Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Ordini mendicanti - vol. I


Autore: Felice Accrocca

Gli Ordini mendicanti ebbero origine variegata: Domenico di Calaruega dette subito ai Frati Predicatori una chiara impronta apostolica, a differenza di Francesco d’Assisi, che nel Testamento vietò ai Frati Minori di richiedere privilegi in funzione di una loro azione pastorale; Carmelitani e altri gruppi che poi confluiranno a formare l’Ordine agostiniano spiccavano, invece, per una chiara impronta eremitico-contemplativa. Nondimeno, anche per il chiaro indirizzo impresso dalla Sede Apostolica, in breve finirono tutti per omologarsi e la scelta della povertà sia personale che comunitaria, la vita in fraternità, l’apostolato attivo in ambito urbano, l’impegno intellettuale e l’insegnamento divennero denominatori comuni.

Frati Predicatori e Minori ebbero origine sotto Innocenzo III, ma una loro conferma da parte pontificia si ebbe solo con Onorio III, che nel 1216 prese sotto la protezione di san Pietro la chiesa di S. Romano di Tolosa e nel 1223 approvò la Regola di Francesco. Fu però Gregorio IX il primo papa a scommettere con determinazione sulle nuove formazioni religiose, immettendole sempre più nell’attività pastorale. Il vero motivo del loro successo fu la scelta della città quale campo di apostolato, una scelta alla quale il monachesimo – per sua natura – non poteva far fronte; inoltre gli Ordini mendicanti avevano una struttura di governo centralizzata, ciò che consentiva loro di muoversi con un’agilità e un’efficacia superiore rispetto al passato. All’inizio il pontefice sembrò assegnare campi diversi ai due Ordini: ai Minori prevalentemente la riforma all’interno della Chiesa, ai Predicatori la lotta antiereticale. Ben presto, però, i piani finirono per incrociarsi e sovrapporsi e tanto i Predicatori quanto i Minori furono impegnati nell’attività inquisitoriale.

Sotto i pontificati di Innocenzo IV e Alessandro IV assunsero forma definitiva anche le altre famiglie mendicanti. Alcuni eremiti stabilitisi sul monte Carmelo ricevettero un propositum vitae da Alberto, patriarca di Gerusalemme, tra il 1206 e il 1214; l’Ordine della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo fu confermato poi da Onorio III il 30 gennaio 1226. Emigrata in Occidente a motivo dell’incertezza politica dominante nella regione, la piccola famiglia ricevette una configurazione mendicante da Innocenzo IV, che nel 1247 ne adattò la Regola.

Pure l’Ordine degli Eremitani di sant’Agostino ebbe origine da diversi gruppi eremitici dell’Italia centro-settentrionale. Sollecitato anche dalla richiesta di alcuni di essi, il 16 dicembre 1243 Innocenzo IV decretò l’unione (lettera Incumbit nobis) sotto la Regola di Agostino, di vari gruppi di eremiti toscani. Sostenuta dal favore della Sede Apostolica, la nuova famiglia ricevette forma definitiva sotto Alessandro IV, con la Magna unio del 1256 (lettera Licet Ecclesiae Catholicae), che raggruppò gli Eremitani di sant’Agostino e di san Guglielmo, gli eremiti di Brettino e di Montefavale e il gruppo degli eremiti di Giovanni Bono (Guglielmiti ed eremiti di Montefavale, tuttavia, finiranno per seguire presto vie proprie).

Impronta eremitica, con forti venature pauperistiche, aveva in origine anche l’Ordine dei Servi di Maria, sorto per iniziativa di un gruppo di laici (i sette santi fondatori), appartenenti a una formazione penitenziale sulla quale aveva esercitato il suo influsso il domenicano Pietro da Verona (†1252). Approvati in un primo momento da legati di Innocenzo IV (1249-1250), furono poi confermati dallo stesso pontefice (1251-1252) e, in seguito, da Alessandro IV (1256).

Pure i Servi di Maria, come già i Domenicani, adottarono la Regola di Agostino, alla quale affiancarono proprie costituzioni: fu però la legislazione domenicana a fare scuola, influendo sulla legislazione dei nuovi Ordini religiosi. L’impronta domenicana sugli altri Mendicanti fu evidente anche nell’ambito della vita liturgica e dell’organizzazione degli studi. Nel terzo quarto del Duecento, mentre gli Ordini ‘maggiori’ sostenevano una difficile battaglia contro il clero secolare, anche gli Ordini ‘minori’ s’inserirono sempre più nell’attività pastorale: la tensione crebbe, al punto che si rese necessario affrontarla espressamente in un Concilio ecumenico.

Nel 1274 il Concilio di Lione II decretò quindi la soppressione di tutti gli Ordini sorti dopo il Concilio Laternanense IV (1215) privi di conferma pontificia e la naturale estinzione di altri che pure l’avevano ricevuta: tuttavia, in ragione della loro “manifesta utilità” per la “Chiesa universale”, tali decisioni non riguardarono Frati Minori e Frati Predicatori, insieme ai quali riuscirono a sopravvivere anche Carmelitani ed Eremitani di S. Agostino che – dopo un’iniziale sospensione – ottenennero l’approvazione da Bonifacio VIII nel 1298. Dal loro canto, i Servi di Maria – non nominati nei decreti del II Concilio di Lione – furono definitivamente approvati da Benedetto XI nel 1304 (lettera Dum levamus): a quel tempo l’Ordine contava 31 conventi, 27 dei quali nel centro e nel nord Italia.

Chiusa positivamente la lunga battaglia per l’esistenza, gli Ordini mendicanti poterono finalmente dispiegare la propria attività d’insegnamento, di predicazione, di ministero pastorale, con una presenza nel territorio che – soprattutto per l’ampia diffusione del mondo francescano – non ha avuto eguali tra le altre famiglie religiose. Nella seconda metà del ’200 crebbe anche il loro inserimento nella gerarchia ecclesiastica, al punto che i Predicatori, con Innocenzo V (1276), e i Minori, con Niccolò IV (1288), salirono sulla cattedra di Pietro.

Ordine dei Predicatori. Impegnati principalmente nello studio e nell’insegnamento, i frati s’inserirono in tutti i campi correlati a tale attività: alla metà del Duecento erano già dispersi in ogni parte d’Europa (occidentale e orientale), dell’Africa del Nord, del Medio Oriente, dell’Asia; nel 1303 l’Ordine contava circa 10.000 frati, distribuiti in 590 case, divise tra 18 province. Teologi domenicani furono protagonisti nelle sedute dei grandi Concili, composero opere di grandissima diffusione (si pensi, ad esempio, allo Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais e alla Legenda aurea di Jacopo da Varazze o alle opere di Domenico Cavalca e Jacopo Passavanti), guidarono l’attività inquisitoriale, motivo quest’ultimo, di frequenti ostilità e ritorsioni nei loro confronti. Una chiara rappresentazione della raggiunta autocoscienza dell’Ordine si ha nell’esaltazione che ne fece Andrea di Bonaiuto nell’affresco della Chiesa militante e trionfante in S. Maria Novella a Firenze: i frati domenicani (cani bianchi pezzati in nero: domini canes) difendono il popolo cristiani (agnelli) dalla minaccia degli eretici (lupi).

La difficile situazione della Chiesa nel Trecento, aggravata dalla peste nera e culminata nello Scisma d’Occidente, segnò anche la vita dei Predicatori, con un allentamento della vita comunitaria e della pratica della povertà, minacciata soprattutto dal diffondersi di varie forme di possesso individuale. Sotto il governo di Raimondo da Capua (†1399), discepolo prima ancora che direttore spirituale e confessore di Caterina da Siena, prese avvio un’attività di riforma che in Italia trovò concreta attuazione con l’opera di Giovanni Dominici (1357-1419). Le decisioni di Sisto IV (1475 e 1478), poi confermate dal Concilio di Trento, disciplinarono infine la pratica della povertà, escludendo ogni proprietà privata e concedendo invece ai conventi di possedere beni e rendite fisse.

La lotta contro il luteranesimo impegnò notevoli energie nel corso del ’500, evidenziando le doti di molti polemisti; tutto ebbe evidenti contraccolpi nelle aree d’infuenza della Riforma, con una drastica riduzione della presenza domenicana nelle province del centro e del nord Europa. Spina dorsale dell’Ordine rimasero dunque italiani e spagnoli, che improntarono l’espansione missionaria del nuovo mondo (spagnoli) e diedero un contributo notevole al Concilio di Trento, favorendo anche la diffusione della dottrina ivi definita con il Catechismo Romano.

Nell’epoca post-tridentina l’Ordine raggiunse la sua massima espansione numerica, anche se le pressioni delle potenze e dei governi secolari, oltre all’accanirsi di dispute dottrinali interne alla Chiesa, non giovarono troppo alla vita spirituale. Immune dalle soppressioni che investirono gran parte d’Europa nella seconda metà del ’700, in Italia l’Ordine non riuscì ad evitare la soppressione napoleonica, mentre si accendeva un’altra questione che avrebbe potuto minarne l’unità: Pio VII, infatti (lettera Inter graviores, 1804), sottoposto alla pressione del re di Spagna, per consentire l’alternanza di spagnoli e ‘romani’ alla guida suprema dell’Ordine, aveva portato a 6 anni la durata in carica del maestro generale, che fino a quel momento era stata a vita; la scissione fu tuttavia evitata e nel 1872 Pio IX revocò la lettera del suo predecessore.

Ordine dei Minori. Dopo il 1274 crebbe il dibattito interno in merito alla fedeltà dei frati alla volontà del fondatore, sfociato poi in aspri conflitti sotto il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334). La lotta interna si trasformò infine in una lotta con il papato quando Giovanni XXII dichiarò (lettera Cum inter nonnullos, 1323) eretica la tesi dell’assoluta povertà di Cristo e degli Apostoli: le più alte gerarchie dell’Ordine, che in precedenza avevano condannato le insubordinazioni degli Spirituali, si ribellarono quindi apertamente al pontefice alleandosi con la fazione imperiale di Ludovico il Bavaro.

Queste evidenti difficoltà non devono comunque far dimenticare che, grazie al coraggio di grandi missionari (Giovanni da Pian del Carpine era giunto in Asia molto prima di Marco Polo), l’Ordine si era ormai ramificato in tutto il mondo allora conosciuto: secondo il Provinciale vetustissimum, nel 1334 contava 35 Provincie, 5 Vicarie, quasi 1.500 conventi. Intanto riprendevano vigore le antiche inquietudini degli Spirituali – elemento ricorrente della storia francescana –, nel movimento dell’Osservanva, che riuscì a trovare positiva accoglienza grazie anche a una serie di fattori concomitanti, non ultimi gli sconvolgimenti prodotti dalla grande peste del 1347-1350, interpretata da molti come un segno apocalittico. Alla morte di Paoluccio Trinci (1309-1391), iniziatore del movimento, la ‘riforma’ Osservante contava ancora poche decine di religiosi: all’inizio essa aveva optato per l’eremo, ma in seguito s’immerse decisamente nelle realtà urbane, grazie soprattutto alla svolta impressa da Bernardino degli Albizzeschi (1380-1444), che nel 1412-1413 lasciò l’eremo del Colombaio presso Siena, per gettarsi a capofitto nella predicazione.

Gli Osservanti conquistarono pian piano la loro autonomia dal resto dell’Ordine (Conventuali). Divisi in due Vicarie (Ultramontana e Cismontana), erano presieduti da due vicari generali, che dovevano però essere confermati dall’unico ministro generale dell’Ordine: tale situazione fu definitivamente varata da Eugenio IV (lettera Ut sacra, 1446), sotto il cui pontificato l’Osservanza fu colmata di una serie impressionante di privilegi. I Conventuali tentarono di reagire e la situazione sembrò ribaltarsi al tempo di Sisto IV (1471-1484), papa proveniente dalle loro stesse fila. Tuttavia, grazie anche al favore di cui godeva presso vari principi, l’Osservanza riuscì a resistere e d’allora in poi furono i Conventuali a doversi difendere. In effetti, fu soprattutto per la capacità di espansione dell’Osservanza che il francescanesimo impresse la propria orma sulla vita religiosa e sociale del ’400 (rilevante, in proposito, l’invenzione dei Monti di Pietà e dei Monti frumentari).

Infine sotto Leone X, nel 1517, si giunse alla definitiva separazione tra Conventuali e Osservanti (lettera Ite vos, eufemisticamente detta ‘bolla di unione’). Eppure anche nell’Osservanza covava, da tempo, un moto d’insoddisfazione che portò alla nascita della riforma dei “Frati Minori della vita eremitica”, detti poi Cappuccini, sanzionata da Clemente VI nel 1528 (lettera Religionis zelus). In seguito e ancora a lungo (fino al XIX secolo) si diffusero inquietudini all’interno dell’Osservanza e degli stessi Conventuali che portarono allo sviluppo di altri gruppi di riforma, dando vita a tensioni evidenti.

I Conventuali, mortificati dalle decisioni del 1517, dovettero subire nuovi colpi nel corso del XVI secolo: nel 1566 e 1567 Pio V, dietro petizione dei rispettivi sovrani, soppresse l’Ordine in Spagna e in Portogallo, incorporandolo all’Osservanza. Il papa conventuale Sisto V (1585-1590) cercò di aiutarli come poté, anche sostenendo i vari tentativi di riforma, e per questo offrì protezione ai Conventuali riformati, che però nel secolo seguente vennero definitivamente soppressi. Nel 1625 il Capitolo generale promulgò delle nuove Costituzioni, poi confermate da Urbano VIII nel 1628, che ressero l’Ordine per lungo tempo, conferendogli la sua moderna fisionomia. Fedeli alla propria tradizione, i Conventuali si distinsero negli studi.

I Cappuccini, nel Capitolo romano del 1536 vararono le Costituzioni che – con successivi aggiustamenti – rimasero in vigore per oltre quattro secoli. Dopo un inizio di vita eremitica, l’Ordine s’immise più decisamente nell’apostolato; superate le difficoltà determinate dall’apostasia di Bernardino Ochino, nel 1564 ottenne un proprio cardinale protettore, cessando infine di dipendere dal maestro generale dei Conventuali nel 1619. Suoi principali settori di apostolato furono la predicazione e il ministero del confessionale, grazie ai quali conquistò fiducia, simpatia e stima in larghe fasce di popolazione. All’inizio sospettosa verso gli studi, la riforma cappuccina finì pian piano per condividere – almeno su questo aspetto – le tesi degli Osservanti.

Nel complesso, i francescani non furono mai così numerosi come nel XVIII secolo, ma le ricorrenti tensioni interne e un evidente rilassamento (comune a tutte le famiglie) produssero anche germi di dissoluzione. La minaccia più grande, tuttavia, giunse dall’esterno: le soppressioni napoleoniche e le esclaustrazioni di epoca liberale produssero una drastica riduzione del numero dei frati e danni incalcolabili al patrimonio, anche librario e documentario.

Ordine degli Eremitani di sant’Agostino. Grazie al cardinale Riccardo Annibaldi, che per un trentennio fu la vera guida dell’Ordine, gli Agostiniani s’erano insediati a sud di Roma sin dal 1273. Con Niccolò IV, poi con Celestino V e Bonifacio VIII essi guadagnarono progressivamente l’esenzione dagli ordinari diocesani, completata infine da Clemente VI (lettera Ad fructus uberes, 1347). Nel 1295 l’Ordine contava già 16 province, che nel 1329 erano salite a 24, con una diffusione che abbracciava tutta l’Europa, la Terra Santa e le isole del Mediterraneo. Gli Eremitani si dedicarono soprattutto all’attività intellettuale, grazie anche all’influsso esercitato, fra XIII e XIV secolo, da Egidio Romano (†1316). La crisi del Trecento non risparmiò l’Ordine, generando però anche energie riformatrici: a partire dal 1387, alle province si affiancheranno le congregazioni, che finirono per raggrupparsi in congregazioni di Osservanza e di Scalzi.

Alla grande peste fece seguito (ma fu problema comune a tutti gli Ordini mendicanti) una poco vigile accoglienza dei nuovi candidati; la difficile situazione della Chiesa, vessata dallo scisma, finì per rendere tutto più difficile, al punto che i priori generali si decisero a rendere indipendenti dai singoli provinciali le congregazioni di Osservanza, sottomettendole al loro governo diretto: inutilmente Eugenio IV tentò di riunirle sotto la guida di un unico rettore. Nonostante la crisi, non mancarono figure di alto livello culturale, come l’umanista Andrea Biglia (†1435 ca.); in quegli anni consumò la sua vicenda terrena Rita da Cascia (†1456), il cui culto ha conosciuto una straordinaria diffusione in Italia.

I secoli XVI-XVIII furono caratterizzati invece da un’invidiabile fioritura, non solo numerica: fra 1650 e 1750 gli Agostiniani, compresi gli Osservanti, avevano in Italia oltre 800 insediamenti; alla metà del secolo XVIII l’Ordine contava oltre 20.000 frati, più di un terzo in Italia. A dispetto delle tensioni con il resto dell’Ordine, ebbe una grande diffusione la riforma degli Scalzi, i quali emettevano un quarto voto di “umiltà”: eretta a Napoli nel 1593, s’irradiò anche nell’Europa centro-orientale. Le soppressioni ottocentesche decimarono gli Agostiniani, che alla fine del secolo erano ridotti del 90% rispetto a poco più di cent’anni prima.

Ordine della Beata Vergine Maria del monte Carmelo. L’Ordine fu definitivamente confermato da Bonifacio VIII (1298) e Giovanni XXII (1317 e 1326). Alla crisi del ’300 seguì il fiorire dei movimenti di riforma, tra i quali si distinse la congregazione poi detta Mantovana, che ebbe anche notevoli dispute con i priori generali e fu poi riunita all’Ordine da Pio VI (1783); notevole attività riformatrice esplicò anche il priore generale Giovanni Soreth (†1471): i diversi tentativi, proseguiti nel secolo seguente da alcune grandi figure di priori generali, faticarono tuttavia a produrre frutti duraturi.

Esplose quindi la riforma teresiana: nel 1562 Teresa d’Avila (1515-1582) fondò il primo monastero di Carmelitane Scalze, maturando l’idea di avere dei frati idonei alla guida spirituale delle sue monache; nel 1568 fu così inaugurato il conventino di Duruelo, presso Avila, che ebbe tra i primi abitatori il giovane sacerdote Giovanni della Croce (1542-1591). Gli Scalzi acquisirono progressivamente la loro autonomia fino a raggiungere la completa separazione nel 1593 (ratificata da Clemente VIII con la lettera Pastoralis officii). Ideali riformatori continuarono ad agitare anche il resto dell’Ordine, dando vita ad alcune riforme, che in Italia presero piede in Sicilia (1619, riforma del Primo Istituto o di Monte Santo), a Napoli (1631, riforma di S. Maria della Vita), Torino (1633, riforma di Piemonte o di Torino), Siracusa (1724, riforma di S. Maria Scala del Paradiso).

Nel 1584 gli Scalzi penetrarono in Italia, a Genova; nel 1597 si aggiunse un’altra comunità a Roma: i due conventi furono da Clemente VIII (breve Sacrarum Religionum) esentati dalla giurisdizione dei superiori e sottomessi direttamente alla Sede Apostolica. Tre anni dopo il medesimo pontefice trasformò i conventi italiani in una congregazione indipendente, la cosiddetta Congregazione d’Italia, che nel 1617 contava già 6 province, 3 delle quali in Italia, e nel 1631 vide approvate le sue costituzioni da Urbano VIII. Essa raggiunge la sua massima espansione alla metà del ’700 (oltre 4.000 frati), momento in cui si evidenziarono anche segni di affievolimento, poi seguiti dalla dura fase delle soppressioni.

Il mondo carmelitano, segnato da una chiara devozione verso la Madre di Dio, ha impresso un’orma non lieve nella spiritualità del popolo cristiano.

Ordine dei Servi di Maria. Approvato definitivamente nel 1304, l’Ordine dei Servi conobbe una fase di espansione nei secoli successivi, come risulta dal catalogo del 1580, che enumera 1818 frati divisi in 241 conventi, 227 dei quali sul suolo italiano. Nella crisi generale del ’300, tentativi di riforma partirono dai priori generali Pietro da Todi (1314-1344) e Andrea da Faenza (1374-1396). Si dovette però attendere il Capitolo generale del 1404 e l’azione del priore generale Niccolò da Perugia (1427-1461) per avere un’azione più incisiva con la nascita della congregazione dell’Osservanza (approvata da Eugenio IV nel 1440), che si sviluppò soprattutto nel nord Italia non senza contrasti con il resto dell’Ordine, detti Conventuali: alla fine del secolo, l’Osservanza vide comunque diminuire il suo fervore; nel secolo successivo nacquero perciò nuove riforme, non solo in seno all’Osservanza, ma anche tra i Conventuali.

Dal secolo XIV si assistette anche ad una progressiva marginalizzazione dei non sacerdoti, fino alla loro completa esclusione dai Capitoli. Ai campi di lavoro consueti a tutti gli altri Mendicanti, i Servi aggiunsero come proprio segno distintivo il servizio ai santuari mariani e l’impegno in alcune attività caritative; inoltre, la spiritualità mariana accentuò il culto dell’Addolorata. Intorno al 1750 l’Ordine contava 15 province (3 negli stati austro-ungarici), 225 conventi, 2731 religiosi: alla fine del secolo seguente i frati erano invece 359, divisi in 53 conventi.

La storia degli Ordini mendicanti in Italia registra delle costanti. Alla lotta per l’esistenza, vinta con il decisivo sostegno del papato, fece seguito una prima espansione; sopraggiunsero poi la crisi del ’300, le riforme di Osservanza, l’espansione dei secoli XVII-XVIII, la drastica riduzione seguita alle soppressioni.

I Mendicanti hanno impresso un’orma marcata nella storia della Chiesa e della società italiana: la loro capillare dislocazione sul territorio ha influito sull’architettura e la topografia di città e paesi incrementandone il patrimonio artistico, mentre l’apporto dato dai frati alle diverse arti è stato notevole. A livello religioso, si è poi rivelato determinante il loro contributo alla predicazione, all’insegnamento, al ministero della confessione e della direzione spirituale. Infine, pagine di straordinario interesse, purtroppo non sempre facili da documentare, sono state scritte dai frati laici, che hanno inciso tra il popolo non meno dei sacerdoti: a motivo della questua, essi entravano infatti in tutte le case, offrendo a gente di ogni ceto una prima rudimentale catechesi, alleviando molte sofferenze, guadagnando ai diversi Ordini un gran numero di vocazioni.


LEMMARIO




Ordini militari - vol. I


Autore: Luigi Michele de Palma

La nuova esperienza di vita religiosa, nata all’indomani della prima crociata e accolta nella Chiesa cattolica tramite l’approvazione della regola dei Templari nel concilio di Troyes (1129), ebbe larga risonanza sul territorio italiano fra XII e XIII secolo. Nel frattempo era sorto l’Ordine italiano detto dei Giovanniti – o semplicemente Ospedalieri – la cui organiz­za­zione si deve a Gerardo (†1120); mentre l’Ordine dei Cavalieri tedeschi, o Ordine Teutonico, fu costituito in occa­sione della terza crociata – guidata da Federico Barbarossa – e con­fermato da Innocenzo III nel 1199. Furono numerosi i membri della famiglie aristocratiche, dediti al mestiere delle armi, i quali abbracciarono l’idea di porre la propria professionalità al servizio della fede, in difesa della Chiesa e in favore dei più indigenti. Essi considerarono confacente alla loro condizione di milites l’ingresso in un ordine religioso militare, entro cui non veniva modificato lo status di laici e, nello stesso tempo, era riconosciuta la loro attività militante come via di perfezione evangelica. La vocazione del frate cavaliere apriva la strada – specie per quanti avevano avuto un trascorso burrascoso – alla conversio, iniziava alla vita di penitenza e conduceva alla santità anche attraverso il “martirio”. Essa rappresentava la natura religiosa e cristiana del novum militiae genus, elogiata da s. Bernardo nel De laude novae militiae, entro cui veniva chiamata a rispecchiarsi la nobiltà europea.

Il favore della Sede Apostolica e delle autorità politiche locali consentì il proliferare di numerosi insediamenti degli O.m. lungo la penisola italiana e la formazione di cospicui patrimoni, da cui gli O.m. traevano finanziamento e foraggiamento per le proprie attività in Terra Santa. Nella prima metà del XII sec. i Templari erano presenti nelle città costiere della Puglia ed anche a Messina, come pure a Venezia, a Genova e a Pisa, città di antica tradizione marinara. Nel secolo successivo le sedi templari si moltiplicarono fino a contarne almeno 150 e poco meno di un terzo nel Regno di Sicilia. È probabile che in origine le province italiane dell’ordine siano state costituite in Sicilia, in Puglia e in Lombardia. Inoltre, anche la militarizzazione di alcuni ordini ospedalieri, dediti prevalentemente all’assistenza dei pellegrini (ad es. l’Osp. di S. Giovanni di Gerusalemme, l’Osp. di S. Maria dei Teutonici, l’Osp. di S. Lazzaro), contribuì al diffondersi di case, ospedali, commende, precettorie e baliaggi nelle regioni italiane e in particolare lungo la via Francigena e sulle coste liguri e del basso Adriatico. Prettamente italiana è la fondazione dell’Ordine di S. Giacomo di Altopascio (Lucca), sorto presso un ospedale forse istituito – fra il 1070 e il 1080 – dalla contessa Matilde di Canossa. Nato come ordine ospedaliero (la prima notizia è del 1084) per volontà di 12 Lucchesi, i suoi frati si dedicavano all’assistenza dei pellegrini, alla cura delle strade e alla manutenzione dei ponti. Anch’esso, dopo l’approvazione della regola templare, si militarizzò e nel XII sec. si diffuse in varie zone dell’Italia, per poi, nel secolo successivo, estendere le proprie dipendenze (obedientie) in Spagna, Portogallo, Germania, Inghilterra e Francia. L’ordine venne soppresso dapprima da Pio II (1459) e definitivamente da Sisto V (1587), mentre i suoi beni ebbero differenti destinazioni.

