentuazione papalista divenne tale che l’ecclesiologia non appariva in fondo che una «gerarcologia» (Y. Congar), dominata da una visione verticista e piramidale. Indicativo di questo clima è il Tractatus de Romano Pontifice cum prolegomeno de Ecclesia di Domenico Palmieri (1829-1909): già il titolo mostra che la dottrina della Chiesa è ridotta di fatto a una mera introduzione della trattazione apologetica del primato petrino. Inoltre, l’impostazione controversistica posttridentrina, esacerbata dal contrasto della Chiesa con il “mondo moderno”, impegnava i teologi a dimostrare che la “vera Chiesa”, quella fondata da Cristo, è esclusivamente la Chiesa cattolica romana, e questo attraverso le notae utilizzate in chiave apologetica: una, santa, cattolica, apostolica.
Nondimeno, nel periodo dopo l’unità nazionale, mentre l’ecclesiologia procedeva a consolidare gli elementi acquisiti dal Vaticano I, si aprivano lentamente nuove piste. Il merito è soprattutto della Scuola Romana, denominazione con cui si intende un gruppo di teologi gesuiti docenti al Collegio Romano (l’attuale Pontificia Università Gregoriana). Ne è considerato fondatore Giovanni Perrone (1794-1876), mentre tra i suoi esponenti si segnalano Carlo Passaglia (1812-1887), che nel 1859 abbandonò però l’abito schierandosi a favore del Risorgimento e divenendo deputato del parlamento italiano, Clemens Schrader (1820-1875), attivo al Vaticano I, e Johann Baptist Franzelin (1816-1886), creato cardinale nel 1876 da Pio IX. Recependo le idee innovatrici della Scuola di Tubinga (in particolare J.A. Möhler e J.S. Drey), ma pure le intuizioni di J.H. Newman, la Scuola Romana rappresentava un indirizzo teologico per certi versi alternativo a quello tomista, che nella Compagnia di Gesù era sostenuto soprattutto da Luigi Taparelli D’Azeglio (1793-1862) e dagli scrittori de La Civiltà Cattolica. Diversamente dai colleghi più rigidamente ancorati ad un impianto scolastico di impostazione apologetica, come il già citato Palmieri e Camillo Mazzella (1833-1900), i rappresentanti più illuminati di tale corrente elaborarono la nozione di Chiesa “corpo mistico di Cristo”, nel tentativo di temperare un’ecclesiologia spiccatamente societaria, giuridica ed apologetica con un linguaggio più vicino alle fonti bibliche (in primis Paolo) e patristiche (soprattutto greche). Questa dottrina voleva sottolineare la continuità tra la Chiesa e Cristo: questi è il fondatore e il capo della Chiesa e si comunica incessantemente ad essa mediante lo Spirito Santo, che agisce nei sacramenti e nel ministero gerarchico (in specie in quello petrino), facendo della Chiesa il prolungamento stesso dell’incarnazione, appunto il “corpo di Cristo”. L’idea fu respinta in concilio, perché ritenuta troppo astratta ed ambigua, ma in seguito riuscì a farsi strada nel magistero di Leone XIII (Satis Cognitum, Post diem, Arcanum divinae Sapientiae, Provida Mater) e di San Pio X (Ad diem illud laetissimum, Il fermo proposito, Vehementer nos).
