Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Persecuzioni - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

In senso lato con il termine ‘persecuzione’ si intende ogni attività vessatoria, violenta, repressiva esercitata da chi detiene il potere per stroncare un movimento politico, religioso etnico, di opinione contraria a quello dominante. Essa assume varie modalità: dalla condanna a morte, alla pena detentiva alla condanna dell’esilio fino alle molestie o alle minacce continuate. In questa sede la parola richiama le traversie subite dai cristiani nei primi tre secoli della nostra per opera del potere romano e da quelle subite da ebrei, pagani ed eretici a cominciare dal IV secolo per opera delle autorità romane ormai divenute cristiane.

La prima persecuzione contro i discepoli di Gesù ha luogo a Gerusalemme. L’episodio è narrato nel cap. 5 (1-22) degli Atti degli apostoli. Il discorso compiuto di Pietro nel Tempio che insegna al popolo e annuncia in Gesù la resurrezione dei morti irrita i sacerdoti, il prefetto e i sadducei, i quali gli mettono le mani addosso e lo pongono in prigione, intimando a lui e a Giovanni di non più insegnare nel nome di Gesù. Successivamente (cf. Atti 5, 17-41), sorte analoga è riservata agli Apostoli condotti dinanzi al Sinedrio e al Sommo Sacerdote dove si proibisce loro di nuovo di parlare nel nome di Gesù e dove sono percossi e infine lasciati liberi. Un terzo racconto di persecuzione riguarda Stefano, uno dei Sette diaconi, che accusato di parlare contro il Tempio e contro la Legge e non più solamente minacciato, ma messo a morte mediante la lapidazione (cf. Atti 6,8-8,1).

Un quarto episodio, che ha ancora per cornice la comunità di Gerusalemme, riguarda Giacomo, fratello di Giovanni che è giustiziato nel 42 d.C. per ordine di Erode Agrippa (cf. Atti 12, 1-23). Due decenni dopo, nel 62, anche Giacomo il Minore, responsabile della comunità di Gerusalemme, è ucciso (cf. Eusebio di Cesarea, Hist.eccles. II, 23, 1-25). Sono queste le prime persecuzioni che subiscono i discepoli di Cristo per la testimonianza che recano alla messianicità di Gesù. Ma ben presto lo scenario muta. Già prima della presa di Gerusalemme da parte dei romani e della dispersione di molti dei suoi abitanti (i quali vi erano certamente dei giudei-cristiani), si sa che luglio del 64 scoppia a Roma un incendio di ingenti proporzioni che reca alla città grandissimi danni. Un’autorevole fonte di parte pagana, lo storico Tacito, all’inizio della seconda decade del II secolo, in un passo ben noto dei suoi Annali 15, 44, 2-5), ci informa che l’imperatore Nerone, per soffocare le voci che lo accusavano di essere stato l’autore del disastro, colpisce con castighi crudeli i cristiani, che divengono un capro espiatorio in grado di dirottare l’ira e lo sconcerto dei cittadini. L’imperatore lo può fare perché i fedeli di colui che sotto Tiberio era stato messo a morte per ordine del procuratore Ponzio Pilato erano comunemente ritenuti odiosi per le nefandezze che erano loro attribuite. A loro carico dovevano infatti circolare accuse di incesto, omicidio e di cene tiestee, che gli scrittori cristiani del II secolo si adoperano a smentire decisamente. Il quadro tacitiano suggerisce che si trattò di una repressione occasionale, non provocata in primo luogo da motivi religiosi. Sta di fatto che in quegli anni la comunità cristiana di Roma veniva messa a dura prova: tra le vittime si annoverarono due “colonne” della Chiesa, quali Pietro e Paolo.

Non deve sorprendere che le persecuzioni abbiano luogo nei grandi centri ove di concentrano i poteri politici, civili e religiosi che, più che altrove, esigono siano rispettate le regole dettate dalla res publica e dunque anche l’osservanza del culto della dea Roma e dell’imperatore. In tal senso la capitale dell’Impero è il punto di massima importanza, si intende, non il solo, data l’estensione dell’immenso organismo romano disseminato di grandi città. Anche i riti celebrati in occasione di anniversari imperiali o di altre feste analoghe sono occasioni che favoriscono le repressioni.

Alla fine del I secolo sotto Domiziano (81-96) ha luogo, a quanto sembra, una nuova persecuzione (anche se taluni storici discutono circa la sua stessa esistenza). Tuttavia alcuni indizi sembrano confermarla: nella lettera di Clemente di Roma (cf. 1, 1) della fine del I secolo, si parla di improvvise calamità e avversità sopravvenute una dopo l’altra: i personaggi perseguitati dovevano fare parte della opposizione politica senatoria, e in pari tempo essere simpatizzanti, se non adepti della comunità cristiana. È certo che Domiziano in contrasto con il tradizionalismo senatorio di marca stoica d’improvviso, in base a tenui sospetti, mette a morte Flavio Clemente, suo cugino, avente allora la funzione di console, e ordina che sua nipote, Flavia Domitilla – il cui nome è legato alle catacombe della Via Ardeatina – sia deportata nell’isola di Ponza, per il fatto di essersi dichiarata cristiana (cf. Girolamo, Chron., ad Olymp. 218).

Nei primi anni del II secolo Ignazio, vescovo di Antiochia, era condotto a Roma per essere gettato in pasto alle fiere. Poco più tardi è l’imperatore Adriano (117-138) a interessarsi dei cristiani in seguito a denunce anonime avanzate contro di loro. Intorno al 165, a Roma, è condannato a morte Giustino, filosofo e apologeta, nato Nablus in Palestina e venuto nella capitale per insegnare. Negli stessi anni muore martire il vescovo di Smirne, Policarpo. Poco dopo, nel 177, avviene un grave episodio persecutorio a Lione e a Vienne, nella Gallia: nei giorni delle grandi feste in onore di Roma e dell’imperatore, un folto gruppo di cristiani è denunciato al governatore e fatto morire dinanzi alla folla nell’anfiteatro lionese. E si potrebbero menzionare altri episodi analoghi, testimoniati dagli Atti dei martiri, molti di quali hanno un serio fondamento storico.

Una fonte antica, precisamente un passo della Historia Augusta (Spaziano, Septimius Severus (17,1) dà notizia di un provvedimento legislativo che avrebbe preso l’imperatore Settimio Severo (193-211) contro i cristiani proibendo, loro ogni proselitismo. Anche Eusebio di Cesarea nella Historia ecclesiastica (VI, 1) sostiene l’intento anticristiano dell’imperatore. Occorre tuttavia osservare che intorno a queste notizie si è aperto una discussione serrata, per cui appare sempre più problematica accettare la storicità dell’editto Severiano. Senza potere entrare in questa sede nel merito della questione, non è possibile negare che episodi persecutori si siano verificati in vari centri dell’impero durante il suo regno, in particolare in coincidenza i decennalia e i vota et gaudia Caesarum celebrati nel 202: fonti attendibili lo attestano con sicurezza.

Con la metà del III secolo la situazione si aggrava. L’imperatore Decio (249-251) promulga un edito generale – il primo di cui si abbia notizia certa – di persecuzione da applicare in tutto l’Impero. Esso obbliga tutti cristiani a prestare il culto tradizionale e detta norme severe per coloro che non lo vogliano praticare e aggiunge che, in questo ultimo caso, i vescovi, i presbiteri, i diaconi siano giustiziati sul posto e i senatori e i cavalieri romani privati della loro dignità, dei loro beni e mandati in esilio (Cipriano, vescovo ci ragguaglia (cf.Epist. 80, 2 e passim) sulla situazione di Cartagine. Di fronte all’imposizione di sacrificare e quindi di ottenere il certificato che li avrebbe liberati i cittadini da ogni obbligo religioso, alcuni cristiani si presentano spontaneamente al magistrato; altri ottengono il certificato, pagando un compenso, altri ancora, pur non abiurando, si comportano con tracotanza, suscitando liti o gesti di insubordinazione verso il clero. Non pochi invece sono i “confessori” che non rinnegano la propria fede. Il vescovo stesso, dopo essersi allontanato volontariamente dalla propria sede, vi fa ritorno per essere martirizzato. Qui importa, in particolare porre in luce quanto le persecuzioni avvenute intorno alla metà del III secolo colpiscano anche la Chiesa di Roma nelle sua massime autorità.

Papa Fabiano (236-250) è una delle prime vittime dell’Editto deciano (cf. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica VI, 39,1). Anche Valeriano (253-260) nell’ultimo periodo del suo regno, si accanisce contro i cristiani. Con il secondo editto che ordina la esecuzione immediata di vescovi, presbiteri e diaconi e prescrive gravi provvedimenti per senatori, cavalieri, ufficiali e matrone, Sisto II, vescovo (257-258) di Roma, è messo a morte (257-258), insieme a 4 diaconi (cf. Cipriano, Epist. 80, 1, 4). Ma successivamente sotto Gallieno (260-268), la Chiesa gode di anni di pace. Un editto di tolleranza restituisce alle comunità i luoghi di culto e ordina di fare cessare ogni azione penale a carico dei suoi fedeli. Anni di pace che durano per circa 40 anni, fino all’inizio della grande persecuzione di Diocleziano (284-305). Di fronte alla grave crisi dell’Impero che si fa più forte nelle ultime decadi del III secolo, l’imperatore propone e in parte attua una serie di riforme nel campo istituzionale (ne è un esempio l’ordinamento tetrarchico), monetario, religioso. In questo ultimo campo egli irrigidisce la politica contro i culti stranieri con l’intento di promuovere i culti pagani tradizionali e quindi di dare rafforzare i vincoli dei cittadini verso l’Impero. Nel 297 rende pubblico un editto contro i manichei. Nel febbraio del 303 emana un altro editto in cui si ordina di radere al suolo le chiese e di bruciare le Scritture cristiane; ad esso seguono altri provvedimenti che impongono di imprigionare i capi delle chiese, di costringerli a sacrificare con ogni mezzo, promettendo la libertà a quanti avessero abiurato e il supplizio a quanti non lo avessero fatto. Nel 304, stando a ciò che scrive Eusebio di Cesarea (cf. Mart.Pales. 3,1), sono date disposizioni perché tutti sacrifichino e di facciano libagioni agli idoli. Queste misure provocano episodi sanguinari, morti violente, specialmente nella parte orientale dell’Impero. Ma anche l’Occidente (che pure trova in Costanzo Cloro e, a Roma, in Massenzio, maggiore tolleranza) ha le sue vittime. E, ancora una volta il cuore della Chiesa di Roma, nella figura del suo vescovo, ne soffre. Sempre Eusebio (cf. Historia ecclesiastica 7, 32, 1) scrive che Marcellino (296-304) è una delle vittime della persecuzione. Ma proprio Galerio, che era stato tra i più decisi persecutori dei cristiani, il 30 aprile del 311 rende pubblico a Serdica, l’attuale Sofia, un editto di tolleranza secondo il quale i cristiani erano autorizzati a celebrare pubblicamente il culto e a ricostruire i luoghi di riunione, a condizione che non turbassero l’ordine stabilito. Si sa che Galerio emise quel provvedimento mentre soffriva di una grave malattia che lo avrebbe condotto ben presto alla morte Difficile dire che cosa abbia provocato un mutamento tanto deciso della sua politica religiosa. Non di meno appare chiaro il fallimento dell’opposizione fatta dalle massime autorità romane al cristianesimo. Ma un elemento va sottolineato: l’editto l’imperatore riconosce come ciascun cittadino abbia il diritto di render culto al proprio Dio e quindi anche i cristiani al loro. Un’affermazione fondamentale: ma non è questo il luogo per darne conto. Due anni dopo, nel 313, le decisioni prese nel loro incontro di Milano da Costantino e Licinio e le lettere che nel medesimo anno sono diramate da Licinio, accordano piena libertà ai cristiani, come a tutti, di seguire la religione e praticare il culto da ciascuno scelto. Comincia una nuova era in cui gli imperatori romani favoriscono con diversi atteggiamenti e a prescindere dal breve regno di Giuliano (361-363). il movimento iniziato in Palestina dalla parola e dagli atti di Gesù Cristo.