Origini italiane ebbe anche l’Ordine dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme. Frate Gerardo l’Ospedaliero, monaco amalfitano, gestiva l’ospedale benedettino, sito nell’area circostante il Santo Sepolcro denominata Mauristan (località di Mauro) e fatto edificare, fra il 1055 e il 1060, da alcuni mercanti di Amalfi insieme al monastero e alla chiesa di S. Maria Latina. Dopo la conquista di Gerusalemme (1099), Gerardo dette inizio alla costruzione di un nuovo e più grande ospedale congiunto alla chiesa di S. Giovanni Battista. Con Gerardo vivevano altri confratelli, probabilmente monaci o membri della familia monastica, i quali assicuravano il servizio all’interno dello xenodochio. Nel 1113 Pasquale II concesse a Gerardo il privilegium protectionis Beati Petri (Pie postulatio voluntatis), che poneva l’Ospedale al riparo da qualunque ingerenza, tanto ecclesiastica quanto laicale, e salvaguardava la sua condizione di autonomia. Rese, dunque, esente lo xenodochio gerosolimitano e indipendente il gruppo di frati, gettando le basi per la successiva trasformazione della fraternitas gerosolimitana in un ordine ospedaliero internazionale. L’Ospedale fu posto sotto la protezione della Sede Apostolica e il papa affiliò ad esso numerosi ospizi europei. Nonostante la resistenza di molti frati, gelosi del carattere ospedaliero dell’ordine, le esigenze dell’assistenza ai pellegrini e della difesa del Regno Latino di Gerusalemme determinarono la militarizzazione dell’Ospedale. Di conseguenza si accrebbe la componente aristocratica che diventò rapidamente preponderante in seno all’ordine.

Dopo la perdita di San Giovanni d’Acri (1291), ultimo caposaldo latino, gli O.m. dovettero abbandonare la Terra Santa e trasferire le proprie sedi conventuali. Nel frattempo, però, s’indeboliva la loro principale funzione, strettamente connessa alla Terra Santa e svaniva la speranza della riconquista, mentre si consolidava l’idea della difesa della cristianità dal pericolo turco (compresa la liberazione della penisola iberica), della propagazione della fede presso le popolazioni nordeuropee non ancora evangelizzate e della lotta contro gli eretici. I Teutonici si trasferirono a Venezia (1291-1309) e poi in Prussia, dove costituirono un principato ecclesiastico (Ordennsstat). Gli Ospedalieri di S. Giovanni, invece, conquistarono Rodi (1306-1309), sottraendola ai Bizantini, ed anch’essi dettero vita ad un principato ecclesiastico, indipendente dalle altre potenze politiche e sotto l’egida della Sede Apostolica. La metamorfosi salvò i due ordini dagli attacchi sferrati dagli stati europei contro gli O.m., i cui frati, lontani dalla Terra Santa, venivano considerati “imboscati”, mentre i loro beni attiravano l’avidità di alcuni sovrani. I primi a soffrirne le conseguenze furono i Templari, accusati di eresia e d’immoralità da Filippo il Bello, ma assolti da Clemente V e soppressi per via amministrativa (1312). Fra il 1308 e il 1311 si svolsero numerosi processi a carico dei Templari in Puglia, nelle Terre della Chiesa, in Abruzzo, in Toscana, nella Marca d’Ancona e nella provincia ecclesiastica di Ravenna, mentre a Messina e in Sardegna nessun Templare venne sottoposto alle inchieste. Soprattutto sui territori lontani dall’influenza francese l’esito dei processi andò a vantaggio dell’innocenza dei Templari.

Per disposizione papale, destinatario ed erede dei beni del Tempio fu l’Ospedale Gerosolimitano, sebbene gran parte delle proprietà templari fossero state sottratte dai principi ed anche dal papa. Tuttavia i Giovanniti raddoppiarono il loro patrimonio e soprattutto in Italia i beni dei Templari passarono all’Ospedale Gerosolimitano. Di fatto venne consolidata l’organizzazione dell’Ospedale sul territorio italiano, che contava 7 priorati (istituiti fra XII e XIII sec.: Lombardia, Venezia, Pisa, Roma, Capua, Barletta e Messina) e 130 commende, a cui si aggiungevano 4 monasteri femminili (Firenze, Genova, Penne e Pisa). Nel frattempo, però, continuava il declino degli O.m.: la cavalleria non era più la prestigiosa punta di diamante degli eserciti e i suoi membri avevano assunto le vesti dei cortigiani; l’aspirazione alla riconquista della Terra Santa era rimasta un sogno. Gli O.m. avevano perso la loro funzione originaria e vennero fagocitati dai principi, i quali ne laicizzarono la struttura e la composizione, ponendole alle loro dipendenze. Sul piano ecclesiale queste ingerenze politiche incontrarono spesso l’appoggio della Sede Apostolica, la quale, dinanzi al degrado dell’osservanza della disciplina, tentò più volte di sollecitare la riforma interna degli O.m. L’Italia fu interessata soprattutto agli interventi dei papi avignonesi nei confronti dell’Ospedale e durante lo scisma d’Occidente diventò teatro di una divisione dell’Ordine Gerosolimitano: Urbano VI nominò Gran Maestro Riccardo Caracciolo (1383-1395), riconosciuto dai priorati italiani, mentre il convento di Rodi restò obbediente a Juan Fernandez de Heredia e fedele a Clemente VII. A questa epoca risale il diffondersi di culti locali riservati a Giovanniti italiani ed entrati nel santorale dell’ordine: Nicasio (†1187, martire), Ugo Canefri (1168-1233), Gherardo Mecatti di Villamagna (1174ca-1264), Gerlando (†1271) Pietro Pattarini (1250-1320), nonché Ubaldesca Taccini (1136-1206) e Toscana (1280-[1343-1344]).

A Rodi l’Ospedale Gerosolimitano aveva costruito lo xenodochio e trasformato i suoi frati in esperti marinai, impegnati nella “guerra di corsa”: non era una guerra offensiva, bensì difensiva: una forma di rappresaglia contro quanti violavano le acque territoriali dell’isola, estremo baluardo della cristianità al confine con l’Islam. Il reclutamento dei frati cavalieri, provenienti da vari paesi europei, comportò l’organizzazione dell’Ospedale a seconda della nazionalità (“Lingue”) dei suoi membri. La Lingua d’Italia occupò un ruolo rilevante nell’organismo dell’ordine e per consuetudine ai frati italiani vennero riservate alcune alte cariche e ruoli istituzionali. Dopo il terzo assedio, caduta Rodi nelle mani dei Turchi (1522), i Giovanniti vagarono per sette anni alla ricerca di una sede del convento. Dapprima sostarono a Candia, a Messina e a Baia (nel golfo di Napoli), poi si stabilirono a Civitavecchia, a Viterbo e a Nizza (1528). Infine Carlo V donò all’Ospedale l’arcipelago maltese, feudo imperiale nel Regno di Sicilia. Da Malta, punto strategico all’incrocio delle rotte sul Mediterraneo centrale diventato principato dell’Ordine (1530), i Giovanniti ripresero la propria attività, svolgendo la funzione di polizia marittima in difesa dei territori del Regno. Anche su quest’isola venne edificato un ospedale, presso cui i frati cavalieri svolgevano il loro servizio di assistenza, e fu fondato un monastero di Giovannite.

Nel passaggio all’età moderna la crisi religiosa degli O.m. si accentuò maggiormente. Se i Teutonici subirono, in parte, l’influenza della riforma protestante e avviarono la secolarizzazione del loro principato e dell’ordine, a Malta i Giovanniti vissero momenti di tensione interna e seri tentativi di autoriforma. L’Ospedale Gerosolimitano continuava a godere del sostegno della Sede Apostolica e, di fatto, rimase l’unico ordine ospedaliero-militare a mantenere in vita l’antico ideale religioso del miles Christi e del servus pauperum. Tuttavia il modello degli O.m. continuò ad ispirare il sorgere di nuovi ordini. Il 1° ottobre 1561 Pio IV approvò l’Ordine di Santo Stefano, istituito da Cosimo I de’ Medici con sede a Pisa.Parallelamente si dette vita anche al ramo femminile con la fondazione dei monasteri di Firenze e di Pisa. Missione dell’ordine, secondo la volontà del fondatore, era la difesa del mare dalle scorrerie dei pirati berberi. Sebbene le regole ricalcassero la Regola benedettina e per un triennio i cavalieri – rigorosamente reclutati fra l’aristocrazia – dovessero risiedere nel convento per ricevere la necessaria istruzione militare, il sodalizio si presentava come un o.m. laico. I suoi affiliati, infatti, non professavano i classici voti dei religiosi, bensì quelli di carità, di castità coniugale (nel matrimonio religioso) e d’obbedienza agli ordini dei superiori. I cavalieri Stefaniani esaurirono il loro compito verso la metà del XVIII sec., sia per il superamento degli armamenti utilizzati dall’ordine sia per effetto dei trattati di pace stipulati dal Granduca di Toscana con i Turchi. Nonostante alcuni tentativi di riorganizzazione, l’ordine venne abolito dal governo francese nel 1809, ripristinato dal granduca Ferdinando III nel 1817 sotto forma di onorificenza, e definitivamente soppresso dal governo Ricasoli nel 1859.

La storia dell’ordine Stefaniano si sviluppò in controtendenza rispetto all’orientamento generale delle aristocrazie europee perché restò fedele all’ideale comune della cristianità e della mentalità medievale di combattere contro i nemici della fede. Durante l’età moderna l’esito di gran parte degli O.m. fu, se non l’estinzione, la secolarizzazione e la riduzione a mera onorificenza concessa dai principi. Gli stati moderni avevano esautorato le aristocrazie dalle loro funzioni politiche e, dimentichi dei comuni ideali religiosi, impegnarono la nobiltà militare nelle guerre fra cristiani. I sovrani trascuravano il loro dovere di difendere la cristianità dalle insidie degli infedeli e, nello stesso tempo, moltiplicavano le nobilitazioni.

Fino alla fine dell’età moderna, unico depositario dell’autentica tradizione dell’aristocrazia cristiana restò l’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, sulle cui navi, al confine centromediterraneo della cristianità, si continuava a combattere contro gli infedeli. Da Malta, con le sue leggi sovrane, l’ordine Giovannita tutelava la nobiltà generosa, garantiva la società nobiliare (soltanto chi apparteneva ad un’antica prosapia veniva ammesso nell’Ospedale e otteneva un riconoscimento internazionale della propria nobiltà) e costituiva un codice di comportamento applicato al modello del cavaliere cristiano. Il frate cavaliere “di Malta” incarnava nei tempi moderni l’idea antica dell’identificazione del nobile col miles Christi e, dunque, l’ideale della nobiltà cristiana, in buona parte rimosso dalle menti dei sovrani assoluti.

Il turbine rivoluzionario che attraversò l’Europa raggiunse anche Malta. L’isola venne occupata da Napoleone e l’ordine dovette abbandonare l’arcipelago (1798). Nonostante il passaggio di Malta nelle mani degli Inglesi, questi non restituirono le isole all’Ospedale e il gran maestro insieme al convento si trasferì temporaneamente a Messina, a Catania, a Ferrara e infine, definitivamente, a Roma (1834). Le soppressioni napoleoniche compresero anche gli insediamenti italiani maschili e femminili dell’Ospedale e vennero espropriati i possedimenti dei 7 priorati della Lingua d’Italia. Con la Restaurazione fu dapprima ricostituito il Gran Priorato di Roma (1816) e poi, tramite la fusione dei precedenti priorati, quelli di Lombardia e Venezia e di Napoli e Sicilia (1839).

Con la perdita di Malta cessò l’impegno bellico dell’ultimo o.m. rimasto attivo. Al suo interno si aprì una fase critica perché, dopo l’abdicazione del gran maestro von Hompesch, alcuni frati offrirono la suprema carica a Paolo I, zar di Russia (ortodosso e coniugato). Questi assunse di fatto il gran magistero, ma non venne mai riconosciuto dalla Santa Sede. Specialmente i Giovanniti italiani, obbedienti alle decisioni di Pio VII, sostennero la nomina di Giovanni Battista Tommasi, nuovo gran maestro (1803-1805). Ciò nonostante la crisi non fu superata e soltanto dopo una serie di luogotenenti di nazionalità italiana (1805-1879) Leone XIII ricostituì la carica di gran maestro, alla quale venne chiamato l’italiano fra’ Giovanni Battista Ceschi a Santa Croce (1879-1905), dando inizio ad un nuovo periodo di vita dell’Ospedale. Nel frattempo il calo vocazionale aveva ridotto il numero dei frati, mentre si accrebbe notevolmente il ceto dei cavalieri non professi. Tuttavia la Lingua d’Italia, con i suoi tre gran priorati, restò la componente nazionale, religiosa e laicale, più numerosa dell’ordine. L’antico ideale del miles Christi continuò ad essere alimentato in seno all’Ordine Gerosolimitano, ma subì un’ulteriore metamorfosi che mantenne lo stretto coniugio con lo spirito del servus pauperum. Pur conservando il tradizionale carattere militare e l’impegno della tuitio fidei, le attività dell’ordine si concentrarono sul settore ospedaliero e dell’assistenza agli indigenti e ai profughi nel caso di guerre, di terremoti o altri cataclismi, con la gestione di case di cura e ambulatori, nonché tramite l’accompagnamento degli ammalati presso vari santuari.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Ordini monastici femminili - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Nei primi secoli di diffusione del Cristianesimo non mancarono in Italia, come altrove, donne che scelsero una vita ascetica, rifiutando il matrimonio e vivendo ritirate nelle proprie case di famiglia nei due gradi di castità: quelle virgines, consacrate pubblicamente a questo stile di vita, e quelle viduae sacrae, la cui presenza, non sempre apprezzata dalla gerarchia ecclesiastica, si è prolungata per due millenni e perdura ancora oggi nella Chiesa cattolica. Le prime notizie certe su forme di vita ascetica organizzata risalgono alla metà del IV secolo d.C., in coincidenza del soggiorno a Roma del vescovo alessandrino Atanasio, e riguardano anche l’universo femminile, che all’inizio del movimento cenobitico assunse un ruolo di rilievo grazie alla partecipazione di donne, vergini o vedove, di estrazione aristocratica e con una discreta diffusione anche fuori Roma, da Verona alla Sicilia. Le donne, che praticavano questo stile di vita, singolarmente o in comunità, moderavano drasticamente il vitto e il vestiario, osservavano l’astinenza sessuale e conducevano una vita assai ritirata, prodromo di quella clausura, che nei secoli successivi caratterizzerà la vita monastica femminile sul piano disciplinare (almeno in via di diritto). Nuovo impulso venne poi dall’affermarsi in Italia del monachesimo benedettino: secondo la tradizione, Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia, avrebbe fondato il monastero di Piumarola, nei presi di Montecassino, ma più certi e più importanti furono i monasteri di Sant’Agata a Pavia e di Santa Giulia a Brescia, fondati rispettivamente dai re longobardi Pertarito e Desiderio. Tuttavia, ancora in quell’epoca mancavano “regole” scritte appositamente per le comunità femminili, che forse adottavano quelle già in uso (di Basilio, di Pacomio-Gerolamo, di Benedetto, etc.).

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Nell’Alto Medio Evo i monasteri femminili erano fondazioni regie o aristocratiche, con uno scarso numero di monache: in qualche caso si può accertare l’iniziativa o la presenza delle donne appartenenti a casati e clan nobili sconfitti politicamente. Perciò, alla stessa stregua di analoghe fondazioni maschili, talora questi monasteri costituivano un rifugio, voluto o imposto, per le donne in situazioni di violenza, subita o temuta, e per salvaguardare almeno parzialmente i beni di clan gentilizi sconfitti, che si ritiravano dentro queste istituzioni ecclesiastiche. In seguito, anche per questo monachesimo femminile si riscontra una lenta influenza del movimento cluniacense. Nell’XI secolo vi fu una ripresa delle fondazioni monastiche su base gentilizia, anche dentro le città comunali, con la dotazione di beni familiari comuni e conservando il patronato familiare nell’elezione della «badessa», spesso eletta a vita: come già in età longobarda e franca, in questi monasteri si ebbero vere e proprie dinastie di badesse appartenenti alle stirpi dei fondatori. La rinascita monastica del XII secolo portò alla nascita di nuove famiglie femminili, rami degli ordini maschili esenti: dalle Camaldolesi (1085) alle Vallombrosiane (1145), dalle Certosine (1228) alle Olivetane. In questo contesto di ripresa sono importanti le fondazioni femminili legate all’ordine dei Cistercensi: i monasteri di questo tipo si sottoponevano al governo spirituale del ramo maschile, che provvedeva tramite propri monaci all’amministrazione dei sacramenti alle monache.

Con lo sviluppo di una specifica religiosità cittadina e con l’affermazione degli Ordini Mendicanti nacquero, sul loro esempio e sotto la loro guida, monasteri del ramo femminile, come le Domenicane, la cui istituzione, intorno al 1206, si deve allo stesso s. Domenico in Provenza, a Prouille nei pressi di Tolosa, recuperando donne sottratte all’eresia catara. A Roma, poi, nel dicembre del 1219 papa Onorio III affidò a Domenico la cura delle monache confluite nel monastero istituito, per volontà di Innocenzo III, presso la basilica di S. Sisto. Le «sorelle povere» o «povere donne» (o Secondo Ordine di s. Francesco, più note con il nome di Clarisse) furono fondate da Chiara di Favarone di Offreduccio, cugina di s. Francesco, che nel 1212 prima si fece monaca benedettina e poi si stabilì presso la chiesa rurale di S. Damiano, vicino ad Assisi. La sua Regola fu accettata formalmente da papa Innocenzo IV solo quarant’anni dopo, il 9 agosto del 1253, pochi giorni prima della sua morte; eppure, il successo dell’impresa di Chiara era stato testimoniato dalle decine di conventi femminili sorti ad imitazione del suo nel giro di pochi anni. Agli inizi, Chiara e le sue consorelle si erano ritirate a vivere in ospizi nei pressi delle città, si mantenevano con il proprio lavoro e rifiutavano le donazioni di beni e le offerte; ma già dal 1229 anche alle Povere Donne erano state imposte le due norme tradizionali delle fondazioni monastiche femminili: il possesso dei beni e la clausura. A partire dalla fine del XIII secolo comparvero le Eremitane Agostiniane, che formarono il ramo femminile degli Agostiniani, chiedendo ed ottenendo di porsi sotto il loro governo e la loro assistenza spirituale: il primo monastero italiano fu quello di S. Maria Maddalena di Orvieto, istituito il 16 giugno 1286, al quale seguì nella stessa città il monastero di S. Caterina, ma la vicenda della fondazione a Foligno nel 1230 del monastero femminile di S. Elisabetta secondo la regola agostiniana da parte di una donna tedesca fa pensare a un’iniziativa originariamente tedesca, trasferita poi in Italia. Il primo monastero di Servite, di cui si abbia notizia, nacque a Todi nel 1285 con un gruppo di prostitute convertite da s. Filippo Benizi: le loro fondazioni erano legate al ramo maschile attraverso o il priore generale o il priore provinciale dell’Ordine. Infine, alla metà del XV secolo nacquero anche monasteri di Carmelitane.

Gli ordini monastici femminili conobbero una serie di problemi comuni. Di fatto non ottennero il riconoscimento della loro aspirazione alla povertà evangelica, che pure era fortissima in alcune delle loro ispiratrici: si riteneva, infatti, che una condizione di miseria esponesse le donne alle tentazioni ed ai pericoli della “carne”, cioè a relazioni sessuali libere o a pagamento. Nonostante le loro aspirazioni, Francescane e Domenicane si dovettero limitare a uno stile di vita più austero rispetto agli altri monasteri femminili e anche i loro monasteri furono fondati su una base patrimoniale (ma meno doviziosa rispetto a quella dei monasteri aristocratici), arricchita poi con le doti delle singole monache: un’involuzione favorita anche dal grande successo che le case femminili dei Mendicanti riscossero negli stessi ceti aristocratici. Le monache, poi, in quanto donne erano considerate inabili all’amministrazione dei sacramenti; di conseguenza dovevano ricorrere al servizio sacramentale fornito per l’eucarestia e la confessione da religiosi maschi: questa presenza maschile esponeva le monache a rischi e maldicenze, mentre gli stessi religiosi non di rado provavano fastidio e imbarazzo nell’assolvere a questo compito, soprattutto nel caso dei confessori. Inoltre, con la Decretale Periculoso ac detestabili del 1298 confermata nel 1309 dalla Apostolicae Sedis di Clemente V, papa Bonifacio VIII impose anche a questi monasteri l’obbligo della “clausura”, cioè della segregazione rispetto al mondo esterno; tuttavia, la ricezione della decretale, che pure entrò a far parte del Corpus Iuris Canonici, non fu né generale né costante. Sullo scorcio del Medio Evo e gli inizi dell’età moderna, molti monasteri femminili o cessarono di osservare l’obbligo della clausura, o addirittura non lo avevano mai rispettato sin dalle origini. L’apertura dei monasteri e delle case femminili verso l’esterno poteva avere in qualche caso inferenze sentimentali (come testimonia la novellistica), ma più spesso costituiva una scelta obbligata, determinata da concrete esigenze di sopravvivenza: per i monasteri era necessario mantenere rapporti con chi commissionava alle monache lavori di filatura, tessitura, cucito, etc., e in alcuni mesi dell’anno i monasteri più poveri dovevano mandare fuori dal loro chiostro alcune sorelle, per raccogliere le elemosine indispensabili a sfamare la comunità. Soprattutto, l’apertura verso l’esterno manteneva in costante rapporto le singole monache con il contesto sociale, in primo luogo con le proprie famiglie d’origine, rispondendo a esigenze connesse alla gestione economica dei patrimoni monastici e delle doti monacali. Da tempo molte monache non vivevano più “a vita comune”, con refettori e dormitori collettivi, bensì vivevano in “celle”, organizzate su base familiare e clientelare e composte da uno o più locali: qui le monache dormivano, preparavano e consumavano i loro pasti, e svolgevano tutta una serie di lavori, i cui prodotti erano venduti a beneficio della micro-comunità titolare della cella. Spesso le monache di una medesima cella erano legate fra di loro da vincoli di parentela o da rapporti di clientela: così all’interno del monastero si ricostruiva il microcosmo familiare presente nel mondo esterno, compresa la più complessa rete dei comparatici e dei patronati. Come nel caso dei benefici ecclesiastici secolari di patronato privato, con questo sistema le famiglie dei ceti superiori impegnavano una quota del patrimonio domestico per sostentare le figlie non destinate al matrimonio (alla fine del Medio Evo, per esempio, a Firenze una dote monastica poteva ammontare dal 10 al 30 % di una dote coniugale: Trexler, Le célibat à la fin . Per una conferma si veda anche Molho, “Tamquam vere mortua” , 27).

Agli inizi dell’età moderna, tranne i casi di autentica vocazione volontaria e autonoma, la scelta dello stato monastico delle fanciulle spettava ai maschi delle loro rispettive famiglie e dipendeva da motivazioni esclusivamente connesse con quelle “strategie familiari”, che erano tese, oltre che a sistemare in qualche modo figlie illegittime o inadatte al matrimonio per evidenti difetti fisici, a conservare e accrescere il patrimonio domestico, senza intaccarlo con l’erogazione di ricche doti coniugali o con lasciti testamentari. Eppure, fino quasi alla metà del Cinquecento queste strategie familiari, così condizionate da motivazioni economiche, erano sopportabili per le interessate, poiché non comportavano la recisione dei loro legami affettivi con le famiglie d’origine. La comunità familiare si perpetuava nel chiostro e l’assenza di clausura consentiva alle donne e ai maschi restati nel “secolo” di visitare le parenti monacate, di servirsi delle celle monastiche per conservarvi i denari, i gioielli e i preziosi di casa nei momenti più turbolenti della vita cittadina, di usare la rinomata cucina monastica per organizzare i banchetti delle grandi feste domestiche, come i matrimoni e i battesimi. Né erano troncati i rapporti con il contesto sociale: una circolarità di rapporti, che, se in misura rilevante interessava gli aspetti della vita monastica nella quotidianità delle sue esigenze materiali, coinvolgeva anche la sfera dei bisogni culturali e delle istanze religiose. Tuttavia, in questo quadro monastico femminile, non segregato dal mondo, col tempo si erano consolidate alcune trasformazioni, che avevano suscitato forti preoccupazioni nei ceti dirigenti locali: a causa dell’assenteismo dei vescovi era cresciuta la subordinazione spirituale e gestionale dei monasteri nei confronti delle rispettive case maschili e la formazione di più ampi stati territoriali era stata accompagnata dall’invadenza dei nuovi governi (sovrani e città “dominanti”) anche nei chiostri femminili delle città dominate, sfruttandone le risorse per mantenere le fanciulle delle dominanti. La consapevolezza del disordine economico provocato da questo sfruttamento indusse alcuni governi ad adottare provvedimenti che garantissero una corretta amministrazione economica dei patrimoni monastici. Nel 1521 a Venezia fu istituita la magistratura dei «Provveditori sopra i monasteri»; nel 1524-25 la città di Parma nominò alcuni deputati sulla clausura e commissioni particolari per ogni singolo monastero femminile; nel 1545 il nuovo duca di Firenze Cosimo I de’ Medici Cosimo affidò la gestione economica di ciascun monastero a quattro Operai, eletti dal Duca stesso all’interno di liste approntate dalle magistrature cittadine e composte da parenti stretti delle monache, e istituì una Commissione centrale di tre “Deputati sopra i Monasteri”; sei anni dopo anche la Repubblica di Genova dette forma stabile ad un ufficio governativo di controllo sui monasteri femminili, operativo già da circa un secolo e composto da laici e chierici.

In alcuni di questi provvedimenti politici cominciò anche a prefigurarsi una normalizzazione della disciplina monastica sulla base di un’interpretazione misogina e carceraria del concetto di clausura. Nel frattempo, il Concilio di Trento dedicò solo un fuggevole accenno alla disciplina monastica femminile (Sess. XXV, Decretum de regularibus et monialibus, c. V), puntando soprattutto sul rafforzamento del controllo da parte del vescovo locale a scapito dei superiori regolari, ma la Santa Sede promosse una forte offensiva per introdurre un nuovo stile di vita nei monasteri, minacciando di non riconoscere il carattere religioso alle comunità che non avessero obbedito a questi precetti: il mandato temporaneo dell’ufficio di madre superiora, l’obbligo della vita comune e la realizzazione di un regime di stretta clausura in tutti i monasteri femminili, a qualunque ordine appartenessero e qualunque regola seguissero. Momenti principali di questa strategia disciplinatrice furono alcuni provvedimenti romani. L’8 maggio del 1565 la Congregazione del Concilio, sollecitata da alcuni vescovi, estese la clausura a tutti i monasteri di monache professe e di terziarie; poi, il 29 maggio 1566, con la costituzione Circa Pastoralis officii e due anni dopo con la Lubricum vitae genus, papa Pio V impose l’obbligo della rigida clausura a tutti i monasteri femminili, compresi quelli “aperti” (dalla loro fondazione o da tempo immemorabile); infine con la bolla Deo sacris virginibus del 30 dicembre 1572 Gregorio XIII ribadì gli ordini del suo predecessore, aggiungendovi una minaccia: i monasteri inadempienti sarebbero stati condannati all’estinzione, perché non avrebbero potuto accettare nuove consorelle. L’imposizione dall’alto del rigore disciplinare controriformistico sollevò le proteste generalizzate delle monache e tentativi di resistenza, che si protrassero fino agli inizi del Seicento: con la morte naturale delle monache ribelli, ferme nel rifiuto della nuova disciplina, alcune case monastiche conclusero la loro esistenza plurisecolare. Alla fine, grazie anche al coinvolgimento attivo dei ceti nobiliari e dei patriziati cittadini, ormai alieni dalla cultura umanistica e interessati alla nuova ideologia sottesa alla disciplina della Controriforma, sugli antichi monasteri femminili piombò una pesante cappa claustrale, che solo a partire dalla fine del secolo XVII fu scalfita dagli effetti della rivoluzione scientifica, che riuscì a “medicalizzare”, rendendoli leciti, tutta una serie di comportamenti e consumi (cioccolato, tabacco, soggiorni termali etc.) e poi fu travolta dalla secolarizzazione sette-ottocentesca della società. Le “monacazioni forzate”, intanto, continuarono per tutto l’arco dell’età moderna e, salvo qualche scandalo (come quello della famosa monaca di Monza), i monasteri femminili nascosero quei drammi individuali che provenivano dalle scelte connesse alle strategie familiari tese a consolidare i patrimoni domestici, privilegiando la discendenza maschile nella successione ereditaria.