Dal 1880 l’indirizzo della Scuola Romana subì tuttavia una battuta di arresto. Una prima ragione fu la pubblicazione nel 1879 dell’enciclica Aeterni Patris da parte di Leone XIII, che, mirando a restaurare l’unità del pensiero cristiano intorno alla philosophia perennis di Tommaso d’Aquino, diede nuova linfa all’ecclesiologia neotomista di impostazione apologetica, astorica e filosofica. Se Passaglia criticò aspramente il documento, gli altri teologi preferirono sottomettersi alla volontà papale, venendo non di rado sostituiti a Roma con altri di impostazione più conservatrice. Una seconda ragione del rigurgito tradizionalista fu la crisi modernista, denunciata già da Leone XIII sul finire del secolo e in seguito strenuamente combattuta da Pio X, come dimostrano il decreto Lamentabili e l’enciclica Pascendi, entrambi del 1907. Il modernismo italiano, sebbene influenzato dal più vivace ambiente culturale franco-tedesco e condizionato come in nessun altro Paese dall’ingerenza di Roma, si rivelò a suo modo originale: lo dimostrano soprattutto la “democrazia cristiana” di Romolo Murri (1870-1944) e il “socialismo cristiano” di Ernesto Buonaiuti (1881-1946). Se il primo auspica l’autonomia del laicato cattolico in ambito politico e la ricomposizione dei rapporti tra Stato e Chiesa, il secondo si occupa della Chiesa da un punto di vista storico e dogmatico. Sulla scia di A. von Harnack e di A. Loisy, ma anche di Gioacchino da Fiore, Buonaiuti ritiene che l’“essenza” del cristianesimo, così come l’hanno pensato e vissuto Cristo e la Chiesa primitiva, non coincida affatto con la concezione cattolica dell’istituzione ecclesiastica: il cristianesimo altro non sarebbe che un messaggio etico innervato da una tensione escatologica, giacché il mondo – e la Chiesa al suo interno – sono provvisori e destinati a trascendersi nel Regno di Dio.
All’inizio del Novecento l’ecclesiologo più influente a Roma è Louis Billot (1846-1931): senza negare la realtà interiore della Chiesa, il suo De Ecclesia, edito nel 1903, predilige ancora gli aspetti societario e istituzionale. Malgrado la tradizione della Scuola Romana non sia cessata del tutto, trasferendosi nell’area della ricerca storica anche grazie all’apertura degli Archivi Vaticani, ha ragione Giuseppe Monti, che nel 1922 addita proprio nel trattato di ecclesiologia la parte più confusa dell’apologetica cattolica, e questo perché non si distingue adeguatamente tra ecclesiologia apologetica e dogmatica: se ambedue hanno la Chiesa come oggetto di riflessione, diversi sono però la finalità che perseguono e il metodo che adottano. Mentre la prima intende fornire la prova storica dell’istituzione della Chiesa da parte di Cristo, la seconda – quale coerente prosecuzione della prima – vuole approfondire la natura e la costituzione della Chiesa. Monti auspica per questo la nascita di un secondo distinto trattato De Ecclesia, da collocarsi nella dogmatica tra il De Verbo incarnato e il De Sacramentis.
È soprattutto dal 1920 che assistiamo ad un inaspettato «risveglio della Chiesa nelle anime» (R. Guardini). I fattori di rinnovamento provengono d’Oltralpe, ma sono presto “importati” anche in Italia: tra di essi il protagonismo del laicato (decisivo, durante il pontificato di Pio XI, l’impulso dato all’Azione Cattolica); il rinnovamento degli studi biblici e patristici; il movimento liturgico, che ha nelle abbazie mitteleuropee il suo centro propulsore, sviluppandosi poi anche in Italia (E. Caronti, S. Marsili, L. Andrianopoli, C. Vagaggini); senza tralasciare una certa “distensione degli animi” in seguito alla pacificazione tra Chiesa e Stato italiano sancita dai Patti Lateranensi.
Attorno agli anni Trenta, nell’ambiente della FUCI e dei Laureati Cattolici, sotto la guida di G.B. Montini (futuro Paolo VI), A. Bernareggi, E. Guano e G. Siri (quest’ultimo comunque ancora legato all’impianto scolastico), matura la scelta di approfondire l’intelligenza della Chiesa da un punto di vista strettamente teologico. L’intento di ancorare l’ecclesiologia alla cristologia, giacché la Chiesa è il corpo, il prolungamento e la “pienezza” di Cristo, è il segnale evidente dell’influsso della Scuola Romana. In questa direzione si muovono pure i contributi di G. Ceriani, A. Vitti e G. Bozzetti, anch’essi indirizzati al laicato “colto”. Destinati ai seminari e alle facoltà teologiche sono invece i trattati di F. Chiesa, che offre qualche apertura interessante verso una comprensione teologica della Chiesa, e di A.M. Vellico, ancora del tutto dipendente dallo schema apologetico.