Fin qui qualche cenno ai fatti. Ma l’argomento induce a fare due riflessioni: una prima relativa all’Impero romano e al motivo per cui ha perseguitato i cristiani e una seconda relativa alla Chiesa e all’esperienza che ha vissuto, subendo le persecuzioni. Inizialmente, al livello del popolino, i cristiani erano accusati di compiere delitti nefandi, lo si è visto, e degni quindi di essere puniti. A livello dei responsabili della res publica il cristianesimo non era religio licita (a differenza dell’ebraismo) e bastava la confessio nominis, vale a dire la professione del nomen christianum, per essere processati e condannati. Essa non poteva rivendicare alcuna ascendenza, alcuna tradizione nazionale. Anzi l’ecumenicità in cui credeva era considerata un elemento minaccioso per l’universalismo romano; di qui l’accusa di ‘ateismo’. I comportamenti dei cristiani non avevano nulla di disonesto o di empio, per chi li avesse conosciuti. Ma il fatto di rifiutare tradizioni venerande, garanti del patto sociale, era un comportamento incomprensibile per i pagani della Roma imperiale dei primi te secoli. Espressione pubblica di tale patto era rappresentato dal culto della dea Roma e dei divi imperatores. Il rifiutare tale culto costituiva un gesto gravissimo, giacché quell’atto di devozione aveva il valore di una dichiarazione di lealismo verso la comunità, anche se non supponeva esplicita proclamazione di una qualsiasi fede religiosa. Perciò lo scopo più vero dei responsabili della cosa pubblica che vessavano i cristiani sembra essere stato in primo luogo quello non di eliminarli, ma piuttosto di fare loro mutare opinione perché rientrassero nell’alveo della grande tradizione romana costituita dal mos maiorum e dai veterum instituta. Come ha osservato Theodor Mommsen per il cittadino romano la religiosità era una forma di patriottismo che si manifestava sacralmente, perché l’ordine della romanità esigeva la piena adesione al nomos e richiedeva un comportamento corrispondente. Si comprende allora, al di là delle accuse mosse in special modo dal popolino ai discepoli del Signore, l’irritazione e, in certo modo, l‘incomprensione del comportamento che essi tenevano. Il non giurare per il genius dell’imperatore, il non bruciare qualche granello di incenso ai piedi della statua della Vittoria era ritenuto segno di pura e gratuita ostinazione, segno di pazzia (dementia) tanto più che, compiendo quel gesto, essi avrebbero potuto tornare liberi e rispettati (→ Paganesimo). Occorrerà la lenta disgregazione del mondo istituzionale, politico e religioso a cui concorse, oltre al cristianesimo la pressione sempre più minacciosa dei popoli dell’Est e del Nord europeo, perché i cristiani fossero riconosciuti quale a forza positiva e viva da cui non si poteva più prescindere per la vita stessa dell’Impero. Dopo le prime manifestazioni di un tale atteggiamento avvenute nella seconda parte del III secolo – per esempio, con Filippo l’Arabo e con Gallieno – dapprima Galerio e poi compiutamente Costantino, presero decisioni da ritenere rivoluzionarie.

Una seconda riflessione, come si diceva, riguarda la Chiesa e il significato che ha attribuito alla confessione della fede e, non di rado, al martirio (o all’abiura). È interessante innanzitutto notare che il termine ‘testimone’ (martys) fin dal II secolo designi chi muore a causa della sua fede, mentre colui che testimonia la medesima fede è definito ‘confessore‘ (omologos). Non solo, lo ‘spettacolo’ del martirio è considerato una ‘testimonianza, e colui che dona la propria vita è assimilato a Cristo stesso, il ‘testimone fedele’ (ho martys ho pistos), il ‘primogenito dei morti’, come il libro dell’Apocalisse definisce Cristo (cf. 1, 5); il martire è un suo imitatore che, soffrendo, vince la morte. All’opposto per chi abiura, in quanto tradisce con se stesso, anche Cristo. E ancora, con il suo atto il martire non riproduce solamente le vicissitudini del Signore, ma ne attualizza la presenza. È Cristo che soffre con lui, che con lui si misura con la morte. D’altra parte i suoi gesti supremi rappresentano una forma di testimonianza pubblica che riveste un forte impatto comunicativo, provocando una reazione che scuote profondamente i pagani che vi assistono (tanto che si può parlare di un effetto missionario esercitato dal martirio) e che conferma i correligionari nella fede. Di qui derivano i doni di cui godono i martiri e di cui anche la comunità profitta: essi hanno visioni, operano miracoli, respingono le potenze demoniache, intercedono per i vivi. possono riconciliare i penitenti e, soprattutto, richiamano fortemente la dimensione escatologica propria dell’esistenza cristiana. Non stupisce dunque che la comunità accompagni durante il processo e fino all’istante supremo i ‘testimoni’, che stanno per divenire ‘martiri’; e neppure stupisce che, dopo la morte li ricordi, rendendo loro un culto specifico. Quanto detto si desume dalla letteratura agiografica che si compone di lettere, di Acta e di Passiones martyrum (→ Storiografia) e pure di iscrizioni: un insieme ricchissimo di documenti che hanno un differente grado di affidabilità storica, ma che, nell’insieme, delineano un quadro, delle figure dei martiri e delle vicende a cui si sottopongono, assai omogeneo e coerente. Anche questo è un esito di quel fenomeno ben presente nella prima epoca della Chiesa di cui si è fin qui parlato. Dopo Costantino vi saranno martiri di cristiani in paesi esterni al mondo romano, per esempio in Persia in particolare sotto i Sasanidi.

Infine non si può dimenticare un’ulteriore capitolo riguardante le persecuzioni nel Tardo Antico. Da una parte si devono ricordare le persecuzioni condotte dal potere civile contro i donatisti e dall’altra quelle condotte dal medesimo potere, ormai cristianizzato, contro i pagani, gli eretici e i giudei. In proposito si hanno notizie assai abbondanti circa la legislazione antipagana. Essa comincia con Costantino e si fa molto più esplicita e dura con i successivi imperatori. Il codice Teodosiano ha conservato, tra l’altro, 5 costituzioni che proibiscono i sacrifici, il culto degli idoli, condannano ogni superstitio, ordinano di chiudere i templi, ecc., comminando gravissime pene. Momento decisivo è rappresentato dall’editto di Tessalonica (380) con il quale Teodosio dichiara di volere che tutti i popoli da lui governati seguano la religione trasmessa da Pietro ai romani. Si è parlato in questo caso della “religione di stato”, ma l’espressione è fuorviante in quanto si vale di concetti moderni applicandoli al tempo antico. Si può ben dire, tuttavia, che da quel tempo comincia il difficile rapporto tra l’Impero e la Chiesa, in una situazione nuova rispetto alla precedente, in quanto la seconda non si distingue con sufficiente fermezza e chiarezza dal primo. Anzi, non di rado, ne asseconda le decisioni dal secondo. Dal 381 al 435 si moltiplicano le leggi antipagane, mentre successivamente si vanno più rare. Esse intendono abbattere il paganesimo mirando alle pratiche cultuali, al patrimonio e alle persone, prevedono la chiusura dei templi, la confisca dei beni e il loro trasferimento ai cristiani, la soppressione dei privilegi ai sacerdoti pagani. Con i pagani sono presi di mira anche gli eretici, i giudei e gli apostati, in altre forme, soprattutto con la limitazione di diritti. La situazione precedente all’inizio del IV secolo si è capovolta. Lo scopo sembra essere stato quello indurre quanti fossero lontani o si fossero allontanati ad una conversione, o ad un ritorno, al cristianesimo da ottenere con la costrizione e l’intolleranza, in uno spirito ben lontano da quello predicato e vissuto da Gesù Cristo, anzi opposto ad esso. Come nei primi secoli, certamente, sono le autorità pubbliche, ormai cristiane, che dettano le regole, non è la Chiesa, in quanto tale. Pure molti vescovi sono presenti e influenti sulla scena: la politica ecclesiastica, molto spesso si intreccia con la politica imperiale.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Allard, Histoire des persécutions, I-IV, L’Erma di Bretschneider, Roma, 1971 (rist. anastatica); J. Moreau, La persecuzione del cristianesimo nell’Impero romano, Brescia, Paideia, 1977; G. Lanata, Gli Atti dei martiri come documenti processuali, Giuffré, Milano, 1973; J. Gaudemet, “La legislazione antipagana da Costantino a Giustiniano”, in L’intolleranza dei cristiani nei confronti dei pagani, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1993; T. Baumeister, La teologia del martirio nella Chiesa antica, trad. ital., ‘Traditio Christiana’, 7, SEI, Torino 1995, 15-36; G. Rossé, Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, 1998 Roma; C. Lepelley, I cristiani e l’Impero Romano, in Storia del cristianesimo, L. Pietri (ed.), I, Borla-Città Nuova, Roma, 2000, 227 -265; L. Pietri, Le resistenze: dalla polemica antipagana alla persecuzione di Diocleziano, in Storia del cristianesimo, cit., Ch. e L. Pietri (edd.), II, Roma, 2000, 156-183; La comunità di Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origini all’Alto Medio Evo, L. Pani Ermini e P. Siniscalco (edd.), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2000, 17-36; P. Siniscalco, “Gli imperatori romani e il cristianesimo nel IV secolo”, in J. Gaudemet – P. Siniscalco – G.L. Falchi, Legislazione imperiale e religione nel IV secolo, Istituto Patristico “Augustinianum”, Roma 2000, 67-120; M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Jaca Book, 2004; A. Carfora, I cristiani al leone. I martiri cristiani nel contesto mediatico dei giochi gladiatori, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2009.