Come era già avvenuto fra Quattro e Cinquecento, quando il fenomeno dell’“Osservanza” regolare era penetrato anche nei chiostri femminili, non mancarono monache che accolsero con entusiasmo l’inasprimento della vita monastica e ne fecero persino il fondamento di nuovi istituti, come, per l’Italia, nel caso delle Cappuccine, la cui nascita è attribuita alla fondazione del monastero napoletano “delle Trentatré” da parte della nobildonna Maria Lorenza Longo: queste monache adottarono la prima regola di s. Chiara (stretta povertà, penitenza, umiltà) e la più stretta clausura monastica, optando per una vita di preghiera e di privazioni. Fortuna arrise in Italia pure alla riforma rigorista delle Carmelitane, iniziata in Spagna da s. Teresa d’Avila, e alle Visitandine di s. Francesco di Sales, dopo che per volere della gerarchia la loro congregazione, nata con fini assistenziali, fu trasformata in un ordine claustrale dedito alla vita contemplativa. Ancora nel Seicento e nel Settecento nacquero in Italia nuovi istituti religiosi femminili di clausura: a Genova nel 1604 Maria Vittoria Fornari Strada fondò l’Ordine della Santissima Annunziata; ad Avellino nel 1654 sorsero le Oblate Sacramentine, che osservavano la stretta clausura, benché si dedicassero all’educazione delle giovani in un conservatorio interno; e nel secolo successivo ad opera di Maria Antonia Felice Solimani nacquero le Romite di san Giovanni Battista, approvate da Benedetto XIV nel 1744. Anche le monache Redentoriste, fondate nel 1731 da Maria Celeste Crostarosa con l’appoggio di Alfonso Maria Liguori, e quelle Passioniste, fondate da s. Paolo della Croce nel 1771, osservavano una stretta clausura e si dedicavano a una vita di preghiera e di penitenza. E negli anni dell’Impero napoleonico la maremmana Caterina Sordini fondò a Roma l’ordine contemplativo delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento.

Negli ultimi decenni del Settecento, alcuni sovrani assoluti (come Pietro Leopoldo e Giuseppe II d’Asburgo) attuarono riforme disciplinari d’impianto rigorista per attribuire un’utilità sociale ai monasteri femminili, che ormai versavano in una fase di lenta decadenza a causa di ben diverse “strategie familiari”: strategie inedite, che si affermavano anche nell’Occidente europeo cattolico col sostegno di una letteratura e di una saggistica improntate a modelli di vita simili a quelli europei nord-occidentali. Contro l’ideale della vita contemplativa riemergeva forte il richiamo alla vita attiva, anche nell’ambito della vita religiosa: un richiamo che peraltro non era stato soffocato neanche nell’età della Controriforma e degli Stati confessionali (cf. voce «Congregazioni religiose femminili»). Così, nel 1785 il granduca di Toscana Pietro Leopoldo impose ai monasteri di clausura di impegnarsi nel campo dell’educazione delle ragazze, obbligando i monasteri femminili e le singole monache a scegliere fra un rinnovato regime di vita rigorosamente comunitaria (con l’abolizione delle celle individuali) e la riconversione in conservatori finalizzati all’istruzione. Quando, dopo le più massicce soppressioni di monasteri e confische dei relativi patrimoni dell’età napoleonica (culminate nei provvedimenti adottati in tutta la Penisola fra il 1806 e il 1810), arrivò la Restaurazione quel modello controriformista di monastero femminile di rigorosa clausura e di vita contemplativa poté recuperare parzialmente le sue posizioni. Il ritorno ai valori e agli stili di vita della tradizione cattolica fu ostacolato non solo dai mutamenti sociali, resi irreversibili di fatto dall’alienazione massiccia dei patrimoni ecclesiastici (acquistati pure da famiglie di sicura fedeltà alla Chiesa e al pontefice), ma anche dalla ripresa dei principi del giurisdizionalismo ecclesiastico, soprattutto in Toscana e nel Settentrione. Per attenuare gli ostacoli frapposti alla vita contemplativa, gli ordini monastici femminili adottarono un atteggiamento di compromesso, facendo coesistere l’osservanza della clausura con l’impegno educativo verso le ragazze. Questa strategia dell’impegno in attività di educazione, d’istruzione e di assistenza si rivelerà utile anche negli anni immediatamente successivi all’Unità per attenuare gli effetti dell’estensione a tutto il Regno d’Italia (legge del 7 luglio 1866) delle leggi piemontesi di soppressione degli enti ecclesiastici non dediti ad attività di utilità sociale (29 maggio 1855). D’altra parte, sia per le vicende generali del nostro paese e delle sue diverse regioni, sia per le situazioni particolari delle singole case monastiche, in Italia è mancata una radicale e generalizzata soppressione di tutti i monasteri femminili osservanti la rigorosa disciplina claustrale: la stessa applicazione delle leggi di soppressione fu più o meno rigorosa a secondo dei luoghi e dei tempi, perché, mentre in alcuni casi le comunità furono del tutto soppresse e le suore disperse, in altri le monache rimasero nei loro istituti anche se a titolo precario e riuscirono persino ad aggirare il divieto di accettare nuove affiliate.

Fonti e Bibl. essenziale

A parte le numerosissime voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione sia ai singoli ordini monastici femminili, sia a problematiche di carattere generale, si vedano: «De Monialibus» (secoli XVI-XVII-XVIII), in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XXXIII, 1997, 643-715; M. Campanelli, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 2012; M. D’Amelia – L. Sebastiani edd., I monasteri femminili in età moderna: Napoli, Roma, Milano, Roma, Carocci, 2009 («Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2009, fasc. 2); K. Di Rocco, Gli orientamenti storiografici intorno al monachesimo femminile, in «Itinerari di ricerca storica», n. 20-21, 2006-2007, 363-394; Donna, disciplina e creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996; L. Scaraffia – G. Zarri, Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari, Laterza (“Storia delle donne in Italia”), 1994; Donne sante sante donne. Esperienza religiosa e storia di genere, Milano, Rosenberg & Sellier, 1996; A. Lirosi ed., Le cronache di Santa Cecilia. Un monastero femminile a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2009; M. Modica ed., Esperienza religiosa e scritture femminili tra Medio Evo ed età moderna, Acireale, Bonanno Ed., 1992; F. Medioli, L’«Inferno monacale» di Arcangela Tarabotti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990; G. Zarri ed., Il monachesimo femminile in Italia dall’alto medioevo al secolo XVII. A confronto con l’oggi, Atti del VI Convegno del «Centro di Studi Farfensi», Santa Vittoria in Matenano 21-24 Settembre 1995, Negarine di San Pietro in Cariano (Verona), Il Segno dei Gabrielli Editori, 1997; G. Pomata e G. Zarri edd., I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005; E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII, Milano, Franco Angeli, 2001; Ead., Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2009; C. Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVI, Napoli, Università di Napoli – Istituto di storia medioevale e moderna, 1970; M.I. Sutto, I monasteri benedettini femminili in Italia dopo l’età delle soppressioni, in Il monachesimo in Italia tra vaticano I e Vaticano II, Atti del III Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992, Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 1995, 291-306; S. Seidel Menchi – A. Jacobson Schutte – Th. Kuehn, Tempi e spazi di vita femminile tra Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino, 1999; M. Sensi, «Mulieres in Ecclesia». Storie di monache e bizzoche, Spoleto, Centro Italiano sull’Alto Medioevo, 2010; G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in G. Chittolini – G. Miccoli edd., Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1986, 357-429; Ead, Recinti: donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000; G. Zarri – G. Festa edd., Il velo, la penna e la parola. Le domenicane: storia, istituzioni e scritture, Firenze, Nerbini, 2009.


LEMMARIO




Ordini monastici maschili - vol. I


Autore: Mariano Dell’Omo

Monachesimo prebenedettino. In Italia la parabola evolutiva del monachesimo anteriore a quello benedettino, che dall’eremo va verso il cenobio, è incarnata dall’esperienza dello stesso s. Benedetto da Norcia (ca. 480-ca. 547), che dalla solitudine anacoretica di Subiaco passa all’organizzazione pienamente cenobitica di Montecassino, comunità centralizzata sotto un unico abate e una sola regola. Due furono i testi che più di altri ebbero successo tra i monaci della penisola come del resto in tutto l’Occidente, essendo già noti negli anni 420-430: il De institutis coenobiorum e le Conlationes di Cassiano, scaturiti dall’esperienza del deserto tra gli anacoreti della Palestina e dell’Egitto, sì da costituire un punto di riferimento per la vita dei monasteri che andavano sorgendo, a Roma in primo luogo, nel corso del sec. V, a partire da quello di S. Sebastiano sulla via Appia fondato da Sisto III (432-440), seguito da altri presso le principali basiliche e le antiche diaconie. Il modello anacoretico rappresentato dall’isola di Lerins nella Gallia meridionale (Cannes) segna la vita del monachesimo italico tra IV e VI sec., come testimoniano gli eremi di Monteluco nei pressi di Spoleto, di Eutizio in Val Castoriana non lontano da Norcia, e ancora quelli costituiti da Equizio, facenti capo alla fondazione di Amiterno vicino L’Aquila. Allo stesso ambito di tradizioni appartiene anche il monastero fondato nel castrum Lucullanum di Napoli dall’africano Eugippio († poco dopo il 536), discepolo del monaco s. Severino, apostolo del Norico. Ad una tradizione monastica tendente alla separazione dalla società, si giustappone in Italia una seconda, fiorente all’interno della comunità ecclesiale, grazie a vescovi come s. Eusebio a Vercelli, s. Ambrogio a Milano, s. Paolino a Nola. Caso isolato infine, sincrono sebbene del tutto estraneo all’esperienza benedettina di Montecassino, è quello di Vivarium presso Squillace in Calabria, dove Cassiodoro, già ministro di Teodorico, reduce da Costantinopoli, fondava intorno al 554 un monastero i cui monaci si dedicavano specialmente allo studio della Bibbia, coltivando al tempo stesso per una retta intelligenza delle lettere sacre quelle profane, in un nobile seppur troppo precoce tentativo di mediazione e sintesi tra antichità pagana e novità cristiana.

Da Benedetto di Montecassino a Benedetto d’Aniane (secc. VI-IX). L’abbazia di Montecassino fondata da s. Benedetto verso l’anno 529 fu il punto iniziale di un’avventura monastica che condusse nel corso del medioevo alla formazione in terra italiana di vere e proprie congregazioni, ispirate in misura diversa da quella Regola benedettina che Gregorio Magno nel II libro dei Dialogi definisce «notevole per il senso della misura e bella per la perspicuità della forma» (cap. 36). Dopo la distruzione di Montecassino nel 577 ad opera dei Longobardi, la comunità trovò rifugio a Roma, il luogo più idoneo per una precoce diffusione della stessa Regola benedettina oltre le Alpi, nel territorio della Gallia, dov’è attestata per la prima volta nella lettera inviata nel 625-630 da Venerando, fondatore del monastero di Altaripa in Aquitania, al vescovo Costanzo di Albi. Negli stessi anni, all’incirca dal 629, a Luxeuil (Haute-Saône, Francia), prima fondazione monastica dell’irlandese s. Colombano sul continente europeo, la Regola benedettina e quella colombaniana erano entrambe applicate in un regime di “regola mista” sotto l’abate Valdeberto. Proprio al nome di Colombano è collegato il fatto più notevole della storia religiosa dell’Italia del nord nel sec. VII: la fondazione del monastero di Bobbio nel 614, con il conseguente sviluppo di un monachesimo iro-franco che facilitò il graduale avvicinamento dei Longobardi, ancora ariani, all’ortodossia romano-cattolica. La svolta religiosa grazie alla quale dalla fine del sec. VII i Longobardi abbandonano gli ultimi residui di arianesimo e di scisma, rende questi ultimi protagonisti di una politica di ampio favore nei riguardi delle istituzioni monastiche sul suolo italico: da S. Pietro in Ciel d’Oro (Pavia) a Nonantola (nel contado di Modena), Farfa, S. Vincenzo al Volturno, la stessa Montecassino che rinasce intorno al 717/718 grazie al bresciano Petronace, con il contributo della vicina abbazia di S. Vincenzo e il sostegno di papa Gregorio II. Nel frattempo in un atto di donazione del gastaldo senese Vuarnefredo per S. Eugenio di Siena nel 730, si legge esplicitamente per la prima volta in Italia che i monaci di quel cenobio erano tenuti a vivere nell’osservanza della Regola di s. Benedetto. Ormai si registra al sud come al nord della penisola una graduale affermazione del codice benedettino su tutte le altre regole, come testimonia il fatto che da Montecassino, durante l’abbaziato di Teodemaro (777/778-796), su richiesta di Carlo Magno re dei Franchi e Longobardi, è inviata ad Aquisgrana una copia dell’esemplare della Regola. Sarà poi lo stesso Carlo a favorire nel regno franco l’ascesa di una grande personalità monastica come Benedetto d’Aniane (†821), al quale, con il successivo determinante appoggio dell’imperatore Ludovico il Pio, si deve il definitivo primato della Regula Benedicti su tutte le altre nei territori dell’Impero, in base a quanto era stato sancito nel primo e secondo sinodo di Aquisgrana (816, 817). Nessun abate italico fu presente in quell’occasione, ma la riforma anianense, pur interrotta dalla prematura morte di Benedetto, avrà modo di diffondersi anche in Italia (Nonantola, Montecassino). Nel frattempo l’abbazia di Cluny, fondata l’11 settembre 909, va perfezionando l’ideale monastico anianense mediante l’osservanza integrale della Regola e il principio del raggruppamento di più case in una istituzione centralizzata (Ecclesia o congregatio Cluniacensis, divenuta tra XII e XIII sec. un vero e proprio Ordo come quello cistercense).

Primi influssi cluniacensi a Roma e in Italia. In Italia l’influsso cluniacense si registra in primo luogo nell’opera di riforma compiuta a Roma dall’abate Oddone di Cluny a partire dal 936, specialmente a S. Paolo fuori le mura e S. Maria sull’Aventino, non senza riflessi anche a Montecassino. Pochi anni dopo, richiamato in Italia dal papa nel 939, Oddone estese la sua opera ad altri centri monastici del nord Italia come S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. Grazie poi all’azione vigorosa del successore Maiolo (948-994) l’influenza cluniacense toccò altri centri monastici: S. Salvatore di Pavia, Pomposa, ancora S. Paolo di Roma, S. Apollinare in Classe a Ravenna, S. Giovanni di Parma. Usi cluniacensi sono testimoniati a Farfa nella Sabina (Liber tramitis aevi Odilonis, 1027-60) come pure a Cava dei Tirreni presso Salerno. Tra i tanti monasteri italiani tuttavia il solo che fece parte della congregatio cluniacense con il titolo di abbazia fu S. Benedetto di Polirone (San Benedetto Po, Mantova), mentre altri pur notevoli, come Pontida o Vertemate, mantennero il carattere di priorati. E ancora nel quadro dell’influsso cluniacense, notevole fu la fondazione (1003) del monastero di S. Benigno di Fruttuaria (San Benigno Canavese, Torino) ad opera di un discepolo di Maiolo, Guglielmo da Volpiano, il cui impulso riformatore è alla base della vasta rete monastica fruttuariense.

  1. Romualdo e gli inizi dell’esperienza camaldolese. Mentre in Italia tra X e XI sec. l’ideale cenobitico riceve l’apporto di correnti monastiche d’oltralpe, s. Romualdo, nato a Ravenna nel 952, rilancia nuovamente in Occidente l’ideale anacoretico nato in Oriente, sebbene la sua organizzazione di tipo eremitico sia basata sul riferimento esplicito alla Regola cenobitica di Benedetto. Il suo progetto consiste infatti nello stretto legame tra cenobio ed eremo sotto la guida di un unico superiore vivente in quest’ultimo. Il cenobio doveva servire alle varie attività destinate al sostentamento materiale dei monaci, svolgendo tuttavia in primo luogo una funzione propedeutica, di preparazione all’eremo. Approvata da papa Pasquale II nel 1113 la nascente congregazione, il cui superiore era lo stesso priore del Sacro Eremo camaldolese, contava già diversi eremi e cenobi, tra i quali i più importanti erano quelli di Camaldoli in Toscana (Poppi, Arezzo) e di Fonte Avellana sul Monte Catria (Serra Sant’Abbondio, Pesaro) in diocesi di Gubbio.
  2. Giovanni Gualberto e i Vallombrosani. Anche per Giovanni Gualberto nobile fiorentino, già monaco nel monastero di S. Miniato, la scelta di ritirarsi in solitudine presso Vallombrosa (Firenze) nel 1036 diede avvio ad una forma monastica di prevalente impronta eremitica, la cui espansione tuttavia in seguito determinò la nascita di una nuova congregazione monastica di tipo cenobitico, che raggiunse il suo massimo sviluppo in Toscana, e che fu particolarmente polemica verso le degenerazioni della vita clericale, come nel caso del vescovo simoniaco Pietro Mezzabarba. Caratteristica della congregazione vallombrosana, il cui incremento dopo la morte del Gualberto si deve a Bernardo degli Uberti, abate generale, cardinale e vescovo di Parma (†1133), è il fatto che i diversi monasteri godevano di una posizione paritaria, secondo un modello di relazioni più vicino a quello cistercense, che non a quello cluniacense di tipo più verticistico.
  3. Guglielmo da Vercelli e S. Giovanni da Matera (Montevergine e Pulsano). Tra XI e XII sec. altri movimenti rigoristici, fondati rispettivamente da s. Guglielmo da Vercelli e s. Giovanni da Matera, si affermano in un ambito locale più circoscritto. Il primo ebbe il suo nucleo d’origine nel monastero di Montevergine (1124) sul monte Vergiliano (Avellino), destinato a divenire sede di un celebre santuario mariano oltre che capo di una florida congregazione, ufficialmente approvata da papa Alessandro III (1161-72) e confermata in particolare da Lucio III e Celestino II. Organizzata con case dipendenti forse sul modello cluniacense e osservante la Regola benedettina, la congregazione verginiana incrementò particolarmente lo spirito di fedeltà a Roma tra popolazioni che prima dell’influsso normanno avevano conosciuto una presenza ecclesiastica e monastica di derivazione bizantina. Giovanni da Matera, dopo diverse e dolorose esperienze dava inizio nel 1129 ad una congregazione monastica di orientamento eremitico e marcatamente penitenziale, detta dei Pulsanesi, dal nome di Pulsano, alle pendici del monte Gargano, via via sostenuta dal riconoscimento e dall’approvazione dei papi Innocenzo II, Eugenio III, Alessandro III, oltre che dalla protezione dei re normanni Ruggero II, Guglielmo I, e Guglielmo II, nonché dello svevo Federico II.

Nilo di Rossano (Basiliani) e Bruno di Colonia (Certosini). Altri due grandi esponenti del carisma monastico in Italia furono s. Nilo di Rossano e s. Bruno di Colonia, dalla cui vocazione alla solitudine scaturiranno poi due Ordini monastici. Nilo (†1004) dalla nativa Calabria, dopo diverse esperienze di ascetismo simile a quello praticato dai Padri del deserto (Valleluce presso Montecassino, Serperi a Gaeta), fondò infine l’anno stesso della sua morte il monastero di Grottaferrata nei pressi di Tuscolo (Frascati), divenuto infine centro della congregazione basiliana d’Italia (1579), oggi Ordine Basiliano Italiano di Grottaferrata. Bruno, originario di Colonia, dov’era nato verso il 1030, già canonico di Reims, riuscì a stabilirsi in una valle alpina, in prossimità della Chartreuse, grazie all’aiuto di Ugo vescovo di Grenoble. I suoi compagni vestiti di bianco, conducevano una vita isolata in piccole celle, riunendosi per l’ufficio comune al mattino e alla sera, e soprattutto la domenica e i giorni festivi per la celebrazione della Messa e per il pasto comune. Chiamato a Roma da papa Urbano II nel 1090, Bruno preferì tuttavia ritirarsi in Calabria, stabilendosi l’anno dopo a S. Maria della Torre (Serra San Bruno), ove morì nel 1101. Contrassegnato da un’osservanza sostanzialmente eremitica, temperata nondimeno con alcuni elementi di quella cenobitica, l’Ordine certosino ha al suo vertice il priore della Grande Chratreuse, chiamato “generale”, il quale benché eletto dalla sola comunità cui appartiene, ha giurisdizione sull’intero Ordine.

All’origine dei Cistercensi in Italia. Il primo ambito territoriale fuori della Francia nel quale si espande la congregazione cistercense è l’Italia, quando nel 1120 un gruppo di monaci per opera dell’abate Pietro di La Ferté, una delle quattro “figlie” di Cîteaux, fonda S. Maria del Tiglieto (diocesi di Acqui, Alessandria). L’anno precedente (1119) papa Callisto II aveva approvato il documento costitutivo dell’Ordo cistercense, la Carta Caritatis di Stefano Harding. Un nuovo sistema organizzativo circa le relazioni tra casa fondatrice e casa affiliata, e al tempo stesso l’istituto del capitolo generale, erano destinati a caratterizzare da questo momento la vita monastica anche in terra italiana, dispiegando gradualmente il loro influsso su altri monasteri e specialmente sulle nuove congregazioni di Regola benedettina sorte fra XIII e XIV sec.

Gioacchino da Fiore e la congregazione dei Florensi. Nato verso il 1130 a Celico in Calabria (Cosenza), Gioacchino da Fiore (†1202) era entrato poco più che ventenne nel monastero benedettino di S. Maria Requisita, in seguito occupato dai monaci cistercensi di Casamari. Trasferitosi nell’abbazia benedettina di S. Maria di Corazzo (Carlopoli, Catanzaro), Gioacchino vi fu eletto abate nel 1177. Intanto poiché il suo desiderio di affiliazione all’Ordine cistercense non poté essere accolto, dopo essersi fermato a Casamari (1183) e aver incontrato papa Lucio III che lo incoraggiò nello studio della Bibbia, egli tornò a Corazzo. Qui infine rassegnate le dimissioni da abate, con alcuni compagni si ritirò fra i monti della Sila, dando inizio ad una nuova esperienza monastica, poi culminata nella fondazione di S. Giovanni in Fiore. Respinta anche questa dal capitolo generale cistercense, che nel 1195 dichiarava Gioacchino apostata e fuggitivo, non avendo egli obbedito all’ordine di ritirarsi a Corazzo, nasceva così la nuova congregazione chiamata florense, destinata ad ottenere l’appoggio dei sovrani svevi, e a svilupparsi in Calabria, Lucania, Puglia, Campania, Lazio, Toscana. Personalità eccezionale, Gioacchino con la sua opera letteraria e monastica, specialmente per la sua concezione di vivere le primizie di un’epoca dello Spirito, avrebbe esercitato un forte influsso sulla spiritualità dei nuovi Ordini religiosi, Francescani e Domenicani, e dell’intero sec. XIII, così animato dall’ansia di riforma e di rinnovamento della vita religiosa e dell’intera Chiesa.

La vita monastica nei secc. XIII e XIV tra difficoltà e novità (Albi, Umiliati, Silvestrini, Celestini, Olivetani). Al declino dell’antica istituzione monastica, particolarmente in Italia più che nei territori d’oltralpe, corrisponde nei secc. XIII e XIV una nuova fioritura di congregazioni, il cui punto di riferimento disciplinare resta la Regola di s. Benedetto, seppure ormai in un contesto civile e religioso diverso da quello altomedievale, caratterizzato da istanze sociali emergenti dal basso, da un clima spirituale escatologico e penitenziale, nonché dai nuovi Ordini mendicanti. Di tali novità si segnalano in particolare l’Ordo dei monaci albi di S. Benedetto di Padova, fondato dal b. Giordano Forzatè, in crisi già nel sec. XIV, e gli Umiliati, che si ispiravano al modello cistercense, sul principio (1201) distinti in tre Ordini formanti un unico organismo (chierici e religiose, uomini e donne laici con vita in comune, laici in famiglia), soppressi infine nel 1571. Silvestro Guzzolini (ca. 1177-†1267), canonico della cattedrale di Osimo nella Marca di Ancona, ritiratosi in età matura nei pressi di Valdicastro, da dove poi si trasferì nell’eremo di Montefano (Fabriano), già prima del 1248 adottò per i suoi discepoli la regola di s. Benedetto. Approvato il nuovo Ordo da papa Innocenzo IV nel 1248, esso mostrò ben presto la sua capacità di mettersi in relazione con le nuove forme di organizzazione cittadina rappresentate dai Comuni. Come sui Vallombrosani, anche sui Silvestrini l’abate generale esercitava un potere centralizzato e vitalizio, che solo nel sec. XVI diverrà temporaneo. Caso raro se non unico di un abate temporaneo è invece quello dell’Ordo S. Spiritus de Maiella, che in seguito, dopo la canonizzazione del suo fondatore Pietro del Morrone (ca. 1209-†1296), futuro papa Celestino V, assunse la denominazione di Ordine dei Celestini. L’istituto dell’abate ad tempus avrà un seguito illustre nell’esperienza organizzativa della congregazione olivetana. Iniziata secondo una prassi assai diffusa come esperienza eremitica ad Accona nel 1313, la fondazione di Monte Oliveto (Siena) da parte dei tre nobili senesi Bernardo Tolomei, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini viene sancita ufficialmente dalle due lettere apostoliche del 21 gennaio 1344, con le quali papa Clemente VI dava la sua approvazione alla nascente congregazione olivetana, concedendo altresì la facoltà di fondare dei priorati dipendenti da Monte Oliveto. Segno distintivo del nuovo istituto, destinato ad influire sull’evoluzione stessa della costituzione monastica, è la durata annuale dell’ufficio abbaziale (senza proroghe dal 1349), poi triennale (dal 1351): un’assoluta novità rispetto alla tradizione precedente, che non conosceva, in linea di principio, la temporaneità dell’ufficio abbaziale. Inoltre annualmente il capitolo generale olivetano provvedeva al rinnovo delle cariche e ricostituiva le comunità dei singoli monasteri, i cui membri quindi non erano più legati dal consueto vincolo della stabilità ad un particolare cenobio. Si delinea così il modello organizzativo al quale si ispirerà nel secolo successivo la congregazione benedettina di S. Giustina di Padova.