Tra i fautori del risveglio ecclesiologico italiano spiccano comunque, ancora una volta, i teologi romani, tra i quali soprattutto Sebastian Tromp (1889-1975). Proprio costui avrà un ruolo di primo piano nella stesura della Mystici Corporis, promulgata nel 1943, l’enciclica che rappresenta il coronamento del rinnovamento ecclesiologico promosso dalla Scuola Romana e l’anello di congiunzione tra le visioni ecclesiologiche del Vaticano I e del Vaticano II. Con l’immagine del corpo mistico, Pio XII intende elaborare un’ecclesiologia cristocentrica (Cristo è il capo del corpo) e pneumatica (lo Spirito ne è invece l’anima), affermando la natura “teandrica” della Chiesa nell’unità indissolubile delle componenti visibile (umana e societaria) e invisibile (divina e misterica). Resta chiaro, in ogni caso, che il corpo mistico si identifica sic et simpliciter con la Chiesa cattolica romana, ad esclusione delle altre confessioni cristiane.
La Mystici Corporis suscita un nuovo fervore nella ricerca ecclesiologica italiana. Oltre ad una rivisitazione di argomenti “classici” alla luce della dottrina del corpo mistico, come la tradizione, la successione apostolica, l’infallibilità, l’appartenenza alla Chiesa, emergono temi fino a quel momento trascurati, come il rapporto Chiesa-sacramenti e quello Chiesa-Trinità, le immagini bibliche della Chiesa (tra cui il “popolo di Dio”), il laicato e il sacerdozio comune dei fedeli, l’ecclesiologia delle altre confessioni cristiane, la relazione tra Chiesa e storia e tra Chiesa e Maria. In questo periodo «si avverte sempre più diffusamente e urgentemente la necessità di parlare della Chiesa lasciando cadere il “complesso della difensiva”, su cui l’ecclesiologia si è troppo attardata, e presentando, invece, una visione della Chiesa completa e armonica, capace cioè di mettere nel giusto rilievo i suoi aspetti teologici, specie la dimensione misterica e soprannaturale» (L. Danese, L’ecclesiologia italiana, 67). Tra gli autori più significativi si segnalano A. Piolanti, L. Scipioni, S. Cipriani, F.S. Calcagno, C. Baisi, A. Beni, U. Lattanzi, P. Parente, F. Bruno. Costoro ripensano l’ecclesiologia come disciplina bipartita tra parte apologetica e parte dogmatica, raggiungendo però risultati diversi: Calcagno, Baisi e Beni faticano ancora a trovare il giusto equilibrio, limitandosi a recepire i nuovi apporti sotto forma di appendice ad un trattato rimasto fedele all’impianto tradizionale; Lattanzi e soprattutto Parente (ma pure Siri) raccordano in modo più convincente l’ambito dogmatico con quello apologetico; Bruno (e già Guano) superano ormai lo schema societario in favore di un approccio più teologico.
L’altro tornante cruciale per lo sviluppo dell’ecclesiologia italiana è il Vaticano II, «un concilio della Chiesa sulla Chiesa» (K. Rahner). Scopertasi meno “attrezzata” teologicamente rispetto alle vicine nazioni del Centro-Europa, l’Italia che esce dal concilio prova ad acquisire una specifica identità teologica, sganciandosi da una dipendenza servile nei riguardi delle università pontificie e promuovendo occasioni di confronto tra specialisti. Si può ben dire che «il Vaticano II rappresenta un vero “spartiacque” sia per la teologia come per l’ecclesiologia italiana»: infatti, «senza una tradizione di scuola, che non fosse quella manualistica, e povera di strumenti positivi e speculativi per poter avviare una riflessione ecclesiologica veramente nuova, la teologia italiana, soprattutto negli anni immediatamente seguenti il concilio, rimane come “incantata” dalla ricchezza della proposta conciliare, trovando facile “rifugio” nel linguaggio e negli schemi della Lumen gentium e impegnandosi in un suo processo di assimilazione» (ibid., 171).