LEMMARIO




Pietà illuminata - vol. I


Autore: Belluomini Flavio

Per comprendere il concetto di “pietà illuminata” è necessario individuarne le radici e tracciarne lo sviluppo. Cercheremo per questo di ripercorrere le tappe principali di codesta realtà della seconda metà del XVIII secolo realizzatasi soprattutto nei domini asburgici. Presenteremo poi come in Italia il granducato di Toscana e la Lombardia, territori soggetti alla Casa d’Austria, siano stati i luoghi principali della sua realizzazione.

È opportuno porre previamente l’attenzione sul fatto che, già nella prima metà del secolo, le molte devozioni che caratterizzavano la pietà del popolo (tra le quali spiccava il culto alla Madonna, ai santi, alle anime del purgatorio e alle reliquie) avevano sollevato la reazione delle élites religiose e culturali. A tale proposito non mancarono opere scritte, di cui il trattato Della regolata devozione dei cristiani (scritto nel 1742 e pubblicato nel 1747) di Ludovico Antonio Muratori si presentava come una sintesi programmatica. Muratori, che coniugava l’esperienza di studioso con quella di parroco, era sensibile alle esigenze della pietà popolare, ma nello stesso tempo sosteneva che la devozione doveva conformarsi alla fede professata dalla Chiesa stessa, che era fede trinitaria e cristologica. Per esercitare questa devozione egli proponeva la liturgia ufficiale della Chiesa di cui fondamento era la messa. Dalla liturgia e dalla stessa celebrazione della messa dovevano essere eliminate quelle superfetazioni introdottesi nel tempo, che ne potevano mettere in ombra la portata trinitaria. La messa doveva poi essere partecipata e compresa dal popolo perché fosse veramente per tutti il fondamento di ogni devozione, «la devozione delle devozioni». A questo si deve aggiungere che per il Muratori il vero culto non poteva essere scisso da una dimensione caritativa; era quindi necessario semplificare quegli apparati liturgici barocchi che tanto coinvolgevano il popolo e stornare le offerte verso i poveri. Tale impostazione apriva nuove piste da percorrere e invitava a porre l’attenzione sul culto della Chiesa antica; ciò, se accolto, avrebbero inevitabilmente inciso sulla pietà del popolo e sulle sue forme espressive.

Le proposte muratoriane non riuscirono a far breccia nella religiosità barocca di cui erano imbevuti i contemporanei, anche se le esigenze di una pietà fondata su una “regolata devozione” non vennero meno. Queste continuarono non solo in ambito religioso e culturale, ma si allargarono alla realtà politica. Le tematiche religiose infatti e, non da ultimo, quelle legate alle espressioni della pietà avevano delle ricadute sulla vita degli Stati. Come mostra la polemica intercorsa sulla proposta di riduzione delle feste di precetto, la pluralità di tali celebrazioni non poteva non interessare ai sovrani, in quanto l’astensione richiesta dal lavoro nei giorni festivi infrasettimanali incideva sull’economia. Tale questione, ampiamente e spesso aspramente discussa, fece emergere la divisione tra i vescovi sulla materia, ma soprattutto mostrò come la parte vincente nella gerarchia cattolica fosse quella che mirava allo status quo. Negli anni Quaranta e Cinquanta lo scarto tra la pietà popolare e le esigenze politiche e sociali del tempo crebbe e divenne più forte dopo la morte di Benedetto XIV, nel 1758, che si era dimostrato sensibile a queste tematiche.

 A partire dagli anni Sessanta le indicazioni muratoriane vennero progressivamente fatte proprie dal riformismo illuminato di stampo asburgico nel suo crescente giurisdizionalismo.

Sotto l’influsso dell’Aufklärung cattolica, che perseguiva, nella pluralità delle sue espressioni, l’elaborazione di una filosofia cristiana aperta allo spirito dei lumi, i sovrani furono portati a sviluppare una visione razionalistica e utilitaristico-civilizzatrice della religione. Gli orientamenti dell’Aufklärung richiedevano, nella logica del “rischiaramento”, di procedere ad una razionalizzazione del culto e di conseguenza ad una lotta contro ogni espressione della pietà che potesse essere interpretata come irrazionale e superstiziosa. La religione e lo stesso culto dovevano inoltre contribuire a formare buoni cristiani che fossero contemporaneamente buoni sudditi, utili per la crescita dello Stato. La politica giurisdizionalistica sarebbe così intervenuta non solo riguardo alle esenzioni delle proprietà ecclesiastiche e all’ingerenza della Curia romana nella realtà statale, ma anche riguardo alla pietà del popolo. La molteplicità dei luoghi di culto, le confraternite con le loro attività devozionali e di suffragio, le chiese dei regolari con le devozioni ai propri santi dovevano rientrare effettivamente sotto l’autorità del sovrano illuminato.

La prospettiva politico-utilitaristica del dispotismo illuminato, alimentata dagli influssi culturali, non avrebbe trovato ovviamente accoglienza nella Sede di Roma; essa venne invece ad incontrarsi con le esigenze di una religiosità rigorista spesso collegata all’austera spiritualità giansenista.

A metà degli anni Sessanta nei gruppi del tardo giansenismo si insisteva sull’“oscuramento” della vera dottrina della Chiesa antica procurato non solo dalla “scolastica” medievale, ma anche da motivi più recenti. Nei tempi moderni l’oscuramento sarebbe stato ampliato dall’attività dei gesuiti, per la loro morale lassista, la loro immagine di Chiesa monarchico-papale e per una pietà di impronta popolare ritenuta superficiale, esteriore e senza fondamento teologico. I rigoristi e i giansenisti contestavano decisamente la popolarizzazione del messaggio cristiano portata avanti dalle missioni al popolo, soprattutto quelle gesuitiche, molto incisive nella spiritualità del tempo, apprezzate e incentivate dalla Chiesa di Roma e una spiritualità benigna che trovava riferimento negli scritti di Alfonso Maria de’ Liguori. Tale dimensione popolare della pietà era ritenuta il risultato dell’oscuramento: un insieme di pratiche esteriori, vuote, non esigenti. Emergeva così con forza, da parte dei rigoristi, la necessità di riforme concrete che combattessero quello che veniva definito “fariseismo”, richiedessero la conversione e permettessero la comprensione e adesione ai misteri divini celebrati.

A partire dagli anni Settanta, anche a causa delle chiusure di Pio VI, salito sul soglio pontificio nel 1775, di fronte alle istanze riformatrici suddette, i motivi culturali legati ad una religiosità razionale e utilitaristica che rispondesse alle esigenze del tempo dei lumi, quelli più religiosi scaturiti dalla visione rigorista e giansenista e quelli politico-economici del dispotismo illuminato asburgico vennero ad unirsi e trovarono nella pietà un punto di accordo. Tra la fine degli anni Settanta, quindi, e il decennio seguente la pietà illuminata veniva a presentarsi come la realtà principale per porre mano alle riforme. In questi anni, il periodico francese Nouvelles ecclésiastiques avrebbe dato voce alla critica giansenista toccando queste tematiche, mentre in Italia gli Annali ecclesiastici di Firenze e la Raccolta di opuscoli interessanti la religione, patrocinata dal vescovo Scipione de’ Ricci, tra il 1783 e il 1790, contenevano temi inerenti alla pietà, alla superstizione e proposte di riforma, ormai viste realizzabili con il sostegno dei sovrani.

Sulla base del processo storico presentato, possiamo comprendere meglio cosa si intenda per “pietà illuminata”. Le esigenze di una “regolata devozione” venivano radicalizzate al punto che le manifestazioni esteriori della pietà popolare erano individuate come il frutto dell’oscuramento a cui esse stesse contribuivano. La pietà, attraverso le riforme liturgiche e l’istruzione, doveva essere illuminata affinché divenisse autentica. Solo in questo modo essa avrebbe condotto i credenti alla conoscenza dei misteri divini e all’adesione ad essi. Tutto ciò si sarebbe realizzato, non come ai tempi del Muratori, avendo la Chiesa di Roma come il referente ultimo, ma attraverso le Chiese locali e con il sostegno/intervento dei principi cattolici i quali, dalle riforme stesse, avrebbero avuto utilità per lo Stato.

Si aprì una stagione di lotta al trionfalismo barocco delle confraternite, alla predicazione dei regolari e a ogni forma di pietà che potesse essere giudicata superstiziosa. Vennero prese di mira devozioni care al sentimento popolare come quella al Sacro Cuore (considerata “devozione tenera” e senza fondamento teologico) e la pratica della Via Crucis. Ma accanto alla parte combattiva e potremmo dire distruttiva, si sviluppò la parte costruttiva della pietà illuminata, tra cui spiccava l’insistenza sull’istruzione, con ampio uso di catechismi di matrice giansenista, al fine di “illuminare” il popolo sul significato del culto e della dottrina. Tale istruzione – e questo è un altro aspetto degno di nota – doveva essere fatta da parroci ben preparati, nelle chiese parrocchiali, nel rispetto dei tempi liturgici e della centralità della domenica.

All’interno del suddetto processo, si passò dal culto a questioni più ampie ponendo l’attenzione su quelle che erano definite le alterazioni intervenute col passare dei secoli nelle strutture della Chiesa. Si criticava l’ampliamento dell’autorità del pontefice romano e della sua curia a discapito delle Chiese locali, l’eccessiva proliferazione degli Ordini religiosi e la loro esenzione dall’autorità dei vescovi; si chiedeva inoltre di ristabilire la prassi sinodale. Questo conduceva verso una Chiesa episcopalista. Inoltre il sempre maggiore intervento dei sovrani circa sacra accrebbe la possibilità di una Chiesa di impronta nazionale.

Questi ultimi aspetti produssero l’inevitabile scontro con Roma. Nello stesso tempo la battaglia che i sostenitori di una pietà illuminata dovevano condurre era quella con il sentimento religioso del popolo che si sentì limitato e spesso offeso nelle manifestazioni della sua religiosità.

Come accennato, la Lombardia austriaca e il granducato di Toscana, da cui furono influenzati in parte anche altri territori italiani, furono i luoghi dove trovò sviluppo la pietà illuminata.