Il sec. XV: la congregazione di S. Giustina e le nuove congregazioni monastiche di Osservanza. Il secolo XV fu ricco di grandi novità per il mondo benedettino, a partire dal pontificato di Martino V, eletto l’11 novembre 1417 nel conclave riunitosi durante il concilio di Costanza, che poneva così fine allo scisma d’Occidente. Fin dal 1419, pur tra gravi problemi, egli non tralasciò la questione della disciplina degli Ordini religiosi: non a caso in questo stesso anno egli istituiva la nuova congregazione di S. Giustina di Padova, dal nome del monastero di cui era abate Ludovico Barbo, già canonico secolare di S. Giorgio in Alga a Venezia. Dopo alcuni anni di difficile rodaggio, e dopo aver superato la sua prima crisi istituzionale, determinata dal diverso modo di interpretare l’originaria costituzione pontificia circa l’esercizio dell’autorità da parte dei vari abati, la nuova congregazione fu denominata de Observantia S. Iustinae de Padua, trovando appoggio e protezione in papa Eugenio IV che ne approvò il definitivo assetto interno con le costituzioni Etsi ex sollicitudinis debito del 23 ottobre e 23 novembre 1432. Tutti i monaci, pur appartenendo a monasteri diversi e professando per il rispettivo monastero, costituivano un solo corpo, il quale, come dispone la bolla del 23 ottobre 1432, veniva rappresentato nella sua globalità – superiori e sudditi – dal capitolo generale annuale che eleggeva 9 definitori – 2 abati e 7 conventuali –, come rappresentanti dell’intero capitolo. Tra l’altro i definitori nominavano gli abati dei singoli monasteri, la cui carica durava un anno, e vigilavano attraverso i visitatori sull’osservanza della Regola all’interno dei monasteri aderenti, i quali dipendevano direttamente dal papa, con l’esclusione perciò di ogni altra interferenza ecclesiastica o laica. Gli influssi del nuovo assetto istituzionale di S. Giustina si estesero anche ad altre nuove congregazioni italiane, come quella cistercense di S. Bernardo in Italia (1497), camaldolese di S. Michele di Murano (1474), degli Eremiti camaldolesi di Monte Corona (1525), nonché di S. Maria di Vallombrosa (1485).

Il Cinquecento. Nel sec. XVI la congregazione di S. Giustina, ormai dal 1504 dopo l’ingresso di Montecassino denominata “cassinese”, era destinata ad una notevole fioritura nel corso dell’intero secolo. Non a caso all’apertura del Concilio di Trento (1545) i soli abati benedettini presenti erano cassinesi (Isidoro da Chiari, Luciano degli Ottoni da Goito, Crisostomo Calvini da S. Gemiliano). La congregazione costituiva ormai un rilevante fattore di unità religiosa e culturale in un’Italia politicamente divisa tra regno di Napoli e ducato di Milano sotto il predominio spagnolo, granducato di Toscana, ducato di Parma, repubblica di Venezia, repubblica di Genova, Stato pontificio: dal 1409 al 1596 sono infatti ben 75 i monasteri facenti parte della congregazione, e altri 13 vi aderiranno nel corso del ‘600.

Il Seicento. Tra le novità del sec. XVII si registra la divisione della congregazione cassinese in 7 province, decretata da papa Paolo V nel 1607: romana, veneta, lombarda, toscana, ligure, napoletana e siciliana. Nella congregazione 16 erano i monasteri destinati agli studi “formali”, sebbene le dichiarazioni del 1642 disponessero che in tutti i monasteri con almeno 12 monaci si tenessero tra le altre lezioni relative ai casi di coscienza oltre che di Sacra Scrittura. Tra le diverse congregazioni spicca quella olivetana, che possedeva monasteri e santuari, spesso abitati da monaci illustri per virtù e dottrina, in tutte le principali città italiane. Segni del prestigio di cui godeva la congregazione di Monte Oliveto sono alcuni tentativi, non accolti, di unione ad essa da parte della congregazione di Montevergine nel 1580 e nel 1629. Ugualmente non coronata da successo fu lʼunione tra Vallombrosani e Silvestrini, disposta nel 1662 da papa Alessandro VII, e dopo appena cinque anni revocata da Clemente IX. La generale tendenza alla divisione in province raggiunge anche i Cistercensi d’Italia: nasce così la congregazione cistercense romana, approvata da papa Gregorio XV nel 1623. Le costituzioni furono ratificate solo nel 1643, ma dopo un decennio, forse a causa dell’esiguo numero dei monaci, la nuova congregazione fu soppressa il 5 marzo 1660 da Alessandro VII che la unì a quella toscana, mentre trascorso un secolo nel 1762 Clemente XII separava ulteriormente le due province. Altra congregazione cistercense è quella calabro-lucana, sorta nel 1605, raggruppante i monasteri della Calabria e della Lucania, tra cui la fondazione di Corazzo, celebre per la memoria di Gioacchino da Fiore. Nel 1630 inoltre papa Urbano VIII ratifica la decisione della congregazione cistercense dei Foglianti di dividersi in due rami autonomi: la Congregatio Beatae Mariae Fuliensis Ordinis Cisterciensis per la Francia, facente capo allʼabbazia di Feuillant, e per l’Italia la Congregatio monachorum reformatorum sancti Bernardi Ordinis Cisterciensis, la cui sede rappresentativa fu lʼabbazia di S. Pudenziana a Roma. Paolo V nel 1607 distribuì i cenobiti camaldolesi nelle quattro province romana, toscana, veneta e marchigiana. Poco dopo nel 1629 Urbano VIII, riconoscendo lʼimpossibilità di una pacifica coesistenza tra eremiti e cenobiti, dispose il distacco dei monasteri di tipo cenobitico dal Sacro Eremo di Camaldoli: a partire da questo momento fino alla loro soppressione, decretata dalla costituzione apostolica Inter religiosos coetus del 2 luglio 1935, i cenobiti restarono così distinti dagli eremiti.

Il Settecento. Tra le novità più rilevanti del sec. XVIII è la nascita di una nuova congregazione di provenienza orientale, detta dei Mechitaristi, fondata da Pietro Manouk (Mechitar), originario di Sebaste in Armenia (1676-1749), che si impiantò a Venezia sull’isola di S. Lazzaro nel 1715, dopo che trasferitasi da Costantinopoli a Modone in Morea nei domini veneziani del Peloponneso, ottenne l’approvazione da Roma avendo adottato la Regola di s. Benedetto (1711). In questo secolo il 1789, anno della rivoluzione francese, rappresenta un vero spartiacque, una data epocale che segna una svolta decisiva nella storia d’Europa e delle relazioni Stato-Chiesa, con conseguenze notevoli anche sulla vita religiosa, su quella monastica in particolare. Tra il 1806 e il 1810 una serie di provvedimenti eversivi conducono in Italia alla totale soppressione di Ordini e case religiose: dal regno d’Italia alla Toscana, allo Stato pontificio (quest’ultimo annesso nel 1809 all’Impero francese), fu praticata una politica e di conseguenza emanata una legislazione antimonastica; ugualmente nel regno di Napoli, con Giuseppe Bonaparte fratello di Napoleone, il colpo definitivo fu inferto il 13 febbraio 1807, allorché venne promulgata la legge di soppressione degli Ordini monastici. —

L’Ottocento. I mali denunziati da una commissione di cinque abati istituita da papa Pio IX nel 1850 con lo scopo di indagare circa le cause della debolezza della vita monastica e porvi rimedio, non erano lievi, e con radici profonde specialmente nei monasteri siciliani, ove, in un clima pressoché ancora feudale, esisteva da tempo una serie di abusi, di interferenze, di fazioni, che impedivano ogni serio tentativo di riforma. L’elezione di Pietro Casaretto, decisamente appoggiato da Pio IX, ad abate presidente della congregazione cassinese nel 1852, non costituì di fatto il rimedio tanto atteso, favorendo anzi gradualmente il distacco del ramo sublacense dal tronco dell’antica congregazione, che rimase tradizionalmente legata al solo territorio della penisola, mentre il 9 marzo 1872 veniva eretta la nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza, sotto il governo di un abate generale residente nel monastero di S. Scolastica di Subiaco, sin dall’inizio comprendente anche monasteri fuori d’Italia, oltre che animata da uno spirito missionario. Anche per gli Olivetani si registra un declino tra i primi decenni e la metà del secolo, con una ripresa verso la fine, e ugualmente per i Vallombrosani. Infine per Silvestrini e Camaldolesi non è un segno di vitalità bensì di difficoltà il tentativo di unione, poi fallito, tra le due rispettive congregazioni, le cui trattative si protrassero dal 1818 al 1827. Intanto completatosi il processo di unificazione dell’Italia, tra il 1860 e il 1861 furono promulgati nelle diverse regioni e province annesse – esclusa la Sicilia – vari decreti, sia pure occasionali e disorganici, di abolizione di questo o di quell’Ordine. Infine la legge del 7 luglio 1866 soppressiva di tutti gli Ordini religiosi, estesa al territorio di Roma con altra del 19 giugno 1873, provocava ingenti danni morali e materiali, pur prevedendo speciali riguardi per alcune sedi monastiche più prestigiose, quali Montecassino, la SS. Trinità di Cava dei Tirreni, S. Martino delle Scale nell’arcidiocesi di Palermo, Monreale, La Certosa di Pavia.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Lugano (ed.), L’Italia benedettina, F. Ferrari Ed., Roma 1929; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del medioevo, Jaca Book, Milano 19832; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Paoline, Roma 1968; Dall’eremo al cenobio. La civilta monastica in Italia dalle origini all’età di Dante, Scheiwiller, Milano 1987; G. Andenna (ed.), Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio. Atti del Convegno internazionale, Brescia-Rodengo, 23-25 marzo 2000, Vita e Pensiero, Milano 2001; F. Salvestrini, La più recente storiografia sul monachesimo italiano medievale (ca. 1984-2004), Benedictina, 53 (2006), 435-515; G. Spinelli, Le congregazioni monastiche del Medioevo italiano (secoli XI-XIV), in R. Cassanelli – E. Lopez-Tello Garcia (edd.), Benedetto. L’eredita artistica, Jaca Book, Milano 2007, 279-288; M. Dell’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal medioevo all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra VI e XX secolo (Complementi alla Storia della Chiesa diretta da Hubert Jedin), Jaca Book, Milano 2011; A. Rapetti, Storia del monachesimo medievale, Il Mulino, Bologna 2013.


LEMMARIO




Ospedali - vol. I


Autore: Marina Garbellotti

Il significato del termine ospedale è cambiato nel corso delle epoche. Mentre attualmente in­dica un centro di cura, in origine designava un luogo prevalentemente riservato all’accoglienza di pellegrini e di bisognosi con una valenza segnatamente caritativa e non terapeutica. In linea generale questo orientamento si riscontra sino alle soglie dell’età moderna – in alcuni casi anche oltre – e frequentemente le fonti e la letteratura indicano con la parola ospedale istituti con finalità caritative, quali orfanotrofi, conservatori per fanciulle povere, ospizi per mendicanti. Nel delineare la storia e i mutamenti che investirono gli ospedali si concentrerà l’attenzione, almeno a partire dall’età moderna, su quelli che si specializzarono nella cura degli ammalati rinviando alla voce assistenza un quadro di insieme delle attività caritative.

Numerosi nell’antichità, gli ospedali, sovente chiamati ospizi dal latino hospes, conobbero una particolare diffusione in epoca cri­stiana in virtù del dovere dell’ospitalità presente nell’insegnamento ecclesiastico e si diffusero nell’Europa occidentale come istituzioni indipen­denti o annesse alle residenze vescovili e ai monasteri. A partire dal secolo XII, di fronte all’incremento demografico, alla crescita delle città, all’intensificarsi dei commerci e degli spostamenti, ai frequenti pellegrinaggi e non da ultimo al ‘risveglio evangelico’ che caratterizzò la vita religiosa dell’epoca basso medievale, gli ospedali esistenti si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze di viandanti, pellegrini e bisognosi in crescente aumento e movimento.

In questo contesto assai articolato si collocano gli ospedali promossi dagli ordini ospedalieri (Roncisvalle, Aubrac, Antoniani, S. Spirito, San Giacomo di Altopascio, Gerosolimitani, S. Lazzaro, San Giovanni di Gerusalemme, i Crociferi, Cavalieri Teutonici, Templari). Essi praticavano un ampio spettro di forme di soccorso come dimostra l’ordine di San Giovanni in Gerusalemme. Riconosciuto ufficialmente come ordine religioso nel 1153 da papa Eugenio III, l’attività assistenziale dell’ordine giovannita ricalca quella di altri gruppi aderenti alla medesima spiritualità agostiniana, che contemplava l’aiuto ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai vecchi, agli esposti, nonché interventi manutentivi alle strutture riservate all’ospitalità e alla viabilità. Finalità più circoscritte, almeno originariamente, qualificarono l’ordine di San Giacomo d’Altopascio, sorto intorno al 1080 ad Altopascio, non lontano da Lucca sulla via Francigena. Via obbligata per i numerosi pellegrini desiderosi di raggiungere Roma per visitare la tomba di San Pietro, l’ordine garantiva ospitalità e protezione a chi si avventurava lungo questo impervio cammino. Attenti prevalentemente agli aspetto medico-sanitari furono gli Antoniani, impegnati nella cura dell’ergotismo, affezione meglio conosciuta col nome di fuoco di Sant’Antonio, e i Lazzariti, specializzati nella cura della lebbra. Per la precoce attenzione all’infanzia abbandonata merita di essere menzionato l’ordine di Santo Spirito, al quale papa Innocenzo III affidò la direzione del celebre ospedale romano di Santa Maria in Sassia. La fondazione e la gestione di questi istituti non furono sempre pacifiche. Sovente si scatenarono tensioni tra i rettori degli stessi e i poteri locali, religiosi e civili, che vedevano in questi luoghi strumenti di affermazione territoriale e di preminenza sociale.

La presenza femminile negli ospedali non è un elemento trascurabile. Furono numerose le donne che operarono individualmente a favore dei luoghi pii, come pure le comunità femminili, tra cui si possono ricordare a titolo meramente esemplificativo le Oblate ospedaliere terziarie francescane di Santa Chiara al servizio dell’ospedale di Santa Chiara di Pisa, e le Oblate ospedaliere di Santa Maria Nuova di Firenze, sorte per assistere gratuitamente le inferme povere. Le donne, però, religiose o laiche che fossero, secondo un tratto che caratterizzerà il loro operato almeno sino all’Ottocento, non ricoprivano ruoli direttivi, bensì di servizio.

La moltiplicazione degli ospedali fu indotta anche e principalmente da quel rinnovato sentimento religioso, storiograficamente definito ‘rivoluzione della carità’, che incoraggiò uomini e donne a consacrare se stessi e i propri beni alle opere di beneficenza. Tra le espressioni peculiari di questa devotio laicale, che caratterizzò l’Europa medioevale, vanno menzionate le comunità miste, formate da chierici, conversi e laici di entrambi i sessi, e dedite alla conduzione di luoghi di ospitalità. La peculiarità di queste comunità risiede nell’ampia presenza di laici, uomini e donne celibi o coniugati. Essi consacravano se stessi e i propri beni alle opere di carità e partecipavano direttamente alla vita religiosa mutuandone alcune pratiche come la penitenza, il voto di povertà e di castità, senza tuttavia abbracciare completamente lo stato ecclesiastico. L’esperienza che tuttavia più connota questo periodo è quella confraternale. Sebbene il panorama medievale contempli ospizi promossi da istituzioni comunali, vescovi, uomini comuni, monasteri, corporazioni di arte e di mestiere, quelli fondati da confraternite conobbero una particolare proliferazione. Oltre agli aspetti devozionali tali associazioni accordarono particolare rilevanza alla carità delle opere colmando profonde lacune sociali che si condensavano nell’aiutare le frange più marginali della popolazioni. Questa diffusa propensione ad aiutare i poveri si manifestava nella distribuzione di viveri e di elemosine e nella fondazione di ospedali. Fatta eccezione per i lebbrosari, gli ospedali accoglievano nella medesima struttura poveri e infermi colpiti da diverse affezioni e dispensavano elemosine e beni di prima necessità agli indigenti, svolgendo una significativa funzione semipubblica in un settore assente o debole della società quale quello assistenziale. Tali interventi li resero rapidamente luoghi strategici e irrinunciabili per le autorità civili, sempre più interessate a regolarne l’attività e a impiegarli nel programma politico-caritativo.

Gli studi sul grado di medicalizzazione degli ospedali medievali sono alquanto carenti, tuttavia di rado viandanti e bisognosi potevano contare su cure mediche. Le ragioni della scarsa rilevanza attribuita alla pratica terapeutica vanno prevalentemente ricercate nell’idéologie du salut che permeava la cultura dell’epoca e si traduceva nell’assicurare agli ospiti anche e soprattutto assistenza spirituale. Solitamente, infatti, al momento dell’ingresso essi venivano obbligatoriamente confessati e comunicati.

Da un punto di vista giurisdizionale i loca pia ricadevano sotto la tutela episcopale, come aveva stabilito il concilio di Vienne del Delfinato (1311). Riaffermando antecedenti norme canoniche, l’assise aveva legittimato il vescovo a controllare la gestione patrimoniale degli ospedali e la condotta del personale ivi operante, con l’eccezione di quelli gestiti dagli ordini ospedalieri sottoposti alla vigilanza del loro capo spirituale e giuridico. Di fatto questi controlli avvenivano in occasione delle visite pastorali, in età medievale rare, lasciando dunque agli amministratori dei loca pia ampi spazi di azione.

Questa situazione rimase pressoché invariata sino alla seconda metà del Quattrocento, allorché l’espansione demografica, il rialzo dei prezzi, il susseguirsi di carestie e di epidemie provocarono un notevole aumento del numero degli indigenti. La povertà divenne un grave problema sociale che le autorità di governo tentarono di risolvere regolando il fenomeno della mendicità e rinnovando la rete ospedaliera esistente formata da ospizi generici e privi di una regia che li coordinasse. Allo scopo di razionalizzare il sistema assistenziale, a partire dalla seconda metà del XV secolo, fu avviata la cosiddetta riforma ospedaliera, che seguì percorsi differenti e non ebbe gli stessi esiti.

In alcuni centri, soprattutto nel territorio lombardo e nell’area toscana si procedette all’unificazione degli istituti in un unico grande ospedale, chiamato maggiore. In sostanza, molti piccoli ospedali vennero soppressi e i loro patrimoni utilizzati per costruire una più ampia struttura e per sostenerne le attività. L’esempio più noto di questo modello è l’ospedale maggiore di Milano, fondato nel 1456 da Francesco Sforza, ma ospedali maggiori furono realizzati anche a Brescia, Siena, Firenze, Pavia. È tuttavia opportuno precisare che non tutti gli ospedali maggiori erano chiamati a coordinare gli altri istituti assistenziali cittadini, come avvenne ad esempio per quello di Milano; inoltre, la loro presenza non impediva la nascita di nuovi enti caritativi. In altre città come Verona, Venezia, Padova, Bologna, non sorse alcun ospedale maggiore e fu riorganizzato il sistema caritativo esistente: alcuni enti furono soppressi, altri convertiti in ospedali o in istituti specializzati, altri ancora fondati ex novo. Entrambe le soluzioni miravano a formare una rete assistenziale articolata in grado di accogliere in enti distinti ammalati generici, infermi incurabili, esposti, fanciulle bisognose, ragazzi abbandonati a se stessi, poveri inabili, donne dall’onore compromesso e sole.

Con la riforma ospedaliera si profilò un deciso intervento da parte delle autorità civili nel settore dell’assistenza che non di rado creò conflitti sia con le autorità ecclesiastiche, intenzionate a mantenere la giurisdizione sui luoghi pii, sia con i rettori degli ospedali, identificabili con le oligarchie locali, restii a rinunciare ai vantaggi politici derivanti dalla direzione di questi enti. Il patrimonio accumulato grazie a donazioni e lasciti, i molti affittuari e creditori dipendenti dagli ospedali conferivano, infatti, ai rettori degli stessi visibilità e potere economico. Furono queste motivazioni a indurre alcune Compagnie d’arte della città di Modena a ostacolare l’unione delle Opere Pie e degli Ospedali caldeggiata dalle autorità amministrative e attuata a fatica nel 1541. I progetti di unificazione e di riorganizzazione della rete assistenziale furono osteggiati altresì dalle autorità ecclesiastiche, contrarie alla soppressione di enti appartenenti alla propria sfera giurisdizionale, come accadde a Milano a seguito del disegno messo in atto da Francesco Sforza per unificare gli ospedali. Nonostante queste vicende, prevalse la via della collaborazione, del compromesso, e le autorità ecclesiastiche appoggiarono e parteciparono attivamente alla riforma ospedaliera.

Da parte sua la Chiesa cercò di riaffermare la giurisdizione sulle istituzioni ospedaliere riconfermando con il Concilio di Trento il diritto di visita dell’ordinario sui luoghi pii (Sess. XXII c. 8 de ref.), e attribuendogli la facoltà di controllare annualmente la contabilità (Sess. XXII c. 9 de ref.). I controlli vescovili non sempre poterono svolgersi pacificamente, essi incontrarono resistenze, a volte forti opposizioni da parte dei rettori ospedalieri, pienamente appoggiati dalle autorità laiche, e furono tendenzialmente circoscritti agli aspetti spirituali.

Benché il potere laico avesse compreso nella propria sfera giurisdizionale le strutture assistenziali, le finalità perseguite dagli ospedali continuarono a mantenere una forte valenza religiosa. Le cure prestate al corpo non potevano essere disgiunte da un’assistenza religiosa che si preoccupava di garantire la salute dell’anima. Questa commistione tra sfera laica e religiosa, tipica dell’antico regime, venne meno sul piano giurisdizionale: autorità civili ed ecclesiastiche, infatti, cercarono progressivamente di separare le rispettive sfere di competenza.

In questa cornice offrirono una risposta convincente le numerose congregazioni religiose, nate nel corso del Cinquecento e distintesi per il dinamismo nell’ambito caritativo e sanitario, fra le quali è opportuno segnalare quella dei Teatini, dei Camilliani, dei Fatebenefratelli.

L’attività sociale dei Chierici Regolari Teatini si esprimeva, oltre che nel conforto ai condannati a morte e ai carcerati, nell’assistenza agli ammalati incurabili, proseguendo l’opera dei membri dell’Oratorio del Divino Amore. Tra le iniziative assistenziali sostenute da questa società vi fu la fondazione in varie città italiane – la prima esperienza fu quella genovese del 1499, replicata poi a Roma e a Napoli – di ospedali per gli incurabili, cioè per le persone colpite dalla sifilide. Tra gli affiliati del Divino Amore molti afferirono alla congregazione dei Teatini, il cui co-fondatore Gaetano Thiene, contribuì a riorganizzare l’ospedale della Misericordia di Vicenza e nel 1522 promosse a Venezia la fondazione dell’ospedale degli incurabili, grazie anche alla sollecitudine di alcune nobildonne veneziane.

Altrettanto incisiva nel settore ospedaliero fu l’opera dei Chierici regolari Ministri degli Infermi, meglio noti come Camilliani dal nome del fondatore Camillo de Lellis, e l’attività degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio o Fatebenefratelli, tutt’oggi attivi in Europa e in altri continenti. Accanto ai tre voti sostanziali della vita religiosa (povertà, castità ed obbedienza), questi ultimi ne pronunciavano un quarto con il quale si impegnavano a soccorrere i bisognosi e gli infermi.

I Camilliani, nati come congregazione di secolari dediti all’assistenza degli ammalati ricoverati nel San Giacomo, l’ospedale romano riservato agli incurabili, si configuravano come una sorta di corpo infermieristico specializzato nella cura degli infermi, soprattutto di quelli colpiti da malattie gravi e pericolose come la sifilide e la peste, nonché nell’organizzazione dell’assistenza all’interno degli ospedali. La voce di questo impegno si diffuse rapidamente e le loro prestazioni furono richieste, a fianco o in sostituzione del personale laico, a Genova, a Napoli, a Firenze, a Mantova, a Bologna e a Milano, presso il prestigioso Ospedale Maggiore, che negli anni Novanta del Cinquecento mostrava considerevoli inefficienze sul piano organizzativo.

Ugualmente rilevante fu l’opera dell’Ordine regolare laicale degli ospedalieri di San Giovanni di Dio – detti popolarmente Fatebenefratelli – organizzatisi per proseguire l’opera del portoghese Giovanni Ciudad (1495-1550), che pure professavano un quarto voto di servire gli infermi. A un secolo dalla sua morte nella penisola italiana esistevano sei province (romana, siciliana, napoletana, milanese, barese e sarda) e gli ospedali fondati o amministrati dai Fatebenefratelli in Europa erano circa 300.

Il reclutamento di tali religiosi negli ospedali dipendeva dalle loro competenze sanitarie e soprattutto dalla possibilità di risparmiare sulle spese di gestione, ma non fu privo di frizioni. La loro presenza infatti poteva interferire, persino rompere, gli equilibri instauratisi tra i diversi attori politici, come accadde ai Camilliani in servizio dagli anni Novanta del Cinquecento presso l’Ospedale Maggiore di Milano. Nel corso del tempo essi divennero invisi a più ambienti: a quello diocesano che si era visto sottrarre un importante campo di intervento, nonché ai rettori dell’ospedale milanese, voce del patriziato cittadino, che temevano di vedere compromessa la direzione dell’istituto. L’esito di questi attriti fu dapprima la riduzione del numero dei religiosi, per giungere nel 1632 all’interruzione della collaborazione.