Tra gli interpreti del Vaticano II spiccano gli studiosi legati all’Istituto per le scienze religiose di Bologna fondato da G. Dossetti (G. Alberigo, G. Ruggieri, A. Melloni). Per costoro occorrerebbe distinguere tra “evento” e “pronunciamenti” conciliari, giacché lo “spirito” del concilio andrebbe cercato ben oltre la “lettera” dei documenti, in quei fermenti di rinnovamento non accolti nei testi ufficiali per ottenere il consenso della minoranza conservatrice, ma tali da determinare una vera e propria “rottura” rispetto alla precedente autocoscienza ecclesiale. Anche Antonio Acerbi (1935-2004) rintraccia in Lumen gentium due teologie confliggenti, una innovativa centrata sul concetto di comunione e una tradizionale di impostazione giuridica: il documento non sarebbe che il frutto del delicato compromesso, non sempre perfettamente riuscito, tra orientamenti discordanti. A tali ricostruzioni storiografiche sono state mosse varie critiche, soprattutto in ambienti vicini alla Curia Romana (in particolare A. Marchetto), che difendono la sostanziale coincidenza dello “spirito” e della “lettera” del concilio e si impegnano in una “ermeneutica della continuità”, volta a dimostrare la sostanziale coerenza del Vaticano II con l’ecclesiologia precedente.
È comunque a partire dagli anni Settanta che l’ecclesiologia italiana, dapprima interessata ad esplorare la prospettiva conciliare, imbocca piste di più ampio respiro. L’ecclesiologia del postconcilio appare del tutto differente rispetto al periodo che l’ha preceduta: sfaldatasi l’unità del sapere teologico, prima costruita attorno all’apologetica manualistica, emergono molteplici indirizzi ecclesiologici, tra loro eterogenei, sebbene tutti accomunati dallo sforzo di “tradurre in italiano” il concilio. L’ecclesiologia finisce a tal punto per catalizzare gli sforzi degli studiosi, da giustificare anche in Italia il giudizio di un certo «panecclesiologismo postconciliare» (A. Antón).
Le successive revisioni dei trattati di Beni e Parente, come pure la proposta sistematica di B. Gherardini, recepiscono certamente l’ecclesiologia misterico-sacramentale di Lumen gentium, ma continuano a dare della Chiesa una visione piuttosto statica e ad accentuarne l’aspetto istituzionale. I saggi veramente “nuovi” nascono a partire dagli anni Ottanta, periodo nel quale si opera anche una riflessione sul metodo dell’ecclesiologia (G. Colombo, L. Sartori, T. Citrini, S. Dianich, V. Mondello, B. Forte). Prima con il tema della comunione e poi con quello della missione, i teologi nostrani dimostrano di recepire creativamente la distinzione conciliare fra Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra. Inoltre, se negli anni Settanta suscitano un certo interesse la categoria di popolo di Dio e il tema della Chiesa locale, negli anni Ottanta, sotto lo stimolo degli orientamenti pastorali della CEI, si fa strada un tema “inconsueto”: quello della Chiesa-carità.
Nell’impossibilità di rendere conto della varietà delle proposte ecclesiologiche affiorate nell’ultimo quarantennio, segnaliamo tre contributi che, senza pretesa di esaustività, appaiono nondimeno esemplificativi del rinnovamento postconciliare dell’ecclesiologia italiana. La scelta tiene conto anche della distribuzione geografica e della progressione cronologica: il padovano Luigi Sartori (1924-2007) per l’Italia Settentrionale, il pisano Severino Dianich (1934) per il Centro, il napoletano Bruno Forte (1949) per il Sud.
Sartori, facendosi interprete della vocazione ecumenica delle Venezie, delinea un modello ecclesiologico interessato alla ricomposizione dell’unità tra la Chiese, mettendosi in dialogo con le teologie dei “fratelli separati” ed affrontando il tema dell’appartenenza alla Chiesa. Perito al concilio per conto della CEI e presidente dell’Associazione Teologica Italiana, egli approfondisce in seno ad un’ecclesiologia trinitaria e cristocentrica l’istanza dialogica, l’ortoprassi come corollario pastorale della riflessione dogmatica, la comunione fondata sulla molteplicità dei ministeri e dei carismi.
Dianich, anch’egli eletto alla presidenza dell’ATI, è forse il più noto ecclesiologo italiano. La sua prospettiva, interessata ad elaborare un modello di “ecclesiogenesi”, è eminentemente kerygmatica: come dimostra il discorso di Pietro il giorno di pentecoste, a generare la Chiesa quale comunità dei credenti è l’evento dell’annuncio della Parola, nel quale si fondono la memoria dell’evento pasquale, il coinvolgimento gioioso del messaggero, l’invito ad una esperienza di comunione, l’attesa del Regno escatologico. È evidente, in questo quadro, la profonda accentuazione missionaria dell’ecclesiologia. La comunione intraecclesiale generata dall’Annuncio è immagine della comunione trinitaria, a cui i credenti si assimilano mediante l’ascolto, la prassi sacramentale, la fraternità e la testimonianza.