È interessante notare come nella seconda metà del secolo si respiri, in un crescendo, il nuovo clima. In una memoria sulle confraternite, nel 1767, un membro della Giunta economale di Milano sosteneva che queste indebolivano la società con atti superstiziosi e inutili, mentre nel governo austriaco si percepivano i missionari itineranti come persone animate da fanatismo religioso. Dopo il 1780, morta Maria Teresa d’Austria, il figlio Giuseppe II si pose nell’ottica di azioni più concrete, di cui fu segno eloquente l’espunzione della festa di Gregorio VII dai calendari liturgici dei domini asburgici, nel 1783. L’imperatore, tra il 1783 e il 1786, emanò veri e propri regolamenti sulle cerimonie e sulle pubbliche devozioni. La soppressione delle molte corporazioni religiose (istituzioni di riferimento per le pratiche devozionali e per l’aggregazione sociale, attorno alle quali gravitavano risorse economiche), ridotte ad una sola a partire dal 1783, gli interventi per limitare le spese per suffragi e feste religiose rientravano in un quadro di intervento diretto da parte dell’autorità sovrana. Nel 1784 Giuseppe II tornò sulla questione della diminuzione delle feste di precetto per i territori asburgici; il 17 marzo 1786 Pio VI finì per accondiscendere alle richieste dell’imperatore. Davanti agli interventi del sovrano, spesso, le reazioni popolari furono negative e, in certi casi, violente.

Per quello che riguarda la Toscana, il rapporto tra il granduca Pietro Leopoldo di Asburgo-Lorena e alcuni vescovi di diocesi toscane minori ed altri ecclesiastici dette origine a una seria riflessione sulla pietà illuminata, contribuendo al suo sviluppo. Fu con il fiorentino Scipione de’ Ricci, divenuto vescovo di Pistoia e Prato nel 1780, che si ebbero incisive riforme, molte delle quali sanzionate nei canoni del Sinodo di Pistoia del 1786.

Il de Ricci aveva sensibilizzato le diocesi con istruzioni pastorali, tra cui l’Istruzione pastorale sulla nuova devozione al Cuor di Gesù del 1781 e l’Istruzione sulla necessità e sul modo di studiare la religione del 1782 (quest’ultima si rifaceva ad un’istruzione del 1776 dell’arcivescovo di Lione Antoine de Malvin de Montazet, di impronta giansenista). Negli scritti del de’ Ricci, come nelle sue omelie, si può rintracciare un chiaro progetto che mira non solo ad eliminare devozioni ritenute errate, superstiziose e fuorvianti, ma a porre l’attenzione sulla necessità di “comprendere”, tramite l’istruzione fatta dai parroci, la lettura del vangelo e le preghiere liturgiche in volgare, i misteri della fede. Emerge poi la sua idea di Chiesa fortemente comunitaria, incentrata sulla figura del vescovo e sulla vita delle parrocchie, ritenute i luoghi per vivere una religiosità non individualistica. Con due motuproprio granducali del 1783 era stata stabilita la centralità della parrocchia per le due diocesi, a detrimento degli altri centri di culto. Sempre col sostegno del granduca il de’ Ricci aveva realizzato altre riforme concrete come la proibizione della predicazione dei regolari senza il permesso del vescovo e stabilito un regolamento uniforme delle celebrazioni liturgiche. Nel 1783 aveva presentato, su richiesta del granduca, un’istruzione pastorale dell’arcivescovo Girolamo di Colloredo che nella sua arcidiocesi di Salisburgo, ove egli deteneva anche i poteri sovrani, aveva realizzato quell’epurazione del culto al fine di renderlo edificante per il popolo ed utile per lo Stato. Da questa istruzione il de’ Ricci avrebbe preso ispirazione per molte riforme tra cui la necessità dell’unicità dell’altare nelle chiese, procedendo alla proibizione di celebrazioni di più messe in contemporanea e, in alcuni casi, alla demolizione degli altari laterali nelle Chiese.

Sovrano e vescovo andarono all’unisono fino alla celebrazione del sinodo, preceduto dai Cinquantasette punti ecclesiastici elaborati dal granduca e inviati nel gennaio 1786 all’episcopato toscano. In essi Pietro Leopoldo insisteva sulla necessità di riforme inerenti al culto nello spirito di una pietà illuminata ed esortava a fare sinodi diocesani.

Il sinodo di Pistoia dette disposizioni concrete come quella della comunione dei fedeli durante la messa con particole consacrate durante la celebrazione, respinse la devozione “carnea” al Cuore di Gesù, regolò l’esercizio della via Crucis, raccomandò una devozione regolata alla Vergine (disponendo che ad essa si dessero solo i titoli menzionati nelle Scritture), ai santi e alle reliquie. Chiese inoltre di far cessare l’usanza di tenere velate le immagini sacre, nonché le pitture nei luoghi di culto dovevano rappresentare solo episodi edificanti menzionati nell’Antico e Nuovo Testamento. In quest’ottica rigoristica avrebbero dovuto realizzarsi le riforme del breviario e del messale ad uso delle due diocesi.

Detto sinodo si realizzò con la protezione dell’autorità laica e sotto l’influsso e la collaborazione effettiva dei giansenisti di Pavia, in uno spirito richerista. Nelle intenzioni di Pietro Leopoldo l’assise pistoiese era la premessa per altri sinodi diocesani che dovevano culminare in un sinodo nazionale toscano al fine di sostenere le riforme. L’assemblea dei vescovi della Toscana, convocata dal granduca nel 1787, che sostituì il progettato sinodo nazionale, mostrò però che la maggioranza dei presuli era contro le proposte che emergevano dall’alleanza del granduca e del vescovo de’ Ricci. I vescovi delle diocesi del granducato, tra cui i tre metropoliti, si posero a favore della pietà popolare e a sostegno delle prerogative del papa. Inoltre le disposizioni del vescovo de’ Ricci, che divenivano sempre più concrete, provocarono, come era da immaginarsi, violente reazioni nella popolazione e critiche da parte del clero. La partenza di Pietro Leopoldo per Vienna, dove sarebbe andato per cingere la corona imperiale, lasciando sul trono di Toscana il figlio Ferdinando III, e soprattutto gli eventi rivoluzionari, che si sarebbero estesi ai territori italiani, cambiarono gli scenari politici, lasciando il de’ Ricci isolato. Il sinodo sarebbe stato condannato nel 1794 con la bolla di Pio VI Auctorem fidei. Tale condanna trascinò con sé le proposte della pietà illuminata e di conseguenza anche ciò che quest’ultima aveva assunto dalla regolata devozione.

Dopo gli anni rivoluzionari e la sconfitta ricciana, il devozionismo ottocentesco, popolare o anche quello praticato dalle élites, non fu all’insegna della pietà illuminata né di una regolata devozione, ma piuttosto di una “normativizzazione” da parte dell’autorità ecclesiastica in una attenzione alla dimensione popolare e nella fedeltà a Roma.

Fonti e Bibl. essenziale

K.O.F. von Aretin, Cattolicesimo riformatore, illuminismo cattolico e assolutismo illuminato, in Il Sinodo di Pistoia del 1786. Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario, 1-9; B. Pilkington, La liturgia nel sinodo ricciano di Pistoia, «Ephemerides liturgicae», 43 (1929), 410-424; F. Venturi, Settecento riformatore. I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969; Donati C., Dalla “regolata devozione” al “giuseppinismo” nell’Italia del Settecento, in Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano, a cura di M. Rosa, Roma, Herder, 1981, 77-98; M. Rosa, Politica ecclesiastica e riformismo religioso in Italia, «Cristianesimo nella storia» 10/2 (1989), 227-249; A. Burlini Calapaj, Devozioni e “Regolata Divozione” nell’opera di Ludovico Antonio Muratori, Roma, C.L.V.-Edizioni Liturgiche, 1997, (Bibliotheca “Ephemerides liturgicae”, “Subsidia”); E. Cattaneo, Il culto cristiano in occidente. Note storiche, Roma, C.L.V.-Edizioni Liturgiche, 1992, (Bibliotheca “Ephemerides liturgicae”, “Subsidia”), 352-451; M. Rosa, Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia, Marsilio, 1999; M. Rosa, Dalla «religione civica» alla «pietà illuminata»: la Cintola della Vergine di Prato, «Rivista di storia e letteratura religiosa» 38/2 (2002), 235-269; M. Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento: dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Roma, Carocci, 2014, 135-196.

Immagini:

1) Ludovico Antonio Muratori
2) I fratelli Giuseppe II e Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena
3) Il vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci
4) Il sinodo di Pistoia del 1786

LEMMARIO




Pieve - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Derivato dal latino plebs (popolo), il termine ha tre significati correlati: una comunità di battezzati, un edificio di culto provvisto di fonte battesimale, il distretto di pertinenza questa chiesa. Durante l’evangelizzazione fra tarda antichità e alto medioevo, si svilupparono comunità periferiche di credenti che avevano come nodi le chiese battesimali sparse nelle campagne. Queste ebbero in genere il nome di parrocchie, ma in Italia centrosettentrionale e in Corsica furono chiamate pievi. Il limite meridionale della loro presenza, già ritenuto corrispondente all’asse Viterbo-Chieti, è stato spostato dalla ricerca contemporanea fino a comprendere anche l’area salernitana e beneventana. Il resto d’Italia meridionale e insulare non conobbe invece questa forma di organizzazione del territorio.

Le prime pievi sono attestate in Toscana – almeno come termine impiegato nella documentazione – alla fine del VII secolo e si diffondono in tutta l’Italia centrosettentrionale nel corso dei tre secoli seguenti, costituendo i gangli fondamentali, soprattutto a partire dalle riforme del periodo carolingio, di un articolato sistema di gestione e controllo del territorio rurale. Differentemente dalle numerose chiese e cappelle fondate da privati, la pieve era una chiesa pubblica, sottoposta – almeno in termini di diritto – direttamente al vescovo e affidata a un collegio di chierici retto da un arciprete. Essa aveva una propria circoscrizione ricavata all’interno della diocesi, entro la quale esercitava le prerogative di chiesa matrice sul popolo abitante nell’area, che doveva ricevervi il battesimo, corrispondere le decime e le primizie e accorrere in occasione delle festività maggiori. All’interno del distretto plebano (detto anche piviere e pievania), le cappelle, gli oratori e gli altri edifici di culto (qualora non fossero stati resi esenti) dipendevano dalla pieve e dal suo clero e non godevano dei diritti parrocchiali. Esistevano anche pievi cittadine, con funzioni di matrice, distinte rispetto a quelle della cattedrale: per esempio ad Arezzo.