Leggendo le direttive sulla preparazione medica di questi religiosi si ricava l’impressione di una particolare attenzione alla formazione. Le costituzioni dei Fatebenefratelli risalenti al 1596, ad esempio, prevedevano che prima di essere ammessi al noviziato i candidati dovessero essere esaminati dal ‘fratello maggiore’ e inviati in un ospedale della congregazione per imparare a servire e assistere i degenti. Si tratta di proposte importanti per l’epoca, se si tiene presente che sovente negli ospedali gli infermieri non possedevano specifiche competenze mediche. Trattandosi però di testi normativi si rende necessario verificare se queste direttive fossero un manifesto di intenti oppure se e in che misura venissero messe in pratica. Contribuisce ad ampliare le conoscenze sull’argomento l’esperienza dell’ospedale fiorentino intitolato a San Giovanni di Dio amministrato dai Fatebenefratelli. I ricoverati, per lo più affetti da febbri, erano assistiti e curati dai religiosi infermieri, i quali possedevano solide conoscenze nell’arte della spezieria e competenze di bassa chirurgia.

Per quanto concerne l’attività delle congregazioni religiose femminili, almeno in età moderna, esse privilegiarono l’istruzione e l’aiuto alle fanciulle povere. Tra le poche dedite all’assistenza degli infermi si possono menzionare le Figlie di Carità. Istituite in Francia da Vincenzo de’ Paoli nel 1633 per il soccorso a domicilio dei poveri e degli infermi, esse si diffusero rapidamente in altri paesi, giungendo anche in Italia.

Dalla seconda metà del Settecento per gli ordini religiosi si aprì un periodo cruciale, destinato a protrarsi anche nel secolo successivo. Le soppressioni attuate dai sovrani nell’ambito del riformismo assolutistico e con azioni più radicali nella Francia rivoluzionaria e nelle repubbliche sorelle, li investirono in maniera talora anche molto incisiva, condizionandone l’operato. Con la Restaurazione i governi degli antichi Stati si affrettarono a istituire commissioni o congregazioni con il compito di amministrare gli enti caritativi e ospedalieri e di coordinarne le attività. Nei decenni che precedettero l’Unità si manifestarono tentativi più o meno decisi per ridurre il numero dei religiosi e per controllare le attività della Chiesa. Tuttavia, anche laddove questa politica assunse forme radicali – come accadde nel Regno di Sardegna, ove una legge del 1855 si propose di sopprimere gli ordini non dediti alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati –, proprio in virtù dell’opera prestata nel settore assistenziale i religiosi riuscirono a proseguire la loro attività, come fecero i Camilliani e i Fatebenefratelli.

Non mancarono nuove iniziative, alcune delle quali accesero un intenso dibattito. Tra queste vale la pena di menzionare quella promossa dal sacerdote piemontese san Giuseppe Benedetto Cottolengo, che nel 1832 aprì la Piccola Casa della Divina Provvidenza, comunemente chiamata Cottolengo, e per assicurare adeguata assistenza ai malati cronici, alle persone affette da malformazioni fisiche e da ritardi mentali diede vita alla congregazione dei Fratelli di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Le perplessità nei confronti di simili istituti riguardano prevalentemente l’isolamento degli ospiti che finisce quasi per occultarli alla società, anziché favorirne l’integrazione nella stessa.

Nonostante la complessità delle opere descritte, a contrassegnare l’Ottocento fu soprattutto il proliferare di congregazioni ospedaliere femminili vocate all’assistenza degli ammalati a domicilio e a quelli ricoverati negli ospedali. Accanto alle Figlie di Carità, alle cui regole si ispirarono e si modellarono molte famiglie religiose, iniziarono a prestare la propria opera negli enti ospedalieri le Suore Ministre degli Infermi di San Camillo, nate a Lucca per volontà di Maria Domenica Brun Barbantini, le Sorelle della Misericordia, fondate da don Carlo Steeb a Verona nel 1840, le Ancelle di Carità, istituite nel 1840 da Paola di Rosa, per menzionarne soltanto alcune. Le religiose divennero una presenza abituale nei reparti ospedalieri consentendo alla Chiesa di riguadagnare nell’ambito assistenziale un significativo spazio e ruolo sociale.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Paganesimo - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Con questo termine ci si riferisce generalmente all’insieme delle religioni e delle manifestazioni politeistiche dinnanzi alle quali si è trovato il cristianesimo al suo sorgere ed alle quali si è opposto. La designazione è generica comprendendo i diversi culti nazionali (si parla di paganesimo greco e di paganesimo romano), i misteri, i culti astrali e altre espressioni religiose diffuse nei primi secoli della nostra era, ma si estende anche agli usi, ai costumi, ai sistemi morali connessi a quella visione del mondo. Il sostantivo deriva dall’aggettivo latino paganus, la cui etimologia non è chiara. Una prima ipotesi vede una stretta connessione con pagus, che significa ‘villaggio di campagna’, ma anche ‘distretto’, ‘cantone’, ‘provincia’, quindi un territorio in cui vi risiede l’autoctono, che è fedele alle tradizioni sacre del luogo e si limita a rendere omaggio agli dei locali, a differenza di chi abita i centri urbani e pratica i culti che vi sono diffusi. Quindi ‘pagani’ sarebbero stati denominati gli abitanti dei villaggi di campagna, nei quali il cristianesimo si diffuse tardivamente e con lentezza. Ma in questo caso la designazione non potrebbe essere anteriore al IV secolo, al tempo cioè in cui in cui l’Impero romano va cristianizzandosi (come attestano due iscrizioni C.I.L. X2, 7112 e C.I.L. VI, 30463 e successivamente altre testimonianze fino a che diviene d’uso corrente).

È noto che, per esempio, nell’Alta Italia e in Romagna ancora nei primi decenni del IV secolo, le tracce cristiane sono scarse e ancora decrescono guardando verso Occidente. Una seconda ipotesi valorizza un significato secondario che ha l’aggettivo paganus nel latino classico, ove vuol dire anche ‘civile’ ‘borghese’, ‘non soldato’. In un passo di uno scritto di Tertulliano, risalente ai primi anni del III secolo (De corona 11,5) si legge: «Apud hunc [scilicet Christum] tam miles est paganus fidelis quam paganus est miles fidelis». Ivi lo scrittore vuole dire che il Signore non fa differenza quanto alle condizioni degli uomini e il gioco di parole verte su fidelis, mentre paganus non ha il senso di ‘pagano’ nella accezione tecnica cristiana, ma, nel passo citato, continua a significare ‘civile’, ‘non soldato’. Lo prova un altro luogo tertullianeo del De pallio (4,8): «paganos in militaribus (uestibus). Una terza ipotesi suppone che la parola sia stata adottata nella lingua comune con il senso più largo di ‘particolare’, ‘profano’, di chi non appartiene a un gruppo definito, di chi insomma non è membro di una comunità.

I pagani sarebbero stati dunque coloro che non appartenevano al gruppo dei cristiani gli alieni a civitate Dei (cf. Orosio, Hist., Prol 1,9) Mohrmann). Queste le ipotesi che lasciano aperto il problema, pur tentando di giustificare un così deciso trapasso semantico del termine paganus, da un senso profano a un senso religioso. A mio credere, ritengo plausibile la prima ipotesi in quanto è sostenuta da varie ragioni. Nel tempo più antico il significato dei paganus non ha a che fare con il senso religioso assunto successivamente. Inoltre i ‘pagani’, negli scritti degli autori cristiani antichi erano denominati con altri termini. Ancora Tertulliano, intorno al 200, quando scrive un’opera contro di loro, la intitola Adversus nationes, come più tardi farà Arnobio, mentre solamente all’inizio del V secolo Paolo Orosio intitolerà Adverus paganos i suoi Historiarum libri VII (però, come si sa, i titoli delle opere antiche vanno presi con cautela per la tradizione manoscritta che ce li fa conoscere). Il termine nationes (o gentes) traduce il greco ethne, che nella traduzione dell’A.T. dei LXX si contrappone a laos, riferito al popolo santo di Israele (presso gli Ebrei specialmente il termine goyim – plurale di goy – designa i popoli stranieri, i ‘pagani’ in contrapposizione a Israele). A sua volta il N.T. riprende il vocabolo ethne, con il suo derivato, cioè ethnikoi. Infine l’uso dell’aggettivo paganus e del sostantivo paganismus, con riferimento a chi praticava i culti antichi, sono usati, per quanto mi consta, da autori del IV secolo o di secoli successivi. Come si può notare il cristiano definisce il paganesimo a partire da se stesso, in funzione della propria coscienza.

Un cenno va fatto a gruppi di persone che rivendicano anche oggi la definizione di ‘pagani’e che esprimono sentimenti di ‘simpatia culturale’ o praticano forme di culti pagani (non solo greco-romani, ma anche germanici o celtici). Essi hanno voce anche in Italia e trovano ispirazione, tra gli altri, in Nietzsche, che ha rivalutato e reinterpretato l’antico movimento. La visione del mondo proposta è, come ben si può capire, profondamente diversa da quella cristiana: per esempio, rivaluta il ‘sacro’, rifiuta la creazione e la storia, esalta i tradizionalismo, respinge l’idea di colpa.

Fonti e Bibl. essenziale

A von Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, trad. ital., Lionello Giordano Editore, Cosenza 1986, 513 ss.; A. Pincherle, in Enciclopedia Italiana, Roma 1949, 922, s.v ‘Paganesimo’; H. Maurier, Teologia del paganesimo, trad. ital., Gribaudi, Torino 1968; Id., in Dizionario delle Religioni diretto da P. Poupard, vol 3, Milano 2007, 1652-1654, s.v. Paganesimo; P. Siniscalco, in NDPAC, A. Di Berardino (ed.), Marietti, Casale Monferrato 2008, 3747-3749, s.v. Pagano-paganesimo; Chr.Mohmann, “Encore une fois: paganus”, in Eadem, Études sur le latin des Chrétiens, t. III, Storia e Letteratura. Raccolta di studi e testi, Roma 1979, 277-289 (ivi si sono dati i riferimenti dei contributi di autori moderni che hanno proposte le varie ipotesi citate); L. Padovese, Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primi secoli, Dehoniane, Roma 1988; F. Ruggiero, La follia dei cristiani. La reazione pagana al cristianesimo nei secoli I-V, Città Nuova, Roma 2002 (alle pp. 335 ss. ampia bibliografia). L. Lugaresi, “Perché non possiamo più dirci pagani. Spunti patristici per una critica del neopoliteismo contemporaneo,” in Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda antichità, a cura di A.M. Mazzanti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2009, 282-347.


LEMMARIO




Parrocchie - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Nei primi secoli la diffusione del Cristianesimo in Italia, come in altre aree occidentali dell’Impero Romano, è stata un fenomeno quasi esclusivamente urbano, soprattutto in area settentrionale, e solo a partire del IV secolo si verificò quell’espansione della cristianizzazione nelle campagne, nei pagi, che a lungo incontrò una tenace resistenza da parte delle popolazioni locali. Per rispettare la tradizione urbana dell’Impero romano (una tradizione che si perpetuò anche dopo la sua fine), invece di procedere alla creazione di piccole diocesi incentrate sui villaggi con a capo i cosiddetti “corepiscopi”, come pure avvenne in alcune aree dell’Italia Meridionale (per es., in Puglia), i territori rurali delle diocesi furono mantenuti sotto il controllo ecclesiastico delle chiese cittadine e, per la loro amministrazione, furono suddivisi in distretti di dimensioni ridotte. Solo con il passare del tempo questi stessi distretti (o altri con caratteristiche simili), intesi nel senso di popoli di fedeli, ma talora anche di territori (come in seguito si affermerà sempre più spesso) e di chiese con un proprio patrimonio, hanno preso il nome di “parrocchie”. Questo termine, infatti, in lingua greca significava vicinato ed era usato nel diritto pubblico romano del III-V secolo per indicare un gruppo di province governate da un alto funzionario (il vicario): nel linguaggio ecclesiastico occidentale era stato usato inizialmente per indicare il territorio governato da un vescovo, cioè l’intera diocesi (che per lungo tempo coincideva di fatto con il territorio urbano), mentre proprio quest’ultima parola indicava la parrocchia rurale. Quindi, anche il nome di “parroco”, che oggi usiamo normalmente, ha sostituito solo assai lentamente quello giuridicamente più corretto di sacerdos proprius, che designa il sacerdote del distretto ecclesiastico, al quale il fedele è obbligatoriamente soggetto per l’amministrazione dei sacramenti (in particolare il battesimo), per i funerali, per il controllo dei comportamenti ecc.

Le chiese di questi distretti dipendevano da un vescovo e godevano di proprie entrate, che gestivano autonomamente e che derivavano sia dal possesso di propri beni fondiari (talvolta provenienti dallo stesso patrimonio episcopale), sia dalla porzione della “decima” vescovile spettante al clero. A queste entrate si aggiungevano offerte ed elemosine dovute dai fedeli per l’amministrazione di alcuni sacramenti, in particolare quelli connessi alle tappe principali dell’esistenza umana, come la nascita, il matrimonio e la morte (in seguito saranno chiamati “diritti di stola”). Non si può escludere, però, che già nella tarda antichità romana alcune di queste chiese rurali dispensatrici di sacramenti siano sorte per iniziativa e a spese non solo dei vescovi cittadini, ma anche degli stessi abitanti dei vici oppure dei proprietari dei grandi patrimoni fondiari, nelle loro villae, assumendo denominazioni come oratoria, martyria, memoriae, oracula, basilicae, capellae. Nelle città, invece, l’unicità del distretto ecclesiastico si mantenne più a lungo, sotto la guida e la cura del vescovo, coadiuvato dal suo clero: questa “parrocchialità” urbana esclusiva del vescovo si protrasse nel tempo, in qualche caso fu persino ristabilita dopo la rifondazione delle diocesi (come nella Sicilia dopo la conquista normanna) ed è arrivata fin quasi ai nostri giorni (in una città popolosa come Catania, per es.). Ciò non esclude, però, che nelle città demicamente più ricche – a partire dalla stessa Roma – fossero presenti altre chiese (come i tituli e i cemeteria nel caso romano), nelle quali i sacerdoti del presbiterio episcopale potevano svolgere per i fedeli alcune funzioni liturgiche e talora anche sacramentali su mandato del loro vescovo: la crescita e la trasformazione di queste succursali in vere parrocchie urbane fu un processo lento, disomogeneo, con risultati variabili da luogo a luogo. Anzi, dobbiamo ritenere che anche all’interno di ciascuna Chiesa locale la costruzione di un reticolo distrettuale ben definito sia stata l’esito di processi storici differenti e complessi nei tempi e nei modi: il frutto non già di programmi lineari e predeterminati, quanto piuttosto delle risposte adottate volta per volta di fronte all’emersione di problemi, alla presentazione di richieste da parte dei fedeli o degli ecclesiastici stessi.

I tempi e le modalità della genesi e della diffusione di queste strutture intermedie fra vescovo e fedeli sono tuttora in parte oscuri, anche perché dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente si sono abbattuti sulla nostra penisola due lunghe fasi di sconvolgimenti politici, che ne hanno devastato le strutture materiali e gli insediamenti umani, frantumandone l’assetto unitario risalente al I secolo a. C.: prima l’invasione longobarda e, dopo, le incursioni di Saraceni, di Ungari e di Normanni. Le conseguenze di questi eventi politico-militari furono pesantissime anche sulle Chiese locali, sia per le distruzioni e le perdite arrecate ai luoghi culto e alla loro documentazione, sia per la diversità delle dinamiche istituzionali innestate in quei tempi, divenute nel secolo scorso oggetto di studi e dibattiti da parte degli storici. La storiografia, infatti, si è posta il problema se il primo inquadramento istituzionale del cristianesimo nelle campagne sia avvenuto solo sulla base delle precedenti circoscrizioni civili (i pagi romani) o se talora abbia percorso nuove strade, rispondenti a esigenze specifiche della tarda antichità (come la maggiore o minore accessibilità dei luoghi, la permanenza di vie di comunicazione ecc.), costituendo così le premesse per la successiva fondazione di nuovi agglomerati umani, destinati talora a un solido successo, talora invece a un rapido declino, secondo il sopravvenire di ulteriori eventi e processi, fortunati o sfortunati. In altri termini, sin dalle sue origini e fino ai nostri giorni compresi l’istituto parrocchiale ha conosciuto una storia segnata dal paradigma della “continuità-discontinuità”, variabile nei tempi e nei luoghi, da studiare con pazienza caso per caso. Una dialettica simile si trascina da secoli fra la dimensione territoriale e la dimensione antropica della parrocchia. Se, infatti, con il trascorrere dei secoli i distretti parrocchiali hanno assunto confini geografici sempre più definiti e precisi, l’aspetto “personale” dell’adesione-subordinazione di individui e famiglie alla singola parrocchia, che ne caratterizzava le origini, è riemerso vistosamente lungo tutto il secondo millennio sotto la forma dell’“esenzione” di singoli e di comunità rispetto alla giurisdizione spirituale ordinaria su base territoriale.

Definendo sinteticamente e con approssimazione un modello generale, nell’Italia medioevale, e in particolare nelle sue regioni centro-settentrionali (ma l’appellativo e la struttura della pieve è attestato anche nell’Italia meridionale), le diocesi si articolavano al loro interno in distretti minori, chiamati “pievanati” (→ pieve), comprendenti un popolo di fedeli e il territorio in cui viveva. Questo nome riguardava anche lo spazio urbano (generalmente, ma non sempre e necessariamente, compreso – insieme con i suoi sobborghi – in un unico pievanato, chiamato “pievanato maggiore”), ma questa distrettuazione circoscrizionale segnava con maggiore evidenza l’organizzazione ecclesiastica delle campagne. La “pieve” o “pievania” (dal latino plebs) era una chiesa battesimale (cioè dotata di un proprio fonte battesimale) con un suo proprio territorio ed un suo popolo, e con “cappelle” o “titoli”. Queste altre chiese minori, di fondazione e proprietà talvolta della stessa pieve, talvolta di privati o anche di piccole comunità di contadini, dipendevano dalla pieve – anche quando erano fornite di clero proprio – ed erano prive del diritto di amministrare i sacramenti, poiché il diritto di amministrazione sacra spettava alla pieve in quanto chiesa pubblica, dipendente dal vescovo della diocesi. Da alcune di queste cappelle in seguito si svilupparono le “chiese curate”, tanto nelle campagne quanto nelle città: ad esse era demandata, in stretta subordinazione nei confronti delle pievi, l’amministrazione di alcuni sacramenti tranne il battesimo, che in genere rimaneva di prerogativa della pieve. Da queste chiese, o meglio, anche da un certo numero di queste chiese curate si svilupparono in seguito le chiese e i distretti parrocchiali anche all’interno del sistema pievanale. Quindi, il tipo di chiesa parrocchiale si distingue generalmente dalla chiesa pievanale, perché si presenta come una chiesa spesso di privati e/o di particolari, solo talora pubblica, con un suo territorio ed un popolo più limitati, e, anche quando era dotata di fonte battesimale, non aveva alle sue dipendenze altre chiese curate.

Le origini del sistema parrocchiale si confondono per lungo tempo con le origini del sistema pievanale: molte parrocchie dell’età moderna erano il residuo di precedenti pievanati, privati di chiese minori sacramentali a causa dello spopolamento dei villaggi, mentre altre pievi sono nate anche in epoca assai tarda, per smembramento di pievanati troppo estesi oppure in seguito ad interventi di riorganizzazione degli insediamenti umani, sulla base di progetti politici tesi a fondare nuove “terre” (borghi rurali o “quasi-città”) con la conseguente eliminazione o subordinazione di villaggi sparsi, e di altri programmi consimili. Inoltre, come non mancano casi di centri murati che hanno introcluso al loro interno pievi preesistenti, trasformandole di fatto in parrocchie per distretti territoriali più limitati, nel corso dei secoli alcune chiese battesimali sono state trasferite dalle zone più aperte ed indifese all’interno degli insediamenti più protetti: si tratta di fenomeni ricorrenti, corrispondenti sia al cosiddetto “incastellamento” medievale, sia alla nascita di nuovi centri con valenza economica in età moderna. D’altronde, fra la metà del X secolo e la metà dell’XI secolo il sistema pievanale fu coinvolto nella crisi dell’autorità episcopale, che subì la duplice pressione dei monasteri (in nome dell’“esenzione” dalla giurisdizione episcopale) e dei laici. Come appare dal Concilio di Pavia dell’855 quest’ultimi erano più interessati alla fondazione a proprie spese di chiese private (le “eigenkirche”) presso le loro abitazioni: chiese e cappelle, nelle quali, senza correre i rischi connessi ad un percorso esterno pur breve, potevano ascoltare la messa officiata da un sacerdote di propria scelta. La cura d’anime cominciò così a sgretolarsi, a parcellizzarsi, con effetti negativi tanto sul personale ecclesiastico, quanto sulle strutture istituzionali: si perse il carattere collegiale dell’antico presbyterium pievanale e fu intaccato lo stesso carattere pubblico della cura d’anime, privatizzata e sottratta alla vigilanza dei vescovi.

A partire dalla metà dell’XI secolo, in conseguenza della lotta per le investiture, della riforma gregoriana, dei movimenti laicali di riforma e della vigorosa ripresa dei diritti episcopali, sostenuti dal centro della Chiesa cattolica, iniziò il recupero dei diritti episcopali sulle pievi, sia nei confronti dei laici, sia nei confronti dei monasteri; anzi si giunse a condannare e vietare le donazioni di pievi in favore dei monasteri, imponendo la loro restituzione ai vescovi. Inoltre, per rafforzare il ruolo pubblico delle chiese parrocchiali – dipendenti dai vescovi diocesani – nei confronti degli istituti esenti e dei privilegi dei particolari, papa Leone IX (1049-1054) inviò una lettera ai vescovi dell’Italia, nella quale stabiliva che ogni laico, che intendesse entrare in un monastero, dovesse prima disporre della metà dei suoi beni in favore della parrocchia nella quale fino ad allora era vissuto. Per l’epoca successiva, pur correndo il rischio di generalizzare, si può ipotizzare una scansione cronologica della diffusione, anche in ambito urbano, del sistema parrocchiale in rapporto al sistema pievanale secondo due diverse fasi. Il primo periodo, fra il 1140 c. e il 1378, va dall’inserimento delle parrocchie, che si erano diffuse pure in Italia con la nascita delle signorie territoriali e dei comuni rurali, all’interno dei pievanati ancora con limitate funzioni e alle dipendenze delle chiese pievanali, nel quadro dell’organizzazione ecclesiastica della cura d’anime sino all’accentuarsi della crisi del sistema di tipo pievano. Il secondo periodo si protrae dagli inizi dello Scisma d’Occidente fino all’apertura del Concilio di Trento e presenta non poche difficoltà per ricostruire come un processo unitario una pluralità di situazioni assai differenziate. In effetti, per quanto riguarda l’Italia delle pievi, si possono fare almeno tre considerazioni. Pare assodato che in molte regioni ed aree italiane si sia verificata una diffusa promozione di fatto, anche se non sul piano del diritto, delle cappelle (signorili, private, comunitarie ecc.) al rango di parrocchie, con il riconoscimento del diritto di dotarsi di un proprio fonte battesimale. Poi, fra il XIII ed il XIV secolo mentre in molte aree della penisola italiana entrò in crisi l’istituzione pievanale quale unica struttura della cura d’anime delle campagne, in altre zone – o perché poste in località più periferiche, o perché facilmente percorribili dai fedeli – le pievi mostrarono una maggior resistenza, se non altro conservando l’esclusività di alcune funzioni sacramentali e di culto (come le processioni delle rogazioni). Per esempio, nel Trentino le pievi, anche mutando la terminologia, sono sopravvissute fino ai nostri giorni semplicemente adottando il nome di parrocchie. Più in generale, però, è certo che a partire dalla metà del Trecento, forse anche in relazione agli effetti della terribile crisi demografica che colpì l’Europa occidentale, un gran numero di chiese precedentemente destinate alla cura d’anime furono private dei loro sacerdoti titolari e vennero annesse ed incorporate con tutti i loro beni (“ammensate”) ad enti e uffici ecclesiastici anche lontani: monasteri maschili o femminili, altre chiese curate, capitoli canonicali o singole prebende canonicali delle cattedrali, collegi o benefici ecclesiastici, seminari, ecc. In questa direzione, però, il caso più radicale si ebbe in Sardegna, in seguito a una catastrofe non naturale, bensì politica: le rendite delle chiese rurali, ancora gestite dal clero nativo, furono incorporate alle chiese cittadine, divenute di esclusivo appannaggio dei chierici catalani e aragonesi, del clero degli invasori. Su un altro versante, poi, altri colpi furono inferti all’istituto parrocchiale dalla destrutturazione del sistema beneficiale, in seguito al cumulo dei benefici, delle resignazioni, delle provvisioni e delle dispense pontificie, delle pensioni sulle rendite, in violazione dei diritti dei patroni e dei collatori ordinari, cioè dei vescovi o dei capitoli canonicali. In tutti questi casi, i fedeli furono privati del sacerdos proprius e con esso vennero meno la garanzia delle funzioni liturgiche e la regolarità nell’amministrazione dei sacramenti, nonché l’esercizio di quei compiti di vigilanza sull’ortodossia religiosa, che il canone 21, Omnis utriusque sexus del Concilio Lateranense IV aveva attribuito ai parroci imponendo a tutti i fedeli di comunicarsi a Pasqua nella propria chiesa parrocchiale. Né la situazione della cura d’anime migliorava, quando gli amministratori dei benefici parrocchiali o gli stessi parrocchiani assoldavano qualche sacerdote per supplire all’assenza del rettore titolare: questi cappellani erano religiosi fuggiti dai propri conventi per insofferenza della disciplina claustrale o, assai peggio, erano chierici ignoranti (al limite dell’analfabetismo), emigrati dai loro paesi per sfuggire alla miseria o alla giustizia, violenti e rissosi, ma soprattutto “mercenari” e precari. Ancora alla metà del Cinquecento, l’assenza dei curati titolari dalle chiese dei villaggi rurali pare essere un fenomeno diffusissimo e comune in tutta la penisola, ma probabilmente raggiunse l’apice nella Sardegna asservita alla corona aragonese.