Forte, divenuto nel 2004 arcivescovo di Chieti-Vasto, è uno dei teologi nostrani più conosciuti ed apprezzati all’estero. Egli tratteggia un’ecclesiologia insieme eucaristica, comunionale e trinitaria: è l’Eucaristia a “fare la Chiesa”, stringendo i battezzati in comunione ad immagine della “famiglia trinitaria”. Si può così affermare che nella Chiesa la storia degli uomini “incrocia” il mistero stesso di Dio, per esserne redenta e venire condotta verso il compimento escatologico, la “patria trinitaria”.
«La Chiesa italiana, sia nella sua pastorale che nella sua teologia, è tutta tesa ad assumere il Vaticano II nelle proposte di metodo e di contenuto, in quanto, soprattutto, è lo stesso concilio che ha inteso porre al centro dei suoi interessi il tema della Chiesa e la prospettiva di aggiornamento pastorale. La domanda che ora ci nasce spontanea è la seguente: si può parlare di “via italiana” nella ricezione del concilio?» (L. Sartori, «Ecclesiologia…», 185). Nel tentativo di rispondere a questa domanda, si potrebbe in conclusione asserire che, nei principali contributi offerti dai teologi italiani al dibattito ecclesiologico dall’ultimo concilio ad oggi, emerge una “figura” di Chiesa costruita attorno a tre nuclei tematici: l’origine trinitaria (la Chiesa “sgorga” dalla Trinità), l’identità comunionale (che rende la Chiesa “icona” della Trinità), la tensione missionaria (che reclama una Chiesa “estroversa”, protesa ad accogliere il dinamismo della storia e le sfide del mondo contemporaneo). In tal modo, malgrado l’ecclesiologia italiana non si sia forse ancora pienamente affrancata da una certa subalternità nei riguardi delle ponderose elaborazioni teologiche d’Oltralpe, può dirsi realizzata anche per il nostro Paese la “profezia” del vescovo luterano Otto Dibelius, che nel 1926 additò il Novecento come il «secolo della Chiesa».
Fonti e Bibl. essenziale
A. Antón, «Lo sviluppo della dottrina sulla Chiesa nella teologia dal Vaticano I al Vaticano II», in Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II, La Scuola, Brescia 1973, 27-86; T. Citrini, «Questioni di metodo dell’ecclesiologia postconciliare», in Associazione Teologica Italiana, L’ecclesiologia contemporanea, EMP, Padova 1994, 15-41; L. Danese, L’ecclesiologia italiana. Dalla Costituzione Apostolica “Deus Scientiarum Dominus” (1931) alla Costituzione Apostolica “Sapientia Christiana” (1979), Gregoriana, Padova 1995; R. Fisichella (ed.), Storia della teologia, III, EDB, Bologna 1996; A. Marranzini, «La teologia italiana dal Vaticano I al Vaticano II», in R. Vander Gucht – H. Vorgrimler (eds.), Bilancio della teologia del XX secolo, II, Città Nuova, Roma 1972, 95-112; B. Mondin, Le nuove ecclesiologie, Paoline, Roma 1980; Id., Storia della teologia, IV, ESD, Bologna 1997; S. Panizzolo, Coscienza di Chiesa nella teologia e nella prassi. Indirizzi ecclesiologici nei documenti della CEI dal 1965 al 1980, EDB, Bologna 1989; L. Sartori, «La riflessione ecclesiologica», in Per una pastorale che si rinnova, Elledici, Leumann 1981, 41-63; Id., «Ecclesiologia ed esigenze pastorali in Italia», in ATI, L’ecclesiologia contemporanea, cit., 179-212; S. Segoloni Ruta, Tradurre il concilio in italiano. L’Associazione Teologica Italiana soggetto di recezione del Vaticano II, Glossa, Milano 2013; G. Ziviani – V. Maraldi, «Ecclesiologia», in G. Canobbio – P. Coda (eds.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, II, Città Nuova, Roma 2003, 287-410; P. Bua, «Il rinnovamento dell’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II», Path 13 (2014) 1, 83-106.