Questa organizzazione fu tipica dell’alto medioevo, fino al secolo XI compreso, quando erano pienamente in essere i sistemi abitativi e gestionali delle curtes (in area franco-longobarda) e dei fundi (in area bizantina), nei quali le grandi proprietà fondiarie erano spesso non compatte e in cui la principale forma di insediamento nelle campagne era ancora l’abitato sparso, cosicché le cappelle private non erano in grado di acquisire ampie funzioni pastorali e di cura d’anime. La pieve, al contrario, funzionava proprio come centro di raccordo e di raccolta di una popolazione che, sparpagliata in villaggi e case isolate, vi confluiva per ricevere il battesimo: per questa ragione, l’edificio sacro si trovava spesso lungo una importante via di comunicazione, o sulle sponde di un fiume, o nel fondovalle. Da ciò scaturisce la questione, molto dibattuta dalla storiografia, se le pievi siano o meno da considerarsi come prosecuzione diretta, in senso istituzionale e finanche topografico, degli antichi pagi romani. La risposta che è stata data è articolata, occorrendo distinguere tra l’area bizantina, dove la continuità è riconoscibile, e l’area franco-longobarda, dove le cesure sono più evidenti (Castagnetti); ma in effetti tale correlazione va sottolineata, almeno dal punto di vista tipologico, in quanto sia il pagus che la pieve rispondevano ad esigenze insediative analoghe.

Il sistema per pievi cominciò a entrare in crisi nel corso del secolo XI, quando la formazione delle signorie territoriali di banno e l’incastellamento sempre più diffuso mutarono profondamente i sistemi abitativi, che divennero sempre più accentrati. Dall’inizio del XII secolo le chiese castrali, a volte sostenute dal signore del luogo, presero a rivendicare con sempre maggior determinazione alcuni diritti parrocchiali (messa pubblica festiva, penitenza privata, decime, cimitero e diritti di sepoltura), dando vita a conflitti molto accesi con i collegi dei chierici della pieve. In alcune zone, come nel Lazio, l’incastellamento provocò la definitiva scomparsa del sistema plebano e l’attribuzione di tutti i diritti parrocchiali alle chiese di castello. Nel resto dell’Italia centrosettentrionale, invece, il fenomeno della rivendicazione dei diritti parrocchiali complicò il quadro gerarchico, comportando la creazione delle parrocchie come elemento intermedio tra la sede cattedrale e la pieve. Quest’ultima non fu peraltro esautorata, continuando invece a mantenere la funzione di chiesa battesimale e di centro di raccordo, ora non più di cappelle, ma di parrocchie. Il sistema fu reso ancora più complesso dal fatto che i comuni cittadini, nella fase di conquista del contado operata spesso ai danni del vescovo e dei signori rurali, assunsero come proprio il reticolo delle pievi: soprattutto in Toscana e nella Pianura Padana, i pivieri divennero circoscrizioni amministrative con le quali la città si proiettava nel distretto. La crisi, dovuta alle nuove forme di insediamento (borghi franchi e “ville nove”), ai nuovi indirizzi della pastorale, che insistevano sulla necessità di un frequente accesso ai sacramenti, e soprattutto alle nuove forme di devozione popolare, indirizzata verso altri luoghi di culto, portarono al tramonto del sistema delle pievi. Durante i secoli XIII e XIV il sistema per parrocchie – detentrici di tutti i diritti legati alla cura d’anime e provviste di un clero stabile e residente – si andò sostituendo un po’ dovunque. Ciononostante, in alcune aree periferiche – come per esempio nel Montefeltro – il sistema più antico sopravvisse durante tutta l’età moderna.

La storiografia sulle pievi nasce dal principio del secolo XX. Oltre alle robuste indagini in campo storico-artistico (essendo spesso le pievi edifici di notevole importanza), fu inizialmente privilegiata la storia del diritto, cui nel corso dei decenni si è andato affiancando l’interesse per la storia economica, istituzionale, ecclesiologica e devozionale. Numerosissimi sono inoltre gli studi di storia regionale e locale.

Fonti e Bibl. essenziale

Le istituzioni ecclesiastiche della «Societas Christiana» dei secoli XII-XIII. Diocesi, pievi, parrocchie, Atti della Sesta settimana internazionale di studio, Milano 1-7 settembre 1974, Vita e Pensiero, Milano 1977; A. Castagnetti, L’organizzazione del territorio rurale nel medioevo: circoscrizioni ecclesiastiche e civili nella Langobardia e nella Romania, Patron, Bologna 1979 Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XV), Atti del VI Convegno di storia della Chiesa in Italia, Firenze 21-25 settembre 1981, Herder, Roma 1984; L. Mascanzoni, Pievi e parrocchie in Italia. Saggio di bibliografia storica, 2 voll., Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università di Bologna, Bologna 1988-1989; R. Salvarani, Pievi del Nord Italia: cristianesimo, istituzioni, territorio, Banco Popolare – Gruppo Bancario, Verona 2009; E. Curzel (ed.), L’organizzazione ecclesiastica nelle campagne, in Reti medievali. Repertorio, 2010, http://fermi.univr.it/rm/repertorio/rm_curzel_organizzazione_ecclesiastica_nelle_campagne.html (cons. aprile 2012).


LEMMARIO




Pittura - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo1

Sostanza e natura delle immagini cristiane. Da sempre, ha detto Giovanni Paolo II, «la fede tende per sua natura ad esprimersi in forme artistiche e in testimonianze storiche aventi un’intrinseca forza evangelizzatrice e valenza culturale di fronte alle quali la Chiesa è chiamata a prestare la massima attenzione» (Motu Proprio Inde a Pontificatus Nostri initio, 25 marzo 1993, Proemio, in “LOsservatore Romano”, 5 maggio 1993, 5) e il Catechismo della Chiesa cattolica ha chiarito che la simbolica cristiana «trascrive attraverso l’immagine il messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la Parola. Immagine e Parola s’illuminano a vicenda» (2, 1, 2, n. 1160). Di conseguenza, lo studio delle raffigurazioni cristiane non può essere affidato soltanto agli storici dell’arte; essi approfondiscono il monumento come espressione artistica, quindi considerano le differenze di stile: in al­tri termini, studiano come l’opera umana si inserisce nel flusso vitale dell’evoluzione stilistica. L’immagine cristiana, invece, deve essere studiata anche come espressione di fede della comunità, con la quale la Chiesa si è servita per dare “condimento” alla comuni­cazione verbale del messaggio. Architettura, costruzioni, spazi e luoghi, scultura, pittura, utensili: le immagini nella Chiesa hanno trovato i mezzi per espri­mersi in tutti i modi e con tutti gli strumenti.

Non a caso, il felice vincolo tra Chiesa e arte, oggi così difficile da riannodare, ha avuto nei vescovi, oltre che nei pontefici, dei formidabili e spesso assai generosi promotori: alla loro volontà di educare e catechizzare per mezzo della bellezza si deve gran parte del patrimonio artistico e culturale, un lascito che in questa temperie di profondo disorientamento tutti sono chiamati a tutelare e a conservare. Già le prime pitture cristiane, seguendo l’arco di gestazione del potere episcopale ed espressioni di una Chiesa che comincia a godere di una reale autonomia economica, unirono l’esigenza di intendere la parola di Dio alla sua conserva­zione; legarono la memoria a un riferimento obiettivo, che, data la cultura del tempo, non poteva essere il libro, ma diventava l’affresco, il mosaico, la scultura.2

Allora lex orandi e lex credendi erano un’istruzione lasciata alla libera interpretazione iconografica dell’artista; Paolino di Nola, tra i più sensibili al tema, giustifica la pittura cristiana auspicando che «la figura rivestita di colori attragga con questi spettacoli l’interesse delle menti attonite dei contadini; essa è spiegata dalle iscrizioni, affinché lo scritto mostri ciò che la mano dell’artista ha eseguito» (Poema 27, vv. 511 e ss.), mentre Nilo di Ancira chiarisce che «la mano del migliore pittore ricopra la chiesa di immagini dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento, affinché gli illetterati, che non possono leggere le Scritture, si istruiscano guardando le gesta gloriose di coloro, che hanno fedelmente servito il vero Dio e siano invitati ad imitare sì nobile condotta» (Lettera, 79, 578-579). Nondimeno, soprattutto nei primi secoli della sua storia la Chiesa ha esplo­rato e vissuto dolorosamente tutte le possibilità favorevoli e contrarie alla fabbrica­zione delle immagini, la quale, accolta nella prassi, ha sofferto delle drammatiche di­scussioni all’interno del dibattito dottrinale. Infatti, prima del Concilio di Nicea del 325 alcuni autori (tra essi Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene, Minucio Felice, Lattanzio) non sembrano troppo favorevoli ad accettare l’uso e meno ancora il culto delle immagini, pure se le loro posizioni sono espresse nella lotta contro l’idolatria e sono basate sui testi anti-iconici dell’Antico Testamento.3

Evoluzione dottrinale e pragmatica. Per tutto il medioevo la direzione ecclesiastica (committenza, ma anche regolamentazioni, pronunciamenti ufficiali di natura teorica e pratica, ad esempio in occasione dei concili) sulla natura, l’uso e la forma delle immagini fu assai forte; l’artista non era libero di agire secondo una personale intenzione figurativa, dal momento che non produceva immagini per sé, ma per un ambito specifico e per destinatari con determinate attese. Il pittore doveva trovare solo il sistema più efficace per veicolare dei contenuti che gli venivano forniti. La diversificazione tra gli artisti, specie in occidente, si fece allora sulle invenzioni compositive, sullo stile, chiamato a riformare e portare a maggiore verità formule iconografiche note e correnti, senza però contraddirne il senso, né spiazzare troppo lo spettatore; il pittore poteva, per un certo tema/soggetto richiestogli dal committente, presentargli più di una soluzione tra cui scegliere. Nondimeno, i committenti ecclesiastici (vescovi, abati e monaci, canonici) non si limitarono solo a ordinare opere d’arte convenzionali e conformi ai rispettivi ruoli, ma le influenzarono secondo la loro sensibilità, servendosi dell’arte come strumento di autolegittimazione e come mezzo per manifestare rivendicazioni, desideri e tendenze ideologiche personali. Il committente interveniva nella concezione dell’opera d’arte definendone la tematica e soprattutto il programma e talvolta anche lo stile. In alcuni casi, come nelle sculture dei portali e nelle vetrate delle cattedrali, stabiliva il programma in totale autonomia dagli stessi finanziatori dell’opera. La scelta di un definito programma si attuava nelle relazioni e nelle accentuazioni degli elementi di un ciclo figurativo, nel cui protagonista il committente cercava un’identificazione. Espressione di un dato programma era anche la scelta di chiare tipologie di Cristo o della Vergine, così come di santi, eroi o di particolari temi. La stessa rappresentazione del committente nell’opera d’arte poteva seguire formule di una certa diffusione o costituire un’elaborazione del tutto individuale, ricca pertanto di significati.