Dopo il grande disordine istituzionale e disciplinare, che colpì la Chiesa nel Rinascimento, e per rispondere ai problemi emersi con la diffusione delle dottrine della Riforma, la Chiesa cattolica adottò nel Concilio di Trento una normativa disciplinare specifica per i parroci. Questa normativa può essere riassunta in alcuni punti chiave. In primo luogo, tanto nei benefici parrocchiali di giuspatronato quanto in quelli di libera collazione, prima di assumere l’ufficio curato il nuovo parroco doveva sottoporsi ad un esame davanti ad una commissione di giudici nominati dal vescovo locale (gli “esaminatori sinodali”), dimostrando di possedere la preparazione culturale e teologica sufficiente per ottenere l’indispensabile approvazione alla cura d’anime. Inoltre, fu confermato che l’ufficio del parroco dovesse annoverarsi fra gli uffici “residenziali”: il suo rettore doveva obbligatoriamente risiedere di persona nel distretto della sua parrocchia, possibilmente in un’abitazione posta nei pressi della stessa chiesa. Infine, per meglio disciplinare i fedeli, verificando il loro regolare adempimento agli obblighi sacramentali imposti dai Concili e dalle altre norme canoniche, i parroci dovevano redigere e conservare con cura scrupolosa alcuni registri, nei quali segnare con precisione questi comportamenti dei fedeli. Qualche decennio più tardi, con il Rituale Romanum del 1614 papa Paolo V, specificando in dettaglio anche le formule da usare, definì con precisione i “cinque libri”, cioè questi registri nei quali i parroci dovevano annotare i battesimi, le cresime, i morti, i matrimoni e gli “stati di famiglia”, aggiornati annualmente, con i nomi degli adulti e degli infanti di ogni nucleo familiare. Fino all’Unità d’Italia, questi cinque libri hanno costituito il fondamento testimoniale pubblico dello stato civile dei singoli individui, escludendo dal godimento dei diritti civili (la proprietà, per esempio) chi ne era escluso (come gli ebrei). Anche se ci vollero almeno alcuni decenni per realizzare la riforma, nelle regioni centro-settentrionali la nuova disciplina riuscì a imporsi almeno nei suoi principi fondamentali, sia per l’opera dei vescovi e dei visitatori apostolici, sia grazie al rafforzamento del controllo governativo sul possesso dei benefici ecclesiastici locali contro le ingerenze della Curia romana. Anzi, la progressiva applicazione dell’obbligo di residenza costituì un forte disincentivo per i chierici cittadini ad occupare pievi e parrocchie rurali, favorendo così la formazione di un clero di campagna e di estrazione contadina (piccoli proprietari, fittavoli, artigiani), certo meno preparato culturalmente (ancora nel Settecento, per testimonianza dello stesso Benedetto XIV), ma sicuramente più presente sul territorio e più coinvolto nella vita reale dei parrocchiani.

Nell’Italia meridionale il discorso appare più complesso. La massiccia presenza di chiese a struttura collegiale (quelle “ricettizie”, “estaurite”, “comunie” etc., che raccolsero e continuarono l’eredità delle pievi) comportava l’attribuzione delle funzioni parrocchiali non già a un singolo ecclesiastico, titolare dell’ufficio a tempo indeterminato, bensì all’intero corpo collegiale, che in qualche modo spacchettava le singole mansioni, incaricandone ora questo ora quello dei suoi membri per un tempo più o meno lungo. In queste situazioni la parrocchialità risiedeva presso il corpo, e non presso un singolo rettore, e di fronte a un simile sistema a ben poco servivano le stesse funzioni di verifica delle competenze e dei costumi da parte degli esaminatori sinodali dei vescovi. Soprattutto nella porzione continentale del Regno di Napoli il fenomeno delle ricettizie con cura d’anime raggiungeva proporzioni massicce: ancora nella prima metà dell’Ottocento su 3.697 chiese parrocchiali, collegiate e cattedrali ben 1.118 (il 30,24 %) erano ricettizie. La loro distribuzione, però, non era uniforme: fra le chiese parrocchiali le ricettizie costituivano l’1,52 % nell’Abruzzo Ulteriore II, il 3,65 % a Napoli, il 46,20 % nel Molise, il 49,68 % nel Principato Citeriore, il 50,00 % in Capitanata, il 69,07 % in terra di Bari (con una punta del 96,00 % delle chiese parrocchiali della diocesi di Bari), l’85,86 % in Terra d’Otranto e il 93,42 % in Basilicata. Questa situazione, che contrastava apertamente con il modello beneficiale, egemonico nella Chiesa d’Occidente, e limitava le possibilità dei vescovi di esercitare il proprio controllo sul clero in cura d’anime, non fu colpita da significativi interventi correttivi da parte della gerarchia, almeno per tutta l’età moderna: la realtà ecclesiastica delle “nostre Indie” non godeva fra i canonisti e i teologi quell’attenzione e quella cura, che meritavano le regioni caratterizzate dal sistema beneficiale a prebenda individuale.

Eppure, anche il sistema beneficiale della cura d’anime presentava vistose carenze a livello delle risorse materiali impiegate e della disomogeneità dl personale addetto (in particolare fra le realtà urbane e quelle rurali), ma soprattutto continuò a scontrarsi per tutta l’età moderna contro potenti concorrenti proprio nell’esercizio della parrocchialità. A parte il perpetuarsi del retaggio pievanale in particolari situazioni locali, non soltanto in aree periferiche, per quasi tutta l’età moderna gli enti e corpi ecclesiastici, i titolari di commende, i monasteri maschili e monasteri femminili si opposero con successo all’imposizione tridentina della figura del vicario inamovibile nelle chiese curate di loro pertinenza: in queste chiese, quindi, fino ad oltre la metà del Settecento le funzioni parrocchiali rimasero affidate a sacerdoti secolari mercenari, percettori di miseri salari e impiegati a titolo precario. Del resto, gli ordini religiosi maschili riuscirono a difendere la stessa tenporaneità dell’incarico parrocchiale anche nelle chiese curate annesse ai rispettivi chiostri e gestite dagli stessi regolari: in questi casi il curato era scelto dal superiore della casa e l’ordinario diocesano si limitava ad approvarlo, volta per volta. E poi, anche quando non erano sedi parrocchiali, le case dei regolari esercitavano una potente forza d’attrazione nei confronti dei fedeli, in città come nelle campagne: una concorrenza costante e continua nell’amministrazione del sacramento della penitenza, nella predicazione e nell’insegnamento della dottrina, nella celebrazione delle messe e di altre funzioni religiose, deviando a proprio favore flussi rilevanti di legati pii e di offerte a discapito della chiesa parrocchiale. Non solo: anche se il Tridentino aveva garantito ai parroci la “quarta funeraria” (le offerte dovute per la celebrazione dei funerali), i religiosi continuarono a presenziare alle cerimonie funebri, pretendendo una parte delle elemosine e della cera impiegata. Su questo stesso terreno, poi, i parroci subivano la concorrenza delle confraternite laicali, che potevano garantire ai loro iscritti la “veglia” nelle loro cappelle e un corteo funebre di qualità superiore, con l’accompagnamento dei confratelli con tanto di cappe, cappucci, croci e ceri. Infine, soprattutto nella seconda età moderna visite pastorali e decreti vescovili documentano l’emergere di una nuova situazione concorrenziale nei confronti della centralità dell’ufficio parrocchiale: il proliferare di oratori particolari, soprattutto nelle ville di campagna dei proprietari terrieri, nei presso delle loro fattorie e delle loro ville. Il riordinamento delle strutture produttive in ambito agrario divenne così l’occasione per un’ulteriore spinta centrifuga: i padroni e i fattori imponevano ai loro contadini di assistere alla Messa negli oratori privati, disertando la messa domenicale parrocchiale, con la conseguenza che i fedeli delle campagne da una parte ricevevano una più ridotta istruzione religiosa e, dall’altra parte, si sfaldava il controllo che il parroco avrebbe dovuto esercitare sui comportamenti e le credenze delle proprie “pecorelle”.

Proprio quest’ultimo aspetto evidenziava le funzioni attribuite ormai al parroco da parte dei poteri pubblici. Considerato non solo un “mediatore culturale” fra la gerarchia ecclesiastica e i fedeli per l’importanza attribuita alla predica domenicale, all’esposizione della dottrina cristiana e alla presenza nel confessionale, il parroco era anche un piccolo burocrate al servizio sia della Chiesa, sia dello Stato moderno, al quale era tenuto a fornire i dati necessari per l’imposizione fiscale e l’amministrazione della giustizia, a partire dalla composizione delle famiglie della parrocchia. Una funzione burocratica così importante, da rendere la figura del parroco sempre ben accetta a tutti i poteri e come tale meritevole di una certa protezione e di un pur modesto sostegno economico. Si comprendono, perciò, le ragioni che indussero anche i governi riformatori del Settecento a imporre ai grandi enti ecclesiastici – secolari e regolari – e agli abati commendatari l’onere di sostituire nelle chiese poste alle loro dipendenze gli uffici di vicari curati “amovibili ad nutum” con posti ben remunerati di vicari curati “inamovibili”, proprio come aveva chiesto il Tridentino. Ma, soprattutto, le funzioni civili attribuite ai parroci spiegano l’interesse particolare dimostrato dai sovrani illuministi per accrescere il numero e migliorare la qualità dei loro “presidi”, mettendo in atto una politica di soppressione degli enti ecclesiastici e d’esproprio dei loro patrimoni, sfoltendo l’eccessiva densità di distretti curati in talune situazioni urbane (per es., la cinquantina di “cappelle” della Pisa medievale). In buona misura i beni così incamerati dallo Stato furono utilizzati proprio per fondare nuove chiese curate nei centri rurali o nei quartieri cittadini in via d’espansione, tenendo conto anche delle esigenze di particolari categorie sociali, come i minatori o i lavoratori delle manifatture, e per accrescere i redditi dei parroci e degli altri curati, dotandoli di una “congrua” rendita (intorno ai cento scudi), che li liberasse anche da quei contrasti e da quelle liti giudiziarie nei confronti dei propri fedeli, che spesso nascevano per la riscossione della tradizionale “decima”. L’adozione, poi, del modello muratoriano delle “compagnie di carità” (→ confraternite) da parte dei governi asburgo-lorenesi e la soppressione delle antiche confraternite laicali rafforzò ulteriormente la figura del parroco all’interno del suo gregge: da allora i laici dediti ad attività assistenziali e devozionali all’interno della parrocchia sarebbero stati alle dipendenze dirette del parroco.

Nel frattempo, anche in Italia giunse l’eco del «parrochismo» ultramontano: la concezione ecclesiologica che definiva i parroci come “pastori” (appellativo tradizionalmente riservato ai vescovi), successori diretti dei discepoli di Cristo. Difficile stabilire l’effettiva diffusione in Italia del “richerismo” (dal nome del teologo gallicano Edmond Richer, autore del De ecclesiastica et politica potestate libellus, 1611) e delle sue istanze di democrazia ecclesiastica di stampo presbiteriano. Se ne avverte la presenza nel Sinodo pistoiese del vescovo Scipione de’ Ricci e in taluni punti del programma riformatore del granduca di Toscana Pietro Leopoldo, che però ha un impianto sostanzialmente episcopalista. Certo è che la pubblicazione di opere controversiste contro tali opzioni ancora nell’Ottocento (come il libro di don Luigi Nardi, Dei Parrochi) induce a immaginare una circolazione sotterranea di idee e aspirazioni nelle fila del clero parrocchiale in contrasto con il conformismo obbediente di questi sacerdoti, anche se probabilmente si trattò di un’adesione minoritaria, favorita dalle riforme napoleoniche. Infatti, se nel complesso l’occupazione militare francese prima e il governo napoleonico dopo inflissero gravi perdite in termini di uomini e di risorse materiali alle Chiese locali, il sistema parrocchiale uscì pressoché indenne da quel periodo, e sotto taluni aspetti persino rafforzato: da una parte furono colpiti i tradizionali concorrenti dei parroci (monaci e frati in testa) e, dall’altra, l’assunzione obbligatoria di funzioni di portavoce della volontà governativa in un contesto di evidente soggezione a un sovrano straniero non spezzò il legame fra i parroci e i loro fedeli.

Durante la Restaurazione, emarginate le istanze parrochiste, in un contesto di rinnovato accordo fra trono e altare i governi secolari ripresero ad utilizzare i parroci come portavoci del potere e per le funzioni civili (atti di nascita, di matrimonio, ecc.), che potevano espletare grazie alla loro diffusione capillare sul territorio. Allo stesso tempo, però, la rinascita degli ordini regolari e delle confraternite laicali riproponeva la presenza dei tradizionali antagonisti, che oscuravano la visibilità e la preminenza dei parroci nella gestione locale del sacro. Una svolta decisiva avvenne con il compimento della rivoluzione nazione e la formazione di uno Stato nazionale unitario d’ispirazione liberale, perché le strutture parrocchiali delle diocesi italiane non subirono danni sul piano materiale, almeno dove era egemonico il modello del beneficio ecclesiastico individuale. I dispositivi delle leggi eversive del 7 luglio 1866, del 15 agosto 1867 e dell’11 agosto 1870 esclusero espressamente dai loro colpi i patrimoni dei benefici parrocchiali, anche se non esentarono gli altri beni ascrivibili alle chiese parrocchiali. Ben diversi, invece, furono gli effetti delle stesse leggi sulle chiese curate ricettizie, che furono colpite alla stessa stregua dei capitoli collegiati (→ capitoli cattedrali): anche nel Sud lo Stato imponeva il modello beneficiale e personale dell’ufficio parrocchiale, decretando la fine di quel modello comunitario, che, probabilmente, aveva risposto con maggiore aderenza alle esigenze religiose di una società economicamente meno frammentata e più statica rispetto alle regioni centro-settentrionali. Scontando ritardi e carenze nella formazione culturale anche in ambito teologico, pur lentamente e in condizioni economico-sociali difficili il parroco si avviava a diventare il «vescovo e re del suo popolo», assumendo nei confronti dei suoi fedeli un comportamento duplice, solo apparentemente contraddittorio: comprensione per i loro reali disagi, rigorosa opposizione ai peccati, alla «perdizione» ormai dilagante nella società italiana (Miccoli).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Pataria – vol. I


Autore: Belluomini Flavio

Il movimento che prese il nome “Pataria” – sul significato del termine che di fatto rimane oscuro ci soffermeremo alla fine – ebbe origine con la predicazione del diacono Arialdo da Cuggiago (1010 ca- 1066), tra la fine del 1056 e gli inizi dell’anno seguente. Egli, rivolgendosi ai chierici della zona di Varese, criticava lo stile di vita opulento e mondano del clero e chiedeva per i chierici degli ordini maggiori la rinuncia alla pratica sessuale e alla vita matrimoniale. Fallito il tentativo di sensibilizzare quei chierici, nella primavera del 1057, Arialdo si rivolse al clero della città di Milano che, complessivamente, ebbe un atteggiamento di rifiuto verso le sue proposte, anche se non mancarono alcune adesioni. Tra queste, quella di Landolfo, notaio della cattedrale e proveniente da una famiglia capitaneale, che una fonte tardiva indica in quella dei Cotta, il quale strinse con Arialdo un giuramento e divenne con lui guida del movimento, contribuendone all’espansione grazie alle sue capacità oratorie.

Coloro che aderirono alle proposte di Arialdo erano prevalentemente laici sensibili alle tematiche inerenti alla riforma della Chiesa. La composizione del movimento risultava eterogenea. Infatti, se la povertà evangelica richiesta per il clero era gradita alle classi umili, la critica rivolta ad una gerarchia ecclesiastica legata all’alta feudalità interessava anche i ceti medi. Questi, esclusi da un’alleanza realizzatasi intorno all’arcivescovo Guido da Velate tra il clero cittadino, l’aristocrazia e altri pochi cives benestanti, nutrivano il desiderio di emergere nella vita cittadina. La loro presenza nel movimento è testimoniata dalle fonti che ricordano, tra i primi aderenti alla pataria, il monetiere Nazario. Sono altresì attestate, comunque, adesioni da parte di nobili, tra i quali il già menzionato Landolfo e il fratello di questi Erlembaldo. Da tali testimonianze deduciamo che sarebbe un errore identificare il movimento patarino con la classe popolare o interpretarlo puramente come un fatto di rivincita sociale. Inoltre, sebbene risentisse dei mutamenti sociali dell’XI secolo e della realtà socio economica milanese, esso affondava le sue radici in una dimensione religiosa. Dobbiamo considerare che i secoli X e XI, se conobbero ampi mutamenti socio-culturali, in pari tempo furono pervasi da un’esigenza spirituale nuova che si diffuse nei differenti ceti della societas christiana. Tale esigenza si declinò nei vari movimenti religiosi tendenti ad una riforma della Chiesa e questi ultimi, a loro volta, contribuirono ad alimentala. Arialdo risentiva di questa esigenza. Egli, proveniente da una famiglia di possessori del contado, grazie alle risorse familiari, non solo aveva studiato, ma aveva avuto modo di viaggiare, probabilmente entrando in contatto con le correnti spirituali riformatrici d’oltralpe. La pataria va collocata in tale contesto religioso-riformatore; essa riuscì a far breccia perché interpretava in una modalità propria l’anelito spirituale diffuso in Occidente, che auspicava un rinnovamento della Chiesa e della vita ecclesiastica.

La predicazione di Arialdo e di Landolfo, anche se non prevedeva un approfondimento di tematiche teologiche, si basava su una dimensione cristologica: Cristo aveva portato la luce della verità che sola poteva sottrarre l’uomo dalle tenebre dell’errore e condurlo alla vita eterna. Su questo fondamento Arialdo costruiva la sua ecclesiologia. Per il diacono, come ricorda la Vita Sancti Arialdi di Andrea di Strumi, affinché la «lux veritatis» continuasse a splendere, Cristo aveva lasciato «verbum scilicet Dei et doctorum vita».

I doctores, lo si comprende dal prosieguo del testo dell’agiografo, sono i ministri della Chiesa che, dice Arialdo ai laici, hanno ricevuto il loro ufficio «ut eorum vita esset vestra lectio, qui litteras nescitis». Nella concezione patarina i ministri della Chiesa attingono la lux veritatis dal testo sacro, il popolo invece la riceve dalla vita dei ministri. La vita dei chierici, particolarmente quella dei preti, non è però automaticamente lectio, lo diventa solo se essi sono irreprensibilmente conformi a Cristo. A fronte di questo alto compito, i patarini constatano che i chierici vivono mondanamente, comprano le cariche ecclesiastiche, conducono una vita dissoluta con concubine. Ciò fa sì che essi non solo siano di cattivo esempio, ma diventino una barriera alla luce. Inoltre, per i patarini è inaccettabile che i preti si sposino. Arialdo, in linea con la mentalità medievale, pensa la società suddivisa in ordines. Per lui la Chiesa si compone di tre ordini ben distinti: dei predicatori, dei continenti e dei coniugati. Il diacono riformatore esige una vita moralmente corretta, non solo dai chierici (ordo praedicatorum), ma anche dai laici (ordo coniugatorum) e dai monaci (ordo continentium), ognuno in fedeltà all’ordo di appartenenza. Proprio per tale fedeltà, Arialdo sostiene che, se i preti si sposano, vivono come i laici, cioè come i membri di un altro ordine. Egli tende ad esasperare la divisione tra gli ordines e prevede l’identificazione del ministero ecclesiastico con lo stato di vita del clero. Così facendo, giunge a dire che il prete che si sposa non adempie il proprio ufficio. A ciò va aggiunto che Arialdo, come altri riformatori del suo tempo, ha in mente per i chierici la vita canonicale; inoltre, il suo pensiero potrebbe aver ricevuto influssi da idee dualistiche coeve che esaltavano la verginità e tendevano a svalutare il matrimonio.

La preoccupazione di avere preclusa la via che conduce alla salvezza eterna, a causa di un clero indegno, condusse molti laici ed anche alcuni chierici ad aderire alle proposte di Arialdo e di Landolfo. Coloro che le accolsero, inizialmente, cominciarono a disertare le celebrazioni officiate dai preti da essi ritenuti indegni.

Il 10 maggio del 1057, giorno della festa della traslazione del corpo di S. Nazaro, dopo uno scontro oratorio che Arialdo e Landolfo ebbero con alcuni preti, una folla numerosa, influenzata dai suddetti capi patarini, entrò nella cattedrale di Milano e cacciò dal coro i chierici ordinari perché stimati indegni del loro ufficio. Questo fatto appare come l’inizio della fase cruenta, quando i patarini, unitisi con giuramento, iniziarono a fare uso della forza contro i preti e i chierici considerati indegni. In particolare, presero di mira i preti sposati e concubinari, imponendo loro di lasciare le donne, fossero anche le mogli o, in caso contrario, proibendo ad essi di accedere all’altare. È probabile comunque che anche prima di quella data ci siano state azioni violente.

Prima di considerare meglio cosa accadde in quel 10 maggio 1057, vogliamo cercar di capire perché il clero facesse fatica ad accogliere le proposte di Arialdo. Alla base c’è una concezione della Chiesa e della stessa Tradizione diversa da quella che avevano maturato i patarini. Innanzitutto, la questione del celibato obbligatorio non trovava accoglienza perché, secondo la tradizione ambrosiana e non solo, i preti potevano sposarsi; il fatto che i patarini ponessero sullo stesso piano matrimonio e concubinato, proibendo entrambi, era inconcepibile per i chierici ambrosiani. Anche a proposito della gestione dei beni e dell’assegnamento delle cariche ecclesiastiche, le posizioni erano differenti. Fin dall’epoca carolingia, la Chiesa milanese non solo era stata dotata di ricchezze ma anche di diritti feudali; ciò aveva creato un legame tra la gerarchia ecclesiastica e l’alta feudalità che appariva naturale e sembrava una garanzia di stabilità. Gli uffici ecclesiastici, però, con i loro relativi beneficia erano appetibili e, col passare del tempo, cominciarono ad essere elargiti sulla base di un tariffario. Quella prassi veniva sempre più ad essere criticata come simoniaca e i patarini si fecero interpreti del malcontento. Il clero di Milano non era comunque un clero corrotto, esso presentava sicuramente casi di indegnità sia nella sfera sessuale che patrimoniale ma, se si escludevano questi, lo stile di vita del clero ambrosiano era adeguato ai canoni della Chiesa del tempo. I patarini, invece, non solo stigmatizzavano gli eccessi, ma esigevano un cambiamento o, se vogliamo, uno stravolgimento della vita ecclesiastica. Per loro infatti la lux veritatis stava oltre la tradizione fissata dai canoni della Chiesa. Ciò era particolarmente significativo riguardo al matrimonio dei preti: i padri della Chiesa lo avevano consentito, lo stesso San Paolo non lo proibiva ma, a coloro che ricordavano ai patarini queste alte testimonianze, essi dicevano che ormai la situazione richiedeva altro. L’agiografo Andrea nella Vita Sancti Ariladi faceva dire ad Arialdo parole inequivocabili a tale proposito: “Vetera transierunt, et facta sunt omnia nova. Quod olim in primitiva ecclesia a Patribus sanctis concessum est, modo indubitanter prohibetur”».

Di fatto, in occasione del tumulto del 10 maggio, i patarini presero il sopravvento e costrinsero il clero degli ordini maggiori a sottoscrivere, sotto giuramento, il Phytacium de castitate servanda, ossia un documento che prevedeva l’impegno del clero di mantenersi casto e costringeva i chierici degli ordini maggiori al celibato. Tale documento pare facesse riferimento ad un sinodo celebrato in Pavia, nel 1022, con la presenza di Benedetto VIII e dell’imperatore Enrico II. Gli atti sinodali venivano aperti dal papa che citava arbitrariamente una legge giustinianea, la quale minacciava di gravi sanzioni i suddiaconi, i diaconi e i preti che avessero contratto matrimonio. L’arbitrio stava nel fatto che Benedetto VIII non ricordava che tale legislazione era riferita ai chierici, i quali si fossero sposati “dopo l’ordinazione”. Il phytacium comportò ricadute giuridico-patrimoniali sulla vita del clero, in quanto la presunta indegnità del chierico faceva sì che egli, con l’ufficio, perdesse il beneficio. A ciò seguirono, sia in città che nel contando, separazioni forzate dalle famiglie e allontanamenti dalle chiese di preti ritenuti indegni, inoltre, non mancarono saccheggi e incendi ai beni dei preti e di altri chierici. In questa agitazione, i motivi religiosi e quelli economico-sociali si venivano a mischiare; non mancarono, sotto il pretesto del phytacium, azioni che nascevano dal risentimento personale. Quello che apparve come un fatto sovversivo era che il giudizio sul clero venisse dato a prescindere dalla gerarchia ecclesiastica e, soprattutto, che laici si facessero giudici dei chierici. La Sede Apostolica, come vedremo, cercherà sempre di proibire o, perlomeno, di gestire questa azione laicale. In ogni modo, i patarini non volevano una Chiesa senza clero, anzi, era proprio l’immenso valore che essi davano ai ministri dell’altare che li faceva agire, anche con la forza, per un rinnovamento della vita ecclesiastica.

Davanti a tale situazione che si protraeva e coinvolgeva tutta la città, il clero e la nobiltà si rivolsero prima ai suffraganei dell’arcivescovo di Milano Guido da Velate (assente perché in visita presso la corte tedesca) e poi inviarono dei rappresentati a Stefano IX, che dal 2 agosto sedeva sulla cattedra di Pietro. Stefano IX con una lettera invitò i milanesi a placare gli animi e, trattandosi di una questione locale, chiese all’arcivescovo di riunire un sinodo provinciale per trattare i problemi sollevati dai patarini. Guido convocò in sinodo i suoi suffraganei nel monastero di Fontaneto nel novarese, pare tra la fine di ottobre o i primi di novembre, e invitò anche Arialdo e Landolfo, i quali, però, non si presentarono. Essi consideravano Guido indegno e simoniaco e sapevano che i vescovi presenti li avrebbero giudicati secondo i canoni vigenti che consentivano il matrimonio dei preti, proibivano di sciogliere i matrimoni religionis causa e vietavano l’abbandono della partecipazione alle celebrazioni dei preti coniugati. Nell’assise, comunque, non si condannarono le idee dei patarini ma, poiché Arialdo e Landolfo non si erano presentati, essi furono condannati per contumacia che, nel caso di un sinodo, prevedeva la scomunica. Il fossato tra i patarini e la gerarchia locale era ormai scavato.

A seguito della condanna, i patarini inviarono Landolfo da Stefano IX, ma il fidato collaboratore di Arialdo venne aggredito e gravemente ferito nei pressi di Piacenza. Fu Arialdo, allora, intorno alla prima metà di novembre, ad andare a Roma.

Stefano IX, sensibile alle tematiche inerenti alla riforma della Chiesa, non sconfessò il capo patarino, ma neppure prese posizione contro Guido. Chiese poi a Ildebrando di Soana e al milanese Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, diretti per suo conto presso la corte tedesca, di sostare in Milano per una missione esplorativa e per placare gli animi.

Al ritorno di Arialdo da Roma le fonti mettono in evidenza, come prima conseguenza, un cambiamento nella sua predicazione che si spostò decisamente contro il clero simoniaco. Anche se i patarini resteranno convinti della necessità di un clero celibe, in questo periodo, cade in secondo piano la presa di posizione contro i chierici uxorati. Possiamo supporre che il papa abbia ricordato ad Arialdo la distinzione tra matrimonio e concubinato presente nei canoni della Chiesa. Del resto, un riformatore del taglio di Leone IX, nel 1049, in un sinodo, aveva preso provvedimenti severi contro i chierici concubinari, ma non aveva imposto ai preti sposati di lasciare le mogli. La questione simoniaca, poi, era piuttosto intensa nel dibattito teologico del tempo. In alcuni ambiti si pensava che i sacramenti celebrati dai simoniaci fossero opera di un’anti-chiesa e quindi invalidi. C’era, inoltre, chi percepiva la simonia come un morbo contagioso, per cui anche il chierico ordinato gratuitamente da un simoniaco o chi intratteneva rapporti con i simoniaci risultava contaminato. I patarini erano portatori di queste istanze. L’insistenza sulla simonia, nel momento contingente, era poi negli interessi dei patarini, in quanto era considerata un’eresia contro lo Spirito Santo. Arialdo e Landolfo reputavano simoniaci Guido e i suoi suffraganei e tali volevano che apparissero. Che valore aveva allora la condanna inflitta ai capi patarini al sinodo di Fontaneto se quel sinodo era stato un’assise di eretici?

L’istituzione di una canonica, probabilmente già dalla seconda metà del 1057, (Fonseca, Arialdo, p. 137) dove Arialdo risiedeva con altri chierici, pare una risposta concreta alla simonia, al fine di avere un clero idoneo per celebrare i sacramenti. I chierici ivi residenti erano chiamati alla vita comune con povertà individuale e liturgia oraria. Le strutture architettoniche della chiesa, tra queste l’erezione dello jubé, rimandavano allo stile della riforma canonicale.

L’altra conseguenza del viaggio di Arialdo presso Stefano IX fu il rapporto decisivo che venne ad instaurarsi con il vescovo di Roma. Il papa diventava il referente del movimento: la veritas di cui i patarini erano i difensori era ora interpretata dall’auctoritas romana. È chiaro che questo allontanava i patarini dal rischio di derive ereticali e da conseguenti condanne, ma, nello stesso tempo, faceva crescere ancor più verso di loro l’animosità da parte dei difensori delle prerogative ambrosiane. Intanto, il 29 marzo 1058, Stefano IX moriva. Niccolò II, eletto nel dicembre dello stesso anno, inviò, pare su richiesta degli stessi patarini, una nuova legazione, nell’inverno 1059/1060, composta da Anselmo da Baggio e da Pier Damiani. I legati faticarono a farsi accettare dai milanesi, sobillati contro di loro sulla base delle prerogative ambrosiane. La conclusione della legazione condusse alla decisa condanna di ogni forma di simonia e, soprattutto per l’intervento di Pier Damiani che come altri contemporanei riteneva il celibato utile per una riforma del clero, portò ad una sorta di abbinamento tra concubinato e matrimonio del clero. Giudo, infine, accettò tali disposizioni ed emanò un documento di condanna della simonia e del nicolaismo, sottoscritto dagli ordinari della cattedrale. Seguì un giuramento contro la simonia, una penitenza e una cerimonia riconciliatoria per i chierici pentiti; infine tutto il popolo giurò contro la simonia e il nicolaismo. Le conclusioni della legazione, immediatamente, davano ai patarini motivo di soddisfazione, ma il fatto che i legati, in linea con l’atteggiamento romano, ponessero come custodi della nuova impostazione l’arcivescovo e la gerarchia locale, non li lasciava sereni. Arialdo allora si recò a Roma per presentare l’accusa di simonia contro Guido. Niccolò II convocò un sinodo che si svolse nell’aprile 1060, ma Guido ne risultò assolto.

Le cose tornarono a modificarsi con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1061, di Anselmo da Baggio che prese il nome di Alessandro II. Il papa milanese, che conosceva il movimento e capiva come esso potesse contribuire alla riforma della Chiesa concepita in termini romani, incrementò i rapporti di Roma con i patarini. Alessandro, intorno al 1064, concesse il Vexillum Sancti Petri a Erlembaldo: ciò creò un legame di tipo feudale tra il pontefice e il movimento, finalizzato alla repressione degli eccessi di coloro che erano ritenuti i nemici di Dio. (Violante, I Laici nel movimento patarino, p. 201. I patarini, sotto la guida di Erlembaldo che, come laico, poteva dedicarsi alle armi, avrebbero combattuto una vera battaglia armata contro gli avversari della riforma in obbedienza al vescovo di Roma. A partire dalla fine del 1063, gli scontri tra i patarini e i loro avversari furono aspri. Arialdo contestò l’elezione di alcuni abati che avevano assunto la carica senza passare da una regolare vita monastica. Sempre a quel periodo pare che possiamo ascrivere una lettera pontificia che chiedeva ad Arialdo di non riammettere nel loro ufficio i chierici recidivi. Un motivo di scontro acceso fu la critica che Arialdo mosse ad alcune usanze liturgiche di Milano. Egli non concepiva come la liturgia ambrosiana potesse imporre il digiuno nel periodo delle rogazioni che prendevano luogo nella settimana dopo l’Ascensione. Il capo patarino, che non mancava certo di fare digiuni, non voleva che, nel tempo gioioso della pasqua, i cristiani assumessero uno stile penitente. La sua predicazione contro quell’usanza fece sì che sorgesse un tumulto che portò al saccheggio della canonica di Arialdo, liberata dall’intervento di Erlembaldo.

L’anno seguente, a seguito della proibizione imposta da Guido ad alcuni preti della canonica di Arialdo di officiare, intervenne Alessandro II riammettendoli nell’ufficio. La tensione era alta e ormai Alessandro II si era schierato apertamente contro Guido. Un ulteriore momento di tensione avvenne quando due preti monzesi aderenti alla pataria vennero imprigionati per ordine dell’arcivescovo, al fine di impedirne l’attività di predicazione e furono liberati con le armi dai patarini.

Alessandro II, infine, scomunicò Guido perché accusato di non essere fedele agli impegni presi, consegnando ad Erlembaldo la bolla di scomunica da presentare a Milano. L’arcivescovo allora radunò i milanesi in cattedrale il 4 giugno 1066, domenica di Pentecoste e, facendo ancora leva sul sentimento ambrosiano, presentò la bolla come un’ingerenza romana. Scoppiò un tumulto, nel quale lo stesso Arialdo rimase ferito; dopo essersi nascosto, fu tradito da un prete e rintracciato dai soldati dell’arcivescovo fu da questi ucciso: era il 28 giugno 1066. Con la sua morte, la pataria subì una crisi, ma il 3 maggio dell’anno seguente il ritrovamento del suo corpo, portato solennemente in Sant’Ambrogio, rinvigorì il movimento.

In questa nuova situazione il capo della pataria appare sempre più Erlembaldo, anche se la guida spirituale è assunta da un prete, Liprando.

Intanto il papa, nell’estate del 1067, inviava i cardinali Giovanni Minuto e Mainardo di Silva Candida per una terza legazione.  Il primo agosto i legati emanarono le Constitutiones che ribadirono le decisioni della legazione precedente: i simoniaci e nicolaiti erano condannati, ma altresì la gerarchia ecclesiastica locale era ristabilita per guidare la riforma morale e disciplinare del clero. I legati, facendo presente che i patarini avevano ecceduto nella violenza contro i chierici, chiarivano che ciò era da stigmatizzare; inoltre, veniva espressamente proibito ai laici di giudicare i membri del clero «quia cuncta ecclesiastica officia in status sui dignitate consistere volumus», questo imponevano le Constitutiones. Roma, che con Alessandro II vedeva crescere la sua influenza assumendo sempre più i caratteri di una “monarchia papale”, si faceva garante dell’ordinamento canonico. Il papa, al vertice della gerarchia – e questo nella parte introduttiva del testo delle Constitutiones era messo in chiaro – sarebbe potuto intervenire, anche passando oltre l’arcivescovo, nelle questioni disciplinari del clero e controllare i laici perché non cadessero in derive ereticali o in eccessi di comportamento.

I patarini, dovendo accettare le disposizioni romane, pensarono di intervenire a monte, con la sostituzione di Guido. È piuttosto probabile che Alessandro II condividesse le proposte dei patarini a tale proposito. In questo frangente, siamo nel 1068, la pataria conobbe una crescita, al punto che Guido, non più in grado di contrastare la sua azione, decise di restituire le insegne episcopali al re di Germania Enrico IV. I patarini erano finalmente riusciti a far dimettere Guido dalla cattedra ambrosiana, ma non era facile assicurargli un successore che rispondesse alle loro attese.

Fu inviata da Milano una terna ad Enrico IV, ma egli, di arbitrio, designò arcivescovo Gotofredo da Castiglione, suddiacono del clero ordinario. Lo scontento generale per la modalità di tale nomina che non considerava le richieste locali, oltre a compattare i patarini, li unì, in un accordo momentaneo, con altri settori della città. Fino al 1071 l’influenza della pataria in città fu forte. Dopo la morte di Guido, avvenuta il 23 agosto 1071, Erlembaldo, che non considerava valida la nomina di Gotofredo, riuscì ad imporre Attone, un giovane chierico ordinario. Gli aristocratici e altri settori cittadini si ribellarono e, dopo aver attaccato il palazzo arcivescovile, costrinsero Attone a rinunciare all’ufficio. A seguito di questi fatti, la pataria cominciò a perdere consensi.

Gregorio VII, divenuto papa nell’aprile del 1073, fin dall’inizio del suo pontificato, guardò con attenzione alla situazione di Milano e ribadì il rifiuto di Roma a Gotofredo, mentre Enrico IV ne confermava l’appoggio. Siamo ormai nel tempo della lotta per le investiture.

In questa situazione istituzionale opaca, Erlembaldo fece dei passi falsi che crearono ulteriore sdegno nei suoi confronti. In occasione della pasqua del 1074, proibì al clero della cattedrale di amministrare i battesimi, in mancanza di un crisma consacrato da un vescovo considerato degno. Nella pasqua dell’anno seguente, fece amministrare i battesimi a Liprando, in sostituzione del clero della cattedrale. Nella primavera del 1075, poi, circolarono voci che i patarini avevano calpestato il crisma consacrato dai suffraganei e, per questo, vennero ritenuti da molti colpevoli dell’incendio che aveva colpito Milano, interpretato come una punizione divina. Dopo la pasqua del 1075, mentre il dissenso contro i patarini cresceva, Erlembaldo fu ucciso in uno scontro armato. Pochi patarini restavano a Milano, la maggior parte si ritirava nelle più sicure Cremona e Piacenza.

Enrico IV, messo da parte Gotofredo, intervenne di nuovo d’autorità e affidò l’episcopato a Tedaldo, un chierico della sua cappella, consacrato il 4 febbraio 1076 contro la volontà di Gregorio VII e da questi scomunicato. In tale frangente, come testimoniano le lettere inviate dal pontefice al prete Liprando e ad alcuni laici, il papa cercò di promuovere la riorganizzazione dei patarini per portare avanti la riforma e contrastare Tedaldo. Intanto, nei primi mesi del 1077, una delegazione di milanesi, contrari alle ultime decisioni di Enrico IV, incontrò il pontefice a Canossa e chiese il perdono per i rapporti intrattenuti con Tedaldo.  Gregorio allora, nell’aprile del 1077, inviò a Milano Gerardo di Ostia e Anselmo da Baggio, quest’ultimo era l’omonimo nipote di Alessandro II e suo successore a Lucca, i quali vi rimasero tre giorni in segno di riconciliazione.

Negli anni seguenti, con il declino dell’influenza di Enrico IV in Italia, i milanesi dimostrarono la loro avversione a Tedaldo che, per questo, non poté risiedere a Milano. Egli morì il 25 maggio 1085. Lo stesso giorno lasciava questo mondo Gregorio VII in esilio a Salerno.

Gregorio, che ancor più dei suoi predecessori aveva cercato di porre i movimenti riformatori sotto la tutela papale, aveva comunque dato ai patarini un margine di movimento, in quanto essi, in quel frangente, erano una risorsa nella sua lotta contro l’imperatore a proposito delle investiture. Dopo la sua morte le cose cambiarono per il mutato contesto politico ed ecclesiale. Urbano II, divenuto papa nel 1088, a seguito di Vittore III, mietendo i frutti dell’opera dei suoi predecessori, proponeva il papato come suprema autorità e garante della riforma della Chiesa. Il papa poteva intervenire nella vita delle chiese locali e altresì interpretare e moderare i canoni. Su questa base di legame e fedeltà a Roma, Urbano II voleva altresì che la riforma fosse assunta dai vescovi nelle rispettive chiese locali.

Egli intervenne nei confronti di Anselmo III da Rho, nominato arcivescovo di Milano dal re di Germania e imperatore Enrico IV e consacrato il 10 luglio 1086 contro il volere del papa. Dopo che l’influenza dell’imperatore sulla città era cessata, Anselmo era stato deposto. Urbano II, derogando ai canoni, lo richiamò alla guida dell’arcidiocesi in cambio della sua fedeltà, sancita con la consegna del pallio. Le scelte dal papa sarebbero andate però contro le idee dei patarini. Non solo Urbano reintegrava nell’ufficio gli antichi avversari della pataria, come Anselmo III, ma abbandonava anche l’idea che la validità dei sacramenti dipendesse dalla degnità dell’officiante. I patarini che volevano rimanere fedeli alla loro originaria identità dimostrarono disappunto. Si era così infranto quel legame tra Roma e i patarini; essi, a questo punto, non riuscivano più a vedere nel papa l’auctoritas garante della veritas. La linea tracciata da Urbano sarebbe continuata: la riforma della Chiesa, concepita in termini romani, doveva essere portata avanti a livello locale e i vescovi avevano in ciò un alto compito.

Le visite di Urbano II a Milano, nel maggio 1095 e nel settembre/ottobre 1096, suggellarono il legame tra Roma e Milano. Soprattutto, con la solenne tumulazione del corpo di Erlembaldo in un nuovo sepolcro nel monastero di S. Dionigi, compiuta congiuntamente da Urbano II e Arnolfo III (succeduto alla fine del 1093 ad Anselmo da Rho), l’autorità/istituzione veniva ad appropriarsi del carisma della pataria, facendo sì, definitivamente, che la gerarchia locale, in unione ormai con Roma, si ponesse alla guida della riforma contro le pretese dei patarini intransigenti. La pataria, anche se lasciava i suoi segni nella diocesi di Milano, entrava in un lungo processo di declino. I patarini rimasti, infatti, si dovevano adeguare alla nuova situazione, altrimenti sarebbero stati visti come disobbedienti a Roma, nemici dell’auctoritas che sola poteva portare avanti la riforma della Chiesa e dei costumi del clero.

A questo punto, ci soffermiamo sull’uso e sul significato del termine “pataria” e, di conseguenza, “patarino”. Non è casuale farlo dopo l’excursus storico e l’analisi di alcune tematiche decisive per il movimento religioso, perché detti termini hanno conosciuto varie interpretazioni e subito mutamenti semantici lungo la storia.

Dagli scritti coevi emerge piuttosto chiaramente l’uso originario del termine, mentre resta incerto il suo significato. Andrea di Strumi, discepolo di Arialdo, nella Vita Sancti Arialdi, scritta nel 1075, chiama fideles e non patarini coloro che avevano aderito al movimento di cui lui stesso era stato membro. Dei termini pataria e patarino non c’è traccia nelle Lettere del prete Siro, che troviamo accluse alla suddetta opera di Andrea, né nelle fonti ufficiali, come le lettere papali e i documenti delle legazioni romane. Nei Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium, opera conclusasi nel 1077, Arnolfo, membro dell’alta feudalità e nemico dei patarini, nel III libro sostiene che il temine veniva usato hyronice dagli avversari dei seguaci di Arialdo. Il termine poi, egli chiarisce nel libro IV, non sarebbe nato da una volontà specifica, ma spontaneamente. Ma che significato aveva il lemma pataria? Arnolfo, ancora nel IV libro, dice di aver trovato in un libro di etimologie che esso deriva dal greco pathos, corrispondente al latino perturbatio. Di conseguenza, pataria significa agitazione, disordine e patarino sobillatore. È interessante osservare come, quasi nello stesso periodo, l’agiografo Andrea e il cronista Arnolfo, in base alla loro esperienza e alla loro ideologia, presentino i discepoli di Arialdo come fedeli (alla verità) o perturbatori dell’ordine costituito.

Bonizone di Sutri, ferreo gregoriano e sostenitore del movimento, nel Liber ad Amicum, scritto nella seconda metà degli anni Ottanta, riportava che i simoniaci, «improperantes paupertatem» ai discepoli di Arialdo, «paterinos, id est pannosos vocabant». I simoniaci, dunque, biasimandone la povertà, li chiamavano patarini e ciò significava appellarli “straccioni”. Anche Bonizone, dopo la suddetta definizione, cerca di interpretare il termine. Egli sostiene che la traduzione del latino pannus in greco è rachos che, a sua volta, ha un’assonanza con l’aramaico racha, epiteto ingiurioso che Gesù proibisce nel vangelo: «qui autem dixerit fratri suo: “Racha”, reus erit concilio» (Mt 5,22). Di conseguenza, chi chiama “patarino” qualcuno lo ingiuria dandogli del “racha” e merita la condanna indicata dal vangelo; nello stesso tempo, chi riceve questa offesa, poiché la subisce in quanto fedele a Cristo, risulta meritevole davanti a Dio. È sulla base di tale ragionamento che Bonizone può parlare di «gloriosum genus Paterinorum». A dieci anni dagli scritti di Andrea e Arnolfo, la situazione era mutata e il termine, precedentemente usato dagli avversari, poteva ora essere utilizzato come un vanto da parte dei sostenitori del movimento (Lucioni, Gli altri protagonisti, p. 283). Non mancarono, tuttavia, coloro che indicavano i patarini come esseri negativi e addirittura demoniaci, come Benzone d’Alba che nel suo Ad Heinricum IV imperatorem parla di «nova monstra, patarini, famuli perfidię», i quali come altri eretici «ab inferno prodierunt».

Landolfo Seniore, difensore delle prerogative ambrosiane e del clero uxorato contro i patarini, nella sua Historia Mediolanensis, scritta nei primi anni del XII secolo, parla di patalia e dice che tale termine significa placitum Dei, cioè giudizio di Dio. I patarini, per Landolfo, si sentivano i portatori del placitum Dei, emanando sentenze «super sacerdotes», ma il loro agire era arbitrario e pretestuoso per cui giungevano ad un «placitum sine vero».

Le suggestive interpretazioni prese in esame sono fatte a posteriori, in uno spirito polemico, e si connotano come un artificio retorico, è quindi impossibile giungere ad un’etimologia condivisa attraverso di esse. Anche le connotazioni che il lemma giunge ad assumere lungo i secoli non ci aiutano in questo, visto che esse mutano in base ai contesti, fino a quando nel concilio Lateranense III il termine diviene sinonimo di eretico, molto probabilmente ciò trova la sua genesi nei fatti accaduti dopo il 1088.

Quello che sembra interessante da un punto di vista etimologico è comunque la testimonianza di Bonizone. Il vescovo di Sutri, sostenendo in prima battuta (cioè prima di entrare nell’interpretazione), che patarino significa straccione, pare voler offrire, lui lombardo che scrive a chi non è di quell’area linguistica, una traduzione del termine. Il lemma patarino potrebbe allora avere a che fare con un’espressione dialettale la cui radice è pattée, da cui deriva anche il termine “pattaro”, straccivendolo (questa era la strada percorsa nel Settecento dal Muratori che peraltro non conosceva l’opera di Bonizone). Se accogliamo la possibilità che i patarini siano coloro che erano appellati “straccioni”, da quanto abbiamo detto precedentemente sulla composizione del movimento, non possiamo pensare che quegli “straccioni” possano essere identificati con una massa di miserabili. Si torna quindi nell’interpretazione e si aprono alcune possibilità. Il termine potrebbe aver indicato genericamente le masse popolari che oscillavano tra la sequela dei capi patarini o della parte avversa (Violante, La Pataria milanese, p. 198). Tale termine potrebbe invece essere stato rivolto a quei ceti emergenti di cui abbiamo detto che, attraverso il sostegno economico al movimento, esprimevano la loro affermazione. I nobili, sprezzantemente, avrebbero diffuso il termine per bollare come straccioni questi nuovi ricchi che pretendevano di cambiare la società milanese (Golinelli, La Pataria, p. 57). Se invece respingiamo completamente la lettura che vede nei patarini una realtà sociale – in questo caso sarebbe opportuno mettere l’attenzione sulla stessa interpretazione di Bonizone – straccione potrebbe significare umile, in opposizione a quella Chiesa ambrosiana che, ricca di sé, non accettava la guida di Roma, cosa che facevano invece gli umili patarini, per questo trattati da pannosi, straccioni (Cracco, Pataria: opus e nomen, p. 377-378).

Il significato del temine resta comunque incerto e a livello storiografico la questione rimane aperta.

Bibliografia

Fonti: Andrea di Strumi, Vita Sancti Arialdi, ed. F. Baethgen, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XXX, 2, Lipsae 1934, pp. 1047-1075. Arnolfo, Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium, ed L.C. Bethmann – W. Wattenbach, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, VIII, Hannoverae 1848, 1-32. Benzone d’Alba, Ad Heinricum IV imperatorem libri VII, ed. Hans Seyffert, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores Rerum Germanicarum in usum scholarum, LXV, Hannoverae, 1996, pp. 83-657. Bonizone da Sutri, Liber ad Amicum, ed. E. Dümmler, in Monumenta Germaniae Historica, Libelli de lite imperatorum et pontificum, I, Hannoverae 1891, pp. 568-620. Landolfo Seniore, Historia Mediolanesis, ed. L.C. Bethmann – W. Wettenbach, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, VIII, Hannoverae 1848, pp. 32-100. Mainardo di Silvacandida, Constitutiones quas legati Sedis Apostolicae Mediolanesibus observandas praescripserunt, ed. G.D. Mansi, in Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, ed. Coletti, Venetiis 1774, coll. 946-948.

Studi:

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Patria, Nazione - vol. I


Autore: Guido Formigoni

I due concetti di patria e di nazione hanno radici comuni e infinite sfumature semantiche nella loro complessa storia. Nel latino medievale, ambedue rappresentavano l’idea della comunanza di origine di un gruppo umano (per paternità o per nascita). La loro utilizzazione fu per secoli variegata, sovrapposta e spesso pluriforme. Ad esempio, gli studenti che affluivano nelle università italiane da tutta Europa erano di norma raggruppati per nationes, identificate su base linguistica (o dialettale, nel caso delle province italiane). Al Concilio di Costanza del 1419 sorse un’animata discussione sul senso della divisione dei delegati ecclesiastici in nationes: in questo caso il processo era parallelo alla frammentazione dell’unità cristiana medievale in regni, i cui sovrani non intendevano riconoscere autorità superiori. Ma il linguaggio era oscillante, per cui si poteva parlare comunemente anche di una «nazione europea». Nella nostra penisola, fin dal sec. XIII la riflessione sulla lingua volgare comune aveva iniziato a far parlare di una nazione italiana. Che peraltro conviveva con la varietà dei linguaggi, delle genti e delle istituzioni statuali. La patria poteva così essere la città di origine, anche se ci si poteva sentire italiani, pur condividendo una lealtà per gli ordinamenti monarchici locali. Per un cristiano, cioè per la grandissima parte della popolazione, la coscienza religiosa si collocava senza difficoltà in questa gamma di appartenenze, diverse ma non contraddittorie. Se il tema della disunità e della servitù dell’Italia era ampiamente diffuso e discusso, in contrapposizione alla nascita di potenti monarchie “nazionali” in Europa, questo non significava che si potesse automaticamente tradurre la nazione e la patria in linguaggio politico.

Le cose cambiarono con l’esperienza rivoluzionaria e la sua diffusione anche italiana nel triennio giacobino e nell’età napoleonica. A partire dall’Assemblea nazionale francese del 1789, la nazione diveniva il corpo politico individuato che stava di fronte al sovrano: “sovranità nazionale” era l’espressione rivoluzionaria opposta alla tradizione dell’assolutismo dinastico. In più, la cultura romantica cominciava a elaborare miti nazionali in ogni esperienza locale europea, recuperando nella tradizione storica anche lontana ogni elemento culturale e linguistico utile.

Di fronte a queste evoluzioni, la cultura religiosa e l’esperienza ecclesiale italiana furono fortemente sollecitate dal confronto con i “principi dell’89”. Una piccola minoranza, seppure culturalmente non trascurabile, si trovò in sintonia con le ipotesi rivoluzionarie, cogliendo le nuove opportunità di libertà della Chiesa dal giogo del dispotismo illuminato e sviluppando le istanze evangeliche presenti nelle parole d’ordine nuove. Prevalse però una linea antimoderna e antirivoluzionaria, tesa a interpretare il cattolicesimo come ideologia reazionaria a base di massa. Nell’età della Restaurazione, questa linea si sviluppò ampiamente, alla luce della rinnovata fiducia nella capacità della fede cristiana di animare lo spirito dei tempi. La versione reazionaria del nesso «guelfo» tra religione e civiltà si imperniava così su un universalismo rigidamente chiuso a sviluppi liberali o nazionali. La Santa alleanza dei sovrani cristiani era ritenuta l’unico strumento per agganciare ancora lo ius publicum europaeum all’eredità minacciata della christianitas. Il cattolicesimo reazionario italiano tipico dell’età della Restaurazione, dal principe di Canosa a Monaldo Leopardi, era quindi decisamente negativo sull’idea di una nazionalità italiana, radicandosi piuttosto nella difesa del legittimismo dei principi. Del resto, su questa linea si schierò papa Gregorio XVI (1831-1846), pur proveniente da una esperienza di zelantismo innovatore, ma eletto papa proprio nel turbine di una grave crisi politica europea (con le rivoluzioni nazionali aperte in Belgio e in Polonia). Le preoccupazioni lo fecero irrigidire attorno alla difesa del principio di autorità, il che impediva di riconoscere le ragioni di qualsiasi ribellione ai sovrani legittimi (fosse anche nazionalmente giustificata).

Nasceva però anche in Italia, parallelamente a queste posizioni, una versione diversa del guelfismo, ispirata a una maggior istanza di conciliazione con la modernità, e quindi portata a incrociarsi con la nascente questione nazionale. La cristianità, mediatrice tra vecchio mondo e nuovo, si scopriva in questa linea punto d’incontro fra tradizione e libertà, e quindi anche tra la profonda unità spirituale del continente europeo e le individualità delle diverse nazioni. L’acclimatamento dell’idea di nazione nella cultura cattolica italiana è peraltro un processo che resta da spiegare analiticamente. Fu favorito senz’altro dalla pregnanza del concetto immediato di «popolo cristiano», inteso come realtà vivente individualizzata, potenzialmente identificabile secondo caratteri nazionali. Rinasceva così un mito guelfo dell’alleanza tra Papa e popolo, idealizzando le vicende medievali dei Comuni italiani. Influiva nello stesso senso l’esigenza di collegare il riscoperto nesso tra religione e civiltà a tradizioni antiche, a identità storiche specifiche e originali, reagendo in questo modo all’appiattimento del cosmopolitismo razionalista settecentesco.