Limite invalicabile nell’opera del pittore era però stabilito dall’ortodossia e dal decoro. Fondamentali i pronunciamenti ultimi del Concilio di Trento che disciplinò la produzione di immagini sacre, tendendo a correggere o eliminare dettagli o impostazioni fuorvianti (esemplificativi furono il processo a Paolo Veronese per un’Ultima Cena, convertita in una Cena in casa di Levi, e l’eliminazione di alcune iconografie non più accettabili sul piano teologico o formale, come l’immagine trifronte o tricefala del Cristo per la Trinità, la Madonna del Latte, ecc.).4

L’importanza del decoro, invece, fu intesa come attinenza di una forma a un contenuto o dell’immagine al contesto cui fu destinata, ad esempio un dipinto da porre sopra un altare (caso emblematico dei dipinti rifiutati di Caravaggio per la Cappella Cerasi e per la Cappella Contarelli). Infatti, la collocazione di un’immagine, specie se si trattava di uno spazio ecclesiastico o monastico, non fu mai casuale (l’Annunciazione sull’arco trionfale, il Giudizio universale in controfacciata, il Battesimo di Gesù in corrispondenza del fonte battesimale, immagini penitenziali legate alla Passione all’ingresso dei refettori monastici, ecc.) e rispettò sempre un rapporto con ciò che in quel luogo o in quel punto dello spazio si faceva in termini di culto e liturgia e con il percorso, fisico e percettivo, compiuto dallo spettatore e a lui suggerito proprio attraverso le immagini. Rapporto diretto e speciale le immagini ebbero ovviamente con la liturgia (in prossimità dei vari gesti liturgici, sui vari supporti: tabernacolo, predella, calice, ostensorio, paliotto, stendardo, reliquiario, anta d’organo, ecc.), anche in allestimenti temporanei (cicli di teli quaresimali dipinti, “macchine” di altari fatte di ante fisse ed ante rimovibili, che potevano assumere diverse configurazioni, ecc.).

Gli orientamenti attuali. La ricezione del decreto tridentino nei secoli dell’età moderna provocò un atteggiamento centralista della Chiesa con un dirigismo in tema di forme devozionali e iconografiche; la pittura venne depurata da qualsiasi forma di ostentazione e di virtuosismo formale: doveva essere semplice, facilmente comprensibile dal fedele, in modo da non disturbare la concentrazione delle sue preghiere. Si riaffermarono i temi della Chiesa come intermediaria fra l’uomo e Dio e del riconoscimento salvifico delle buone opere; si esaltò il valore dei sacramenti e ribadì l’esistenza del purgatorio. Il controllo ecclesiastico sulle immagini proseguì anche nella fase dell’illuminismo cattolico, che disciplinò le immagini per una vita cristiana in chiave biblica e cristocentrica; ancora tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, sullo sfondo della decadenza delle immagini, la Chiesa si limitò solo a una funzione legislativa di conservazione e restaurazione del patrimonio artistico.

Nell’età moderna, ha più volte detto Giovanni Paolo II, nell’arte si è progressivamente affermata «una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi». Eppure, la Chiesa ha continuato a tenere l’arte in grande considerazione, «infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa» (Lettera agli artisti, 10). Tra le cause del dialogo interrotto è da annoverare la difficoltà della Chiesa a comprendere le nuove forme di comunicazione artistica sviluppatesi soprattutto nel Novecento; se con la Sacrosanctum Concilium (1963), i vescovi si aprirono alle tendenze estetiche contemporanee, auspicando un pluralismo di stili, pur riconfermando che esistevano dei limiti alla creatività dell’artista (cap. 7) e nel 1964 Paolo VI nell’Incontro con gli artisti espresse il desiderio di riconciliazione, con la Gaudium et Spes (1965) la Chiesa ha recuperato valori, prima contrastati: «Bisogna perciò impegnarsi affinché gli artisti si sentano compresi dalla Chiesa nella loro attività e, godendo di un’ordinata libertà, stabiliscano più facili rapporti con la comunità cristiana. Siano riconosciute dalla Chiesa le nuove tendenze artistiche adatte ai nostri tempi secondo l’indole delle diverse nazioni e regioni» (cap. II, 62).5

L’eccezionale sviluppo dei media determina oggi l’onnipresenza delle immagini, per questo la sfida della comunicazione impone anche alla Chiesa un rinnovato uso, rendendo così sempre più sentita l’esigenza di ricercare le vie di incontro del vangelo con i modelli figurativi attuali. L’immagine infatti può diventare “Parola”, ma solo quando arriva a coniugare le due fonti costitutive del kerigma, che sono l’esperienza da una parte e il testo biblico dall’altra. Eppure, di fronte allo smarrimento che si prova verso l’arte cosiddetta «sacra», la Chiesa deve re-imparare a «commissionare». Ciò comporta scegliere veri artisti, saperli accompagnare, avere stima del loro lavoro. In questa direzione, in diverse diocesi italiane vi sono segni di grandi, intelligenti e importanti committenze, dovute specialmente alla ripresa della pastorale dell’arte, con notevole impegno finanziario, dato dalla Conferenza Episcopale Italiana, nella fattispecie, dall’Ufficio Nazionale per i Beni culturali ecclesiastici e dall’Ufficio per il Progetto Culturale; si possono citare, a titolo esemplificativo, l’armonizzazione del manifesto iconografico antico con un programma contemporaneo nella Cattedrale di Cefalù, il piano della Cappella Redemptoris Mater nel Palazzo Apostolico Vaticano e il progetto dei restauri della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Terni. Risoluzioni meno efficaci, principalmente causati da esigenze di adeguamento liturgico, sono state compiute per le cattedrali di Catania, di Vicenza, di Noto e per le chiese del Gesù e di Santa Maria del Popolo a Roma. Infine, l’intervento recente nella cattedrale di Reggio Emilia, inaugurato nel 2012, che ha visto la commissione di opere a Jannis Kounellis, Ettore Spalletti, Hidetoshi Nagaswa e Claudio Parmiggiani, scardinando le modalità con le quali si pensa ad un adeguamento liturgico e ai criteri di scelta degli artisti, ha suscitato molte discussioni.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Catto, La Compagnia divisa. Il dissenso nell’ordine gesuitico, Morcelliana, Brescia 2009; Ead., The Jesuit Memoirists: Bellezza e vita. La spiritualità nell’arte contemporanea, a cura di T. Verdon, San Paolo, Milano 2011; H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci, Roma 2001; C. Chenis, Il programma iconografico della chiesa-edificio, in «Rivista Liturgica» 88 (2001), 541-558; A. Dall’Asta, Quale committenza per l’arte sacra? Un dialogo tra arte e fede, in «Rivista Liturgica», 100(2013), 69-83; J. Danielou, I simboli cristiani primitivi, Edizioni Arkeios, Roma 1990; G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Bruno Mondadori, Milano 2008; T. Ghirelli, Ierotipi cristiani. Le chiese secondo il magistero, LEV, Città del Vaticano 2012; A. Grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana, Jaca Book, Milano 1983; C. Lapucci, Estetica e trascendenza, Cantagalli Edizioni, Siena 2011; R. Mastacchi – R. Knapinski, Credo. La raffigurazione del Simbolo Apostolico nell’Arte europea, Cantagalli Edizioni, Siena 2011; Romana pictura. La pittura romana dalle origini all’età bizantina, a cura di A. Donati, Electa-Mondadori, Milano 1998; R. Tagliaferri, Liturgia e immagine, EMP – Abbazia S. Giustina, Padova 2009; Temi di iconografia paleocristiana, cura e introduzione di F. Bisconti, Città del Vaticano 2000; J. Van Larhoven, Storia dell’arte cristiana, Bruno Mondadori, Milano 1999; T. Verdon, L’arte cristiana in Italia, 3 voll., San Paolo, Milano 2005-2008.

Immagini:

1) Albenga (Sv), Volta mosaicata del battistero paleocristiano (VI secolo); 2) Sant’Angelo in Formis (Ce), palinsesti figurativi della basilica benedettina di San Michele Arcangelo (X secolo); 3) Giotto, Adorazione dei Magi, Cappella degli Scrovegni, Padova (XIV secolo); 4) Raffaello Sanzio, La disputa del Sacramento, Musei Vaticani, Città del Vaticano (1509 ca.); 5) Jacopo Bassano, Adorazione dei Magi, The Barber Institute of Fine Arts, University of Birmingham, Birmingham (1555).

Sitografia:

http://www.storiadellarte.com (sito dedicato alla storia dell’arte italiana, dalle origini a oggi); http://www.arslab.it/ (sito di ricerca e documentazione sull’arte contemporanea); http://www.amei.biz/repertorio.htm (sito che offre il repertorio di tutti i musei ecclesiastici italiani, regione per regione, con indirizzi e informazioni varie); http://www.alinari.it/it/archivi-online.asp (sito con la più ricca collezione fotografica del mondo, parzialmente a pagamento); http://www.icongrafia.com/ (sito di iconografia cristiana, spiritualità e teologia dell’icona).


LEMMARIO




Predicazione - vol. I


Autore: Roberto Rusconi

La prima predicazione dell’evangelo del Cristo in Italia rimanda alla venuta a Roma dell’apostolo Pietro e anche dell’apostolo Paolo. Per il primo se ne ha un riflesso nel Vangelo redatto da Marco, per il secondo nell’Epistola ai Romani. Dopo gli editti degli imperatori Costantino, nel 313, e Teodosio, nel 380, nella predicazione cristiana emersero figure episcopali di spicco, come Ambrogio di Milano, Zeno di Verona, Cromazio di Aquileia, Gaudenzio di Brescia, Massimo di Torino, Pietro Crisologo, tra IV e V secolo. Alla stregua di quella di Leone Magno († 461), la loro produzione omiletica fu tramandata nei secoli dell’alto medioevo in raccolte di sermoni latini. Particolarmente influente fu la Regula pastoralis di Gregorio Magno (590-604).

Nell’ambito dell’organizzazione dell’impero carolingio, e del ruolo assegnato al suo interno alle istituzioni ecclesiastiche, agli inizi del IX secolo diversi capitolari dettarono norme per assicurare una predicazione elementare nelle lingue volgari, il cui esito è attestato da una raccolta di quattordici omelie provenienti dall’Italia settentrionale: vi si prendeva occasione per trasmettere i fondamenti essenziali della fede cristiana. Nei secoli del medioevo centrale la predicazione, scarsa e modesta, fu supportata da omeliari che riadattavano i sermoni latini allo svolgimento dell’anno liturgico, come quelli di Gaudenzio di Brescia e di Paolo Diacono († 799): i loro contenuti dovevano essere volgarizzati ai fedeli, come documenta una raccolta di sermoni di area subalpina.

Dopo l’affermazione dei riformatori monastici nella lotta per la libertas ecclesiae, sancita dal concordato di Worms nel 1122, le disposizioni dei primi quattro concili ecumenici della Chiesa latina, celebrati a Roma tra 1123 e 1215, ebbero concrete ricadute sulla pastorale ecclesiastica, in particolare con il canone Omnis utriusque sexus del IV concilio del Laterano, che prevedeva per tutti i fedeli l’obbligo della confessione annuale dei peccati e della comunione pasquale, e con il canone Inter caetera, che prospettava un ministero della predicazione in quanto delegato da parte dei vescovi.

L’esigenza di un rinnovamento della predicazione, incentivato anche dai decreti conciliari, non era peraltro stata soddisfatta dalle limitate esperienze che avevano avuto luogo tra i monaci, che come i Vallombrosani avevano predicato a favore della riforma, e soprattutto tra i canonici regolari. La loro prassi omiletica non rispondeva alla diffusa richiesta di una predicazione di carattere più aderente al messaggio evangelico.

Anche se il Decretum di Graziano, sin dalla metà del secolo XII, aveva frapposto un impedimento alla predicazione dei laici, ribadito nel 1184 dalla decretale Ad abolendam hereticam pravitatem, negli ultimi decenni del secolo XII e agli inizi del secolo XIII essa fu praticata in diversi ambienti, in particolare tra gli Umiliati di Lombardia e tra i seguaci italiani di Valdesio di Lione. La loro riconciliazione con la gerarchia ecclesiastica ne provocò l’adeguamento alla predicazione dei chierici. Diversamente avvenne per la predicazione dei Catari, aderenti a una Chiesa di origine balcanica, che si pose in potenziale alternativa alla Chiesa romana: malgrado un ampio favore di cui godette nell’Italia centro-settentrionale, entro la fine del secolo XIII essa fu stroncata con il ricorso allo strumento dell’inquisizione. Insieme agli eretici furono messi sul rogo i manoscritti che  documentavano le dottrine iniziatiche predicate dai perfecti ai loro fedeli.

Un rinnovamento delle forme e dei modi della predicazione nella società italiana degli ultimi secoli del medioevo si ebbe con l’avvento dei frati degli Ordini mendicanti, in primo luogo i frati Minori, seguaci di Francesco d’Assisi († 1226), e i frati Predicatori, seguaci del canonico spagnolo Domingo di Caleruega († 1221). I “domenicani” sin dall’inizio formularono un curriculum studiorum per i frati destinati a predicare, volgarizzando ai fedeli i testi latini redatti sulla base della retorica del sermo modernus, elaborata nelle scuole parigine sin dalla fine del secolo XII: la cui formalizzazione agevolava la preparazione dei predicatori e l’apprendimento degli ascoltatori. A tale indirizzo si adeguarono anche i “francescani”. Soprattutto nei centri urbani, grazie a una capillare diffusione di conventi dei diversi Ordini mendicanti (a francescani e domenicani nel corso del secolo XIII si aggiunsero agostiniani, carmelitani e serviti), la predicazione in volgare divenne una prassi regolare nelle loro chiese, per lo più nelle domeniche e nei numerosi giorni festivi. In particolare a un frate Minore di origine portoghese, Antonio di Padova († 1231), si dovette l’introduzione di una predicazione quotidiana nel periodo quaresimale, in preparazione alla confessione annuale e alla comunione pasquale. Gradualmente con il tempo si affermò, sia pure su scala minore, anche una predicazione quotidiana durante il periodo liturgico dell’Avvento prima della celebrazione del Natale.

La predicazione dei frati debordò nelle piazze, in occasioni dei movimenti di rinnovamento religioso (cui non erano estranee intromissioni nella politica dei comuni italiani), come quello detto dell’Alleluja nel 1233, e due secoli più tardi con i predicatori di grande richiamo, come il frate Minore dell’Osservanza Bernardino da Siena († 1444) e i suoi seguaci e imitatori, tra cui spiccano i nomi di Giovanni da Capestrano († 1456), a Giacomo della Marca († 1476) e Roberto da Lecce († 1495).

La restaurazione religiosa ed ecclesiastica, che ebbe luogo in Italia dopo la conclusione del grande scisma d’Occidente (1378-1417), e il consolidamento del potere papale negli Stati della Chiesa ebbero tra i protagonisti predicatori dei diversi Ordini mendicanti, al cui interno si erano affermati movimenti di riforma per l’osservanza della regola. Anche per effetto di una semplificazione della retorica del sermo modernus, essi divennero estremamente popolari, esercitando una grande influenza: cui non furono insensibili i poteri cittadini e statuali, che sovente a essi fecero ricorso per supportare le proprie iniziative. Significativo fu l’impegno di molti predicatori dell’Osservanza minoritica, come Bernardino da Feltre († 1494), nell’appoggiare e nel promuovere l’erezione di un’istituzione di credito su pegno, i Monti di Pietà (e nella costituzione di confraternite laicali che ne supportassero il finanziamento). Ciò peraltro comportò nella predicazione alcune intonazioni decisamente antiebraiche, in particolare in relazione al presunto martirio di un bambino, Simone di Trento (†1475). La predicazione degli Osservanti assicurava inoltre il perseguimento di un conformismo religioso dalle forti valenze civiche.

La portata politica della predicazione tardo medievale ebbe un epilogo singolare nella vicenda fiorentina di cui fu protagonista Girolamo Savonarola, prima di essere giustiziato nel 1498. Il frate domenicano ferrarese fece ampio ricorso alla stampa a caratteri mobili per diffondere il contenuto delle proprie prediche, “riportate” da un fervido seguace (la pratica della reportatio, attestata sin dagli inizi del secolo XIV per le prediche del domenicano Giordano da Pisa, si era affermata a un secolo di distanza con il domenicano aragonese Vicent Ferrer [† 1419], e con Bernardino da Siena).  Sin dall’introduzione in Italia dell’ars artificialiter scribendi alcuni frati vi avevano già fatto ricorso per diffondere il testo dei loro sermoni.

L’instabilità politica e militare, a partire dall’ultimo decennio del secolo XV e sino all’affermazione del predominio spagnolo durante i primi decenni del secolo XVI, favorirono la presenza di numerosi predicatori irregolari, la cui predicazione profetico-apocalittica si richiamava all’esempio savonaroliano, salvo incorrere nelle severe sanzioni delle autorità ecclesiastiche e del potere civile. Tra di essi si confuse anche frate Matteo da Bascio, agli inizi della riforma cappuccina.

Dopo quel periodo si mischiarono profondamente, in un diffuso richiamo a una predicazione a fondamento evangelico, spinte al rinnovamento religioso e infiltrazione delle “idee d’Oltralpe”, dopo le prime prese di posizione pubbliche di un frate agostiniano della provincia di Sassonia, Martin Lutero. Non valsero a fermare i predicatori sospetti le norme adottate (ad esempio dal V Concilio Lateranense nel 1517) per reprimere gli epigoni di Girolamo Savonarola. Con l’istituzione del S. Ufficio dell’Inquisizione nel 1542 si arrivò a un forzato chiarimento, che indusse molti predicatori dei diversi Ordini, che dal pulpito avevano propugnato le nuove idee, a rientrare forzatamente nei ranghi oppure a emigrare rapidamente: Bernardino Ochino da Siena, esponente di spicco del nuovo ramo riformato all’interno del francescanesimo, i Cappuccini, e più rinomato predicatore dell’epoca, lasciò in quello stesso anno l’Italia, perché accusato di aver trasformato una predicazione evangelica incentrata sul Cristo in una coperta diffusione di dottrine ritenute eretiche.

Nel corso del secolo XVI si verificò un generale mutamento nell’ambito degli Ordini religiosi, in cui al rinnovamento di istituzioni secolari si era aggiunto il diffondersi di una nuova forma istituzionale, le congregazioni di chierici regolari, come Gesuiti, Barnabiti, Teatini, Somaschi ed Oratoriani. Coinvolti nel ministero della predicazione in quanto sacerdoti, almeno in una fase iniziale essi non lo considerarono un proprio compito primario. Nel periodo successivo alla conclusione del Concilio di Trento (1545-1563) la prospettiva di una predicazione ordinaria del clero curato, affacciata già dal vescovo di Verona, Gian Matteo Giberti († 1543), e sulla sua scia dal cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo († 1584), non trovò significativa attuazione per l’inadeguata preparazione dei sacerdoti. I protagonisti della predicazione a partire dalla fine del Cinquecento furono di conseguenza innumerevoli religiosi dei diversi Ordini, come il francescano conventuale Cornelio Musso († 1574), il francescano osservante Francesco Panigarola († 1594), il cappuccino Mattia Bellintani da Salò († 1611). La pubblicazione a stampa dei loro sermonari in lingua italiana aprì la strada a una contaminazione fra oratoria sacra e letteratura, che caratterizzò per l’intero Seicento la predicazione “a concetti”, soprattutto per personaggi come il cappuccino Emanuele Orchi († 1649) e i gesuiti Luigi Giuglaris († 1653), Emanuele Tesauro († 1675), Daniello Bartoli († 1685).

Tra la fine del Cinquecento e ben oltre la metà del Settecento alcuni ordini religiosi, in particolare Cappuccini e Gesuiti, e poi Passionisti e Redentoristi, si impegnarono nelle missionari popolari, vale a dire cicli straordinari di predicazione rivolti inizialmente a combattere la diffusione delle dottrine eterodosse e le credenze superstiziose: indirizzati soprattutto alle popolazioni rurali, e più tardi estesi anche ai centri urbani. Figure emblematiche furono il gesuita Paolo Segneri († 1694) e il francescano Leonardo da Porto Maurizio († 1751).

Nel corso del Settecento la critica contro una predicazione artificiosa si fece particolarmente serrata, in particolare tra gli esponenti del cattolicesimo riformatore, come il prelato modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Verso la fine del secolo, nel contesto degli interventi dei governi riformatori degli stati italiani nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche e degli ordini regolari, si assistette alla riproposizione di un ruolo primario della predicazione parrocchiale, da parte di Scipione de’ Ricci, vescovo di Pistoia e Prato dal 1780 al 1791, e del sinodo giansenista di Pistoia del 1786.