Su questa lunghezza d’onda, si mossero parecchi intellettuali cattolici. Il patriottismo risorgimentale di un Manzoni univa ad esempio una generale esigenza morale di libertà a un fortissimo sentimento universalistico. Criticando l’esito giacobino delle rivoluzione francese, egli studiava l’evoluzione della libertà nella storia di un popolo individuo, cercando le radici dell’italianità nella vicenda dei latini, oppressi dagli invasori longobardi. Nell’ode Marzo 1821 (scritta in occasione dei moti carbonari di quell’anno, ma pubblicata nel 1848), egli diede una definizione poetica forte della nazione : «Una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor». Il discorso sulle comunanze oggettive di lingua e ascendenza (il sangue), si intrecciava con la dimensione volontaristica delle memorie storiche e con la sanzione religiosa.

Anche Antonio Rosmini, nella linea di un «illuminismo cristiano» settecentesco, era giunto ad apprezzare gli ideali delle rivoluzioni (diritti dell’uomo, libertà, eguaglianza), distaccandosi dai suoi esiti autoritari e violenti, mentre si apriva alla valorizzazione degli esiti liberali della fede cristiana. La nazione era per lui un ideale religioso e letterario, convergenza spontanea di diverse appartenenze, che dalle patrie locali andavano fino alla universale res publica christiana. Nel quadro dell’idea romantica della religione cristiana come culla della civiltà europea, si collocava l’immagine dell’Italia «nazione cattolica», che avrebbe dovuto essere ispirata e coltivata da una Chiesa capace di autoriforma (si pensi al volume sulle Cinque piaghe, scritto fin dal 1832 e rinviato per la pubblicazione fino al 1848). A proposito della politica italiana, con un cauto gradualismo, sposava l’idea di costituire una confederazione italiana, fino a partecipare attivamente, su basi liberal-nazionali, al grande sconvolgimento del 1848.

Già il dalmata Niccolò Tommaseo si era spinto avanti su questa linea negli anni Trenta, puntando a saldare l’idea nazionale e la tradizione religiosa cattolica, fino a proporre una versione radicale, unitaria e repubblicana della rinascita nazionale italiana. Fu però il neoguelfismo (v.) nella versione datagli dall’opera Del primato morale e civile degli italiani (1843) di Gioberti, a saldare molte di queste riflessioni con un progetto politico originale quanto abile, quello di collegare tra loro gli Stati italiani – riformati, ma senza scosse rivoluzionarie – in una confederazione sotto l’autorità morale del papa. Del resto, nella visione forte della nazione italiana proposta dall’abate piemontese, l’identità stessa dell’Italia andava fatta risalire al suo stretto legame con la sede di Pietro.

Contro questi sviluppi politici dell’idea di nazione altre voci resistevano. Ne Le speranze d’Italia di Cesare Balbo (che apparve nel 1844), l’idea di nazione rimaneva nettamente al di qua del problema statuale: la visione cattolica e moderata dell’aristocratico piemontese lo conduceva a ritenere l’indipendenza dall’Austria il primo problema per le genti della penisola, ma ciò non comportava necessariamente perseguire la loro unificazione politica. Nella stessa linea, con maggior vigore teorico, si mosse un autorevole intellettuale gesuita, come Luigi Taparelli d’Azeglio. La sua riflessione sulla nazionalità si collegava a una visione del rapporto organico tra i popoli nell’orizzonte della civiltà cristiana, esposta nel Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto (1840-43). Taparelli riprendeva su questi argomenti le suggestioni scolastiche disseminate nella cultura giuridica europea, ma impostava la sua concezione organica dell’ordine internazionale sulla critica alla funzione disgregatrice della modernità. Nello spirito moderno – secondo Taparelli – si era decisamente dimenticato l’equilibrio cristiano, facendo divenire la patria un «centro fazioso e settario», oggetto addirittura di «idolatria». Tornare a una visione cooperativa sarebbe stato possibile solo con un ruolo guida del papato, almeno come “arbitro” ultimo delle controversie. La nazionalità in questa logica era un elemento accettabile ma in fondo secondario, come spiegava analiticamente in una Nota apparsa nel 1847 e poi ripubblicata come appendice al Saggio nella seconda edizione. Egli la riteneva un carattere collettivo delle civiltà, tipico del piano della società, che non doveva necessariamente coinvolgere la politica e le istituzioni. La nazione poteva sentirsi unita, anche se politicamente divisa sotto diversi sovrani. Soprattutto, non si poteva perseguire lo sviluppo dell’idea nazionale contro il sistema dei diritti universali e naturali: ciò negava ogni via rivoluzionaria e ogni ricerca dell’indipendenza italiana contro l’assetto internazionale legittimato dai trattati e dal diritto.

Gioberti criticò invece decisamente Taparelli su questo punto: la nazione per lui aveva un principio unitario sostanziale (un’anima) e anche una base naturale, costituita dal territorio e dal popolo unificati da una storia comune. Proprio affermandosi politicamente, la nazione avrebbe contribuito al dispiegamento del cosmopolitismo cristiano, realizzando un gradino necessario dell’ampliamento della società, dagli individui singoli fino al genere umano. Taparelli replicava a questo proposito che, al contrario, era solo la Chiesa cattolica a poter tutelare le nazioni, inserendole in un ordine universale immutabile, a carattere giuridico e religioso. Erano le radici di approcci sensibilmente diversi al problema.

Non dimentichiamo comunque che non esisteva propriamente niente di nazionale in una struttura ecclesiastica italiana singolarmente frammentata. L’episcopato era caratterizzato da un orizzonte regionale ristretto (parliamo di regioni in senso storico, anche se in quell’epoca erano cadute in desuetudine le antiche forme di coordinamento locale), più angusto anche rispetto ai diversi Stati del pluralismo italico. Parecchi vescovi erano eletti con l’appoggio o l’indicazione dei governi, nell’ambito degli accordi concordatari e quindi è naturale che tenessero posizioni piuttosto lealiste, in tutti i sommovimenti rivoluzionari successivi. Come è anche naturale che i vescovi piemontesi e liguri criticassero magari il governo sabaudo ma sempre con abbondanti profferte di fedeltà dinastica.

Le vicende del 1846-1848 furono senz’altro uno spartiacque decisivo. Lo sviluppo della stagione riformatrice e costituzionale in quasi tutti gli Stati, le vociferazioni su una Lega italiana, la precipitazione delle rivoluzioni nel Lombardo-Veneto, con l’invocazione conseguente di una guerra “nazionale” all’Austria, coinvolsero profondamente il mondo cattolico e la chiesa italiana, lacerandola in svariate posizioni e scelte diverse. Ci furono parecchi preti patrioti, che si confrontarono con resistenze durissime alle novità nazionali. Il neoguelfismo sembrò improvvisamente trovare la sua possibile realizzazione, ma cadde presto nel fallimento, con la dissoluzione dell’equivoco nato attorno a Pio IX “papa liberale” e la crisi del suo oggettivo sentimento nazionale italiano, di fronte alle prospettive di far partecipare lo Stato pontificio alla guerra contro l’Austria. La radicalizzazione delle rivoluzioni in senso repubblicano e anticlericale scavò un solco rispetto ad ogni ipotesi riformista nella visione del papa, e chiuse per molte coscienze la finestra della cooperazione tra religione e nazionalità.

La stagione del neoguelfismo e del cattolicesimo risorgimentale si chiuse con una sconfitta, se considerata come esperienza politica, ma per molti protagonisti maturava anche uno scacco sotto il profilo spirituale. Il movimento nazionale italiano nel suo complesso approfondiva il suo distacco dal problema religioso, addensandosi attorno alla guida sabauda e ritenendo sempre più impossibile compiere l’Unità in accordo con la Chiesa. Non a caso dopo il 1848 in Piemonte prese ampiamente piede una legislazione laicizzatrice (dapprima moderata, poi piuttosto radicale), che rese ostile il cattolicesimo ultramontano. Parallelamente la stessa Chiesa che viveva in Italia perdeva uno stimolo importante al confronto con la modernità, rinchiudendosi in un ostile arroccamento. Papa Pio IX si concentrò nella difesa del potere temporale, che non rappresentava solo un problema diplomatico attorno ai destini di Roma (e alle sorti della libertà del pontefice), ma simboleggiava l’ancoraggio a una visione di dipendenza strutturale delle istituzioni civili dal potere religioso, incompatibile con la saldatura tra nazione e liberalismo.

La stagione cattolico-risorgimentale, nonostante questi problemi, lasciò un’eredità culturale profonda e largamente irraggiata. Un’eredità capace di diffondersi fuori dei confini della Chiesa e dell’organizzazione cattolica più o meno ufficiale. Si inaugurò ad esempio una versione laicizzata di tali istanze, che seguiva una logica separatista, ma ispirata a logiche di positiva convivenza tra Stato e Chiesa. Non senza significato, quindi, tracce di questa impostazione furono sviluppate nel decennio dell’unificazione, nella stessa complessa crisi del 1859-’61, e poi nello sviluppo politico dell’Italia unita, da figure come Bettino Ricasoli, Marco Minghetti o Stefano Jacini. Un ampio spezzone della classe dirigente liberale, soprattutto moderata, si era abbeverato alle pagine rosminiane o manzoniane e ora esprimeva una convinta partecipazione al moto unitario.

Anche i cattolici che si schierarono in modo critico rispetto al nuovo percorso risorgimentale, avevano peraltro ormai interiorizzato un’idea di nazione italiana. Il mito nazionale individuava un terreno nuovo a cui collegare il loro attaccamento alla tradizione. Lo stesso Taparelli, apocalitticamente negativo rispetto al futuro dell’Italia politica, contribuì con altri scrittori gesuiti alla nascita della «Civiltà cattolica», che in apertura dichiarò significativamente di voler scrivere «non per questa o quella parte della penisola, ma per tutte», e di voler quindi «rendere un grande, forse il più necessario servigio, alla patria comune», con le «idee di una stampa periodica temperata e cristiana» (Il giornalismo moderno e il nostro programma, CC, 1 (1850), I, p. 16). Il magistero papale, nel frattempo, insisteva in modo crescente a mettere in guardia dall’assolutizzazione dell’idea di nazione, come nell’allocuzione Quibus quantisque, del 1849, senza però negarne gli originali significati.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Pellegrinaggio - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo1

Storia e definizione. Il pellegrinaggio costituisce un momento rilevante nell’esperienza religiosa collettiva e individuale dell’uomo; quello cristiano ha origini ebraiche e greco-romane (con templi o monti o fiumi sacri a determinate divinità taumaturgiche presso i quali i fedeli si recavano in pellegrinaggio per ottenere favori e risoluzioni ai loro problemi). Solitamente si differenziano due tipi di pellegrinaggio: quello devozionale e quello penitenziale. Il primo, più antico, ha come mete la Palestina, ossia i luoghi in cui Cristo visse e operò con i suoi discepoli; tuttavia, la novità del culto cristiano ne trasformò presto il fine rispetto a quello veterotestamentario. Se, infatti, nell’AT si trattava di raggiungere il luogo della presenza di Dio, nel NT – che ha spostato il centro del culto nell’eucaristia, celebrata in ogni momento e in ogni punto della terra, e ha proclamato tempio di Dio il corpo di ogni battezzato – aspirazione di ogni pellegrino era di mettere realmente i propri passi sulle orme di Gesù nei luoghi della vita nascosta e pubblica e in particolare della Passione. Per tale ragione, le prime e naturali destinazioni del pellegrino sono state, in particolare, le due “pietre sacre”: quella del Calvario, su cui fu innalzata la croce, e quella del Sepolcro, rimasto vuoto dopo la risurrezione.

I palmieri, come erano chiamati i pellegrini che si recavano a Gerusalemme e il cui nome deriva dalla pratica di raccogliere e riportare in patria le palme di Gerico, si trovarono in difficoltà nell’adempiere il proprio pellegrinaggio con la conquista islamica di Gerusalemme del 637; nondimeno, dal IV secolo si erano già andate precisando altre mete, per l’Italia Roma principalmente, con le sue memoriae apostolorum e dei martiri, e il santuario rupestre di San Michele al Monte Gargano, dove si ricordava la manifestazione dell’arcangelo. Per altre destinazioni i presupposti del pellegrinaggio erano il culto delle reliquie di santi e martiri, che per tutto il medioevo ebbe dimensioni significative: è raro che una città non abbia i resti di un santo, di un confessore o della Vergine che venera e rivendica come propri.

Invece, il pellegrinaggio penitenziale, o espiatorio, ha origini più tarde legate a consuetudini anglosassoni e soprattutto irlandesi, poi estese nel resto dell’Europa a partire dal VI secolo. All’inizio fu una forma di riprovazione verso una colpa grave (dall’omicidio all’incesto), nella quale incorrevano particolarmente gli ecclesiastici; il colpevole era condannato a peregrinare senza interruzione vivendo di elemosine e portando ben visibili i segni del suo peccato.2

I pellegrinaggi si sono intensificati specie negli anni prossimi al Mille, quando la leggendaria opinione di una vicina fine del mondo trasformò la salvezza della pro­pria anima in un problema assai sentito; paura e angoscia atta­nagliarono allora la cristianità occidentale e si mol­tiplicarono le manife­stazioni di fede. Ma ancor di più nei secoli successivi, quando l’intera cristianità visse un indubbio fervore devozionale e si palesò una certa ripresa economica, si risvegliarono la religiosità e il desiderio di peregrinare. Figure quali Pietro l’Eremita, l’abate di Cluny Pietro il Venerabile e Bernardo di Clairvaux rappresentano il rinnovamento spirituale e la rinascita religiosa ed ecclesiastica dell’XI secolo, con un rilevante aumento dei voti di pellegrinaggio. Anche il XII secolo fu teatro di un forte dinamismo spirituale, però a seguito della distinzione tra voto di crociata (che prevede l’indulgenza, solo successivamente plenaria) e voto di pellegrinaggio, la prima diviene una vera e propria istituzione all’interno della Chiesa cattolica: la crociata è un pellegrinaggio armato con lo scopo di liberare Gerusalemme e può essere indetta solo ed esclusivamente dal pontefice. A piedi o a cavallo si raggiungevano per fare peni­tenza, oltre a Roma naturalmente, soprattutto Assisi, che aveva conosciuto le gesta di San Francesco, e Loreto, dove era stata ritrovata nei boschi di lauro (lauretum) la Santa Casa di Nazareth.

Alle soglie del 1300 ai romei, come erano denominati coloro che andavano a Roma, verrà offerta un’altra fondamentale motivazione al loro peregrinare: il Giubileo. Come «anno di remissione», antecedente all’indulgenza plenaria e differente, era prassi in qualche modo già diffusa nel cristianesimo altomedievale (ad esempio, l’indulgenza concessa ai visitatori della Porziuncola da Onorio III nel 1216). Tuttavia, il cardinale Stefaneschi, autore del De centesimo seu iubileo anno, fonte primaria per lo studio del giubileo romano, scrivendo di una folla smisurata di pellegrini venuti a Roma tra la fine del 1299 e l’inizio del 1300, spingerà papa Bonifacio VIII il 22 febbraio dell’anno 1300 a pubblicare la bolla con la quale venne indetto il primo Giubileo della storia, che avrebbe dovuto concludersi nel Natale dello stesso anno; ai romei era concessa l’indulgenza plenaria con l’obbligo di visitare in pellegrinaggio le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo fuori le mura.3

Nel corso del Cinquecento le critiche luterane al pellegrinaggio ne ridimensionarono l’importanza e il flusso; molti pellegrini cominciarono a dimostrare interessi nuovi oltre a quelli religiosi, prestando attenzione a quello che la strada gli offriva. Alcuni diari di viaggio mostrano una nuova attrazione verso le città, monumenti, i costumi e gli usi delle popolazioni incontrate. Il cammino si trasformò da “travaglio” a piacere per la conoscenza e amore per la cultura e cominciarono i viaggi oltreoceano. Nel 1670 Richard Lassels nel suo The Voyage of Italy usa per primo l’espressione Grand Tour per descrivere la moda che si era diffusa tra i giovani aristocratici del nord Europa; si trattava di viaggi molto lunghi, grazie ai quali intellettuali e rampolli delle ricche famiglie entravano in contatto con il vasto patrimonio storico-artistico della classicità. Questa tipologia di viaggio aristocratico e romantico si conclude alle soglie del Novecento, quando nuovi strati sociali iniziano ad accedere a quella particolare forma di impiego del tempo libero che è il turismo.

L’esperienza del pellegrinaggio è un fenomeno di rilievo anche del nostro tempo, basti pensare alle migliaia di presenze annuali negli albergues lungo il cammino di Santiago de Compostela, ai pellegrini che a piedi raggiungono santuari tradizionali, ai giovani della Gmg, ai giovani dell’annuale pellegrinaggio promosso dalla comunità di Taizé, ecc. E il Grande Giubileo del Duemila non è stato un punto di arrivo, ma di partenza per i fedeli che annualmente raggiungono Roma, trovando accoglienza soprattutto in parrocchie e comunità religiose.

Strade, guide e arte del pellegrinaggio. Quantunque non sia mai esistito un cammino stereotipato, dalla tarda antichità si sono definite vere e proprie vie di pellegrinaggio. I viaggi si svolgevano lungo la rete delle antiche strade romane, che ci si sforzava di preservare curandone come si poteva la manutenzione. E non erano certo viaggi agevoli; le strade erano per lo più semplici piste ricoperte di fango o di ghiaccio ed era necessario fare i conti, specie d’inverno, con gli ostacoli naturali quasi insormontabili, come le Alpi. Di solito, i viaggi comportavano percorsi compositi: un tratto di strada, il traghettamento di un corso d’acqua, un sentiero attraverso una foresta, un tratto di navigazione fluviale. In ogni caso, la coscienza dei rischi da affrontare era tale che chi doveva partire per un lungo viaggio vi si preparava (per esempio facendo testamento) sapendo che sarebbe potuto non tornare. Prima di partire erano necessarie la confessione e la benedizione da parte del prete o del vescovo. La benedizione era impartita anche agli oggetti essenziali del buon pellegrino con una preghiera apposita che però poteva variare a seconda della meta scelta: il bordone; la bisaccia contenente cibo e denaro; il mantello; il petaso (il cappello a larghe falde per proteggersi dal sole e dalla pioggia). Il pellegrino, solo con la sua fede e le sue preghiere mentre cammina, non segue però solo le antiche e solitarie strade romane, ma anche le vie parallele lungo le quali sorgono villaggi, xenodochia (strutture di assistenza e sosta poi chiamate hospitium), locande, chiese e abbazie. E ancora oggi, l’Ufficio Nazionale per la pastorale del turismo, sport e tempo libero della Conferenza episcopale italiana, non manca di sottolineare l’obbligo dei vescovi di accogliere i pellegrini nelle chiese locali ed assicurare loro l’ospitalità.

Ma i movimenti dei pellegrini non aprirono strade nuove, fruirono di quelle convergenti su Roma da gran parte della penisola. Ne è un esempio quella con il nome di “Francigena”; il suo percorso varcava le Alpi in valle d’Aosta (passo del Gran S. Bernardo) scendeva dal Piemonte e dalla Lombardia nella pianura Padana, attraversava l’Appennino verso Berceto, scorreva lungo la Toscana e il Lazio per raggiungere Roma. Un tragitto alternativo che in passato si collegava al cammino di Santiago arrivava in Italia al Monginevro e le due strade si congiungevano a Vercelli. Altra via di grande importanza è la via Postumia, la strada che metteva in comunicazione Aquileia con Genova passando per Verona, Cremona, Piacenza, Tortona. La diffusione, dalla fine del V secolo, del culto dell’arcangelo Michele, venerato nei santuari del monte Gargano, del Mons Aureus presso Olevano sul Tusciano, presso Larino e a Potenza, e l’assestamento politico del Mezzogiorno, tra VI e VII secolo, sotto i bizantini e i longobardi di Benevento, resero più sicuro il transito e favorirono varie forme di pellegrinaggio, di laici e religiosi, per le strade più importanti del meridione d’Italia: la vita di Santa Artellaide consente di cogliere l’importanza dell’itinerario “Benevento-Siponto” nei collegamenti tra il settentrione d’Italia e le sponde adriatiche nella dinamica dei pellegrinaggi verso la Terrasanta, che, da Roma sino a Benevento, scendevano lungo la via Latina e la via Appia. La rilevanza raggiunta dai porti pugliesi oltre che dalle testimonianze itinerarie è attestata anche dalle mansioni fondate dai Templari a Bari, Barletta, Trani, Brindisi e lungo il percorso dell’Appia antica e dell’Appia Traiana.4

Lungo queste vie vennero costruite grandi chiese strettamente apparentate fra loro per pianta, alzato, caratteri costruttivi e decorazione; pure temi iconografici specifici, dal luogo in cui erano sorti, si ripetevano a distanza di migliaia di chilometri, a testimonianza della volontà dei pellegrini di conservare e diffondere il ricordo della loro santa impresa. È il caso del Volto Santo, che si credeva scolpito da Nicodemo, venerato a Lucca, città crocevia dei pellegrinaggi, la cui riproduzione e devozione è attestata dall’XI secolo in Francia, Germania, fino all’Inghilterra e a Perelló, in Catalogna, dove l’ordine cavalleresco toscano di San Giacomo di Altopascio possedeva un ospedale per pellegrini. Elementi distintivi comuni si codificarono anche nelle sculture, come dimostrano specialmente le chiese lungo i cammini nella parte iberica (Jaca, Loarre, Frómista, San Isidro di León, Santiago de Compostela) e in quella francese (Sainte-Foy, Saint-Sernin, Saint-Gaudens, Saint-Sever).

L’importanza culturale del pellegrinaggio si riscontra con chiarezza anche nella letteratura cosiddetta di pellegrinaggio. Dagli storici gli itinerari, i diari e altri resoconti di pellegrini più o meno illustri sono considerati un vero e proprio genere letterario, distinto dalla grande letteratura che pure tratta e mostra il ruolo significativo di questo inesauribile fenomeno sociale (I racconti di Canterbury di Chaucer o le descrizioni dei diversi pellegrini nella Vita nuova di Dante). In ogni caso tra gli itinerari e le guide specifiche occorre distinguere le descrizioni puramente geografiche (come la Tavola di Peutinger o il Cronografo di Ravenna), e le composizioni il cui carattere è piuttosto agiografico (come sono certe opere di Prudenzio, Paolino di Nola e Venanzio Fortunato), in cui le informazioni a carattere topografico sono secondarie rispetto ad altri scopi. I diari di viaggio a Roma apparvero verso il VI secolo, tra i più importanti sono l’Itinerario del prete Giovanni alla ricerca dell’olio santo dei martiri, su incarico della regina Teodolinda, durante il pontificato di Gregorio Magno (590-604, il papiro è conservato nella cattedrale di Monza); la Notitia ecclesiarium urbis Romae, composta tra il 625 e il 629, che riporta informazioni sulle chiese suburbane dei martiri classificate secondo le vie sulle quali si affacciavano; l’Itinerario di Malmesbury, scritto nel periodo compreso tra il 648 e il 682 (inserito da Guglielmo di Malmesbury, da cui deriva il nome, nelle sue Gesta dei re d’Inghilterra); l’Itinerario di Einsiedeln, dal monastero svizzero dove venne trovato, il cui autore dimostra di aver personalmente visitato Roma al tempo di Carlo Magno, di avere studiato i monumenti e di aver partecipato anche a cerimonie pagane, che sollecitamente ricorda.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Brezzi, Storia degli anni santi, Mursia, Milano 1975; R. Brooke – C. Brooke, La religione popolare nell’Europa me­dievale, Il Mulino, Bologna 1988; J. Chélini – H. Branthomme, Le vie di Dio. Storia dei pellegrinaggi cristiani dalle origini al Medioevo, Jaca Book, Milano 2004; Il Giubileo. Storia e pratiche dell’anno santo, prefa­zione di S. Quinzio, Vallecchi, Firenze 1995; Il mondo dei pellegrinaggi. Roma, Santiago, Gerusalemme, a cura di P. Caucci von Saucken, Jaca Book, Milano 1999; E.R. Labande, Pauper et peregrinus. Problèmes, comportements et mentalités du pèlerin chrétien, Turnhout, Brepols 2004; M. Marrocchi, I Giubilei. Origini e prospettive, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997; M. G. Muzzarelli, Penitenze nel Medioevo. Uomini e modelli a confronto, Pàtron, Bologna 1994; T. Natalizi, Il pellegrinaggio. Cammino spirituale. Gerusalemme Roma Santiago de Compostela, San Paolo, Casale Monferrato 1999; R. Oursel, Pellegrini del Medioevo. Gli uomini, le strade, i santuari, Jaca Book, Milano 20012a; J. Richard, Il santo viaggio. Pellegrini e viaggiatori nel Medioevo, Jouvence, Roma 2003; D. Scotto (a cura di), Del visibile credere. Pellegrinaggi, santuari, miracoli, reliquie, Olschki, Firenze 2011; F. Sisini, In viaggio. Pellegrinaggi e giubilei del popolo di Dio, Città Nuova, Roma 1998; R. Stopani, Le vie di pellegrinaggio del Medioevo, gli itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostela, Le Lettere, Firenze 1995; A. Vauchez, La spiritualità dell’Occidente medioevale, Jaca Book, Milano 2006.

Immagini:

1) Pellegrini del Giubileo del 1300, da una Miniatura della “Cronica” di G. Sercambi. Archivio di Stato di Lucca, Biblioteca; 2) Fidenza (Pr), Duomo, sculture sulla torre destra, scene di pellegrinaggio (XII-XIII secolo); 3) Pellegrini che arrivano a Roma in una medaglia del papa Clemente X, 1675; 4) Melfi, Chiesa rupestre di Santa Margherita (XI secolo).

Sitografia:

http://www.centrostudiromei.eu/ (sito per lo studio del pellegrinaggio medioevale); http://www.viestoriche.net/ (sito dedicato alle vie e ai luoghi di pellegrinaggio antichi e moderni); http://www.luoghi-sacri.it/ (sito dedicato alla scoperta di chiese, basiliche e monumenti mete di pellegrinaggi antichi e medioevali); http://www.rm.unina.it/ (sito dedicato alla pubblicazione in internet, ad accesso aperto, di studi scientifici medioevali); http://www.santuariosanmichele.it/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=15&Itemid=102&lang=it (sito del santuario di San Michele con notizie storiche e liturgiche generali).


LEMMARIO