A partire dagli ultimi anni del secolo XVIII, l’arrivo in Italia delle armate francesi sull’onda della Rivoluzione del 1789, con l’instaurazione dei regimi repubblicani prima e del potere napoleonico poi, portarono a una massiccia soppressione degli Ordini religiosi, di portata assai più ampia rispetto agli effetti delle disposizioni dei governi riformatori nei diversi Stati durante quel secolo, mettendone in discussione la tradizionale attività di predicazione. Nel corso della Restaurazione succeduta alla caduta del regime napoleonico nel 1814 molti predicatori non rientrarono nei rispettivi Ordini e rimasero nei ranghi del clero secolare, dove erano nel frattempo confluiti. Ripresero la propria attività ordini come Cappuccini, Gesuiti, Preti della Missione e Passionisti, ma ne sorsero anche nuovi, come nel 1815 i Missionari del Preziosissimo Sangue di Gaspare Del Bufalo († 1837). La prima metà dell’Ottocento fu il periodo di maggiore vigore ed efficacia della missioni popolari, significativamente configuratesi come missioni parrocchiali.

Per fronteggiare la crescente secolarizzazione della società, in particolare urbana, nel frattempo sorsero congregazioni sacerdotali in ambito locale, come gli Oblati di Maria Vergine di Pio Brunone Lanteri (†1830) in Piemonte. A queste associazioni di sacerdoti diocesani si dovette un crescente intervento nella predicazione ordinaria e straordinaria, anche perché, nella prospettiva di dare attuazione alle disposizioni del Concilio di Trento, sia le lettere pastorali dei vescovi e gli statuti sinodali sia le encicliche papali e le disposizioni delle congregazioni romane ribadirono il dovere dei parroci di spiegare il Vangelo durante la predica nel corso della messa festiva. Nei seminari si istituirono di conseguenza insegnamenti di eloquenza, nell’ambito della teologia morale pratica. Nella predicazione si tendeva peraltro a privilegiare la forma, come dimostravano i numerosi trattati che furono pubblicati. Un particolare successo in Italia ebbero le Lezioni di eloquenza sacra del sacerdote Guglielmo Audisio, stampate a Torino nel 1842 (con almeno otto edizioni fino al 1882).

Fonti e Bibl. essenziale

C. Delcorno, La predicazione nell’età comunale, Sansoni, Firenze, 1974; R. Rusconi Predicazione e vita religiosa nella società italiana da Carlo Magno alla Controriforma, Loescher, Torino, 1981; R. Rusconi, Predicatori e predicazione, in Annali della Storia d’Italia, IV: Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino, 1981, pp. 951-1035; AA.VV., Predicazione, in Dizionario degli istituti di perfezione, VII (1983), coll. 513-550; C. Casagrande – S. Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1987; La predicazione dei frati dalla metà del ‘200 alla fine del ‘300. Atti del XXII Convegno della Società internazionale di studi francescani, CISAM, Spoleto, 1995; La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento (Atti del X Convegno di Studio dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa. Napoli, 6-9 settembre 1994), Edizioni Dehoniane, Roma, 1996; Missioni Popolari, Predicabili, Predicazione (…), in M. Sodi – A. M. Triacca (edd.), Dizionario di omiletica, Elle Di Ci, Leumann (Torino) – Velar, Gorle (Bergamo), 1998, pp. 961-972, 1159-1177, 1201-1246; L. Pellegrini, I manoscritti dei predicatori. I domenicani dell’Italia mediana e i codici della loro predicazione (secc. XIII – XV ), Istituto storico domenicano, Roma, 1999; A. Rigon, Dal Libro alla folla. Antonio di Padova e il francescanesimo medievale, Viella, Roma, 2002; G. Auzzas – G. Baffetti – C. Delcorno (edd.), Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI, L. S. Olschki, Firenze, 2003; M. G. Muzzarelli, Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del Medioevo, Il mulino, Bologna, 2005; C. Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, a cura di G. Baffetti et alii, L. S. Olschki, Firenze, 2009; M. L. Doglio – C. Delcorno (edd.), La predicazione nel Seicento, Il mulino, Bologna, 2009; A. Turchini, Parole di Dio, parroci e popolo. Prove di predicazione del clero lombardo (in collaborazione con E. Marchetti), Il ponte vecchio, Cesena, 2011; M. L. Doglio – C. Delcorno (edd.), Predicare nel Seicento, Il mulino, Bologna, 2011; R. Rusconi, Immagini dei predicatori e della predicazione in Italia alla fine del Medioevo, CISAM, Spoleto 2016; P. Delcorno, Late Medieval Preaching, in P.E. Szarmach (ed.), Oxford Bibliographies in Medieval Studies. Oxford Bibliographies. Oxford University Press , New York (NY), 2017.

Immagini:

Sano di Pietro, Bernardino da Siena predica nella Piazza del Campo


LEMMARIO




Probabilismo - vol. I


Autore: Amarante Alfonso
  1. I primordi del probabilismo

Il Probabilismo è un sistema morale codificato come tale solo nel XVI secolo dal domenicano Bartolomé de Medina (1527-1580), uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “scuola teologica di Salamanca e della seconda scolastica”.

Per capire cosa è il probabilismo e come si diffuse in teologia morale, attraverso la casistica, bisogna puntualizzare alcuni concetti.

Il problema della coscienza rettamente formata, e come essa debba comportarsi davanti al dubbio di liceità di un’azione, è presente come questione teologica dagli albori della Chiesa. Ad esempio su tale tema i padri della chiesa più che offrire una riflessione speculativa e sistematica, hanno indicato sempre soluzioni riferite a casi particolari.

San Tommaso (ca 1225-1274) cerca di puntualizzarne i termini e scrive «Nullus enim ligatur ad aliqua faciendum nisi aliqua lege. Sed homo non facit sibi ipsi legem. Ergo, cum conscientia sit ex actu hominis, conscientia non ligat». (De Veritate, 17, 3, 1). Tommaso sostiene che nessun uomo è vincolato moralmente da una legge se non ne ha conoscenza.

Nel periodo medievale, specialmente con la scolastica, si inizia a porre in modo sistemico la domanda intorno alla questione della formazione della coscienza, e quindi del suo agire, davanti a un dubbio. La soluzione che i teologici scolastici propongono può essere così riassunta: nel dubbio stretto o davanti ad un’opinione poco probabile non è lecito agire perché si è esposti al peccato.

La maggior parte delle soluzioni che vengono offerte dai teologici del XIV e XV secolo rimandano ai principi tuzioristi. La conoscenza probabile nell’azione deve corrispondere alla conoscenza scientifica. In questo senso, probabile non è altro che “la certezza pratica nelle cose contingenti e non necessarie”.

Per le cose necessarie la verità deve essere certa. La verità in materia contingente deve essere retta da un’opinione probabile nelle argomentazioni. Questo discorso entra in crisi quando la coscienza davanti a un dubbio non sa a cosa deve aderire perché la verità speculativa non è chiara. Per uscire dall’impasse, i teologici medievali proposero che davanti ad una situazione dubbiosa bisognava sempre scegliere l’opinione più severa in quanto oggettivamente più sicura dell’opinione opposta.

  1. La nascita ufficiale del probabilismo

Presso l’università di Salamanca, uno dei grandi centri della riflessione pre e post tridentina, si diede nuovo impulso alla scolastica tomista per offrire risposte al nuovo ordine sociale ed economico che si andava configurando in seguito alla scoperta del continente americano e al grande evento ecclesiale del Concilio di Trento (1545-1563). Il probabilismo come sistema morale, così come oggi è conosciuto, nasce in questa università grazie ad alcuni grandi maestri come Francisco de Vitoria (c. 1483-1546), Melchior Cano (1509-1560) e Domingo de Soto (1494-1560). Prima che il de Medina formulasse il principio del “probabilismo”, già altri docenti di questa università insegnavano la probabilità positiva. Essi sostenevano comunemente che davanti a due opinioni probabili si poteva scegliere quella che si voleva. Ma nel caso di giudizio in cui fosse coinvolta una terza persona si doveva scegliere la sentenza più probabile.

Nella diciannovesima questione della sua Expositiones in primam secundae Divi Thomae (1577), B. de Medina affronta il problema se la coscienza erronea obbliga oppure no. Nella stessa, egli discute anche il problema del dubbio della coscienza. Medina arriva ad una distinzione tra l’incertezza speculativa e quella pratica. Se si dubita speculativamente su qualcosa, non è automatico che si sbagli in una situazione di decisione pratica.

Il modo di Medina di presentare la questione, in quest’opera, è nuova. Egli perviene ad una sostanziale distinzione tra due modi di costruire le opinioni morali: 1. quelle che sono probabili; 2. e quelle che sono improbabili.

Riferendosi ad Aristotele, Medina stabilisce che le opinioni probabili sono quelle confermate da molti argomenti come anche dall’autorità della prudenza. Le opinioni improbabili trovano il supporto degli argomenti e delle autorità. Formula il principio del probabilismo in questi termini “Mi sembra che se un’opinione è probabile, allora, ad uno è permesso di seguire questa opinione anche se l’opposta è più probabile”.

Il primo argomento di Medina a favore di questo punto di vista è che, poiché ci è concesso di seguire le opinioni probabili a livello speculativo senza pericolo di errore, possiamo seguire le opinioni probabili a livello pratico senza il pericolo di peccare.

Il secondo argomento è che la nozione di opinione probabile implica che un’opinione probabile potrebbe essere seguita senza rimprovero. Utilizza il concetto di opinione probabile come sinonimo di opinione approvabile da parte delle autorità qualificate.

Il terzo argomento di Medina ha qualche somiglianza con il secondo. Dichiara che, nel seguire un’opinione probabile, nessuno è compromesso con il peccato perché un’opinione probabile è in accordo sia con la retta ragione sia con l’opinione degli uomini prudenti. Se un’opinione particolare è contro ragione allora, per definizione, essa non rappresenta un’opinione probabile.

Dopo questa premessa, de Medina cerca di rispondere a due questioni: 1. È peccato agire contro la coscienza dubbia? 2. È lecito agire contro la propria opinione?

La coscienza dubbia è quella che non ha né assenso, né dissenso, ma rimane nel dubbio (q. 19, a.6, ad.4).

In questo caso, egli si chiede: come dobbiamo agire nel dubbio grave? A tale domanda offre una serie di argomentazioni teologiche che scaturiscono dalla recta ratio per giungere ad affermare che nel dubbio si deve giudicare sempre secondo sicurezza.

Allo stesso tempo Medina si domanda se è lecito agire contro la propria opinione. Afferma che l’opinione probabile è l’opinione confermata da grandi ragioni e dall’autorità degli studiosi. Di conseguenza se l’opinione è probabile, è lecito seguirla, anche lasciando la propria opinione che potrebbe essere più sicura. Questo suo ragionamento lo porta ad affermare che “L’opinione probabile è quella che possiamo seguire senza pericolo di errore e di inganno”. La condizioni necessaria per stabilire una opinione come probabile, è che si abbiano buone ragioni e argomenti e che questi siano difesi dai maestri saggi.

Il probabilismo formulato in questo modo sembrava capace di rispondere con certezza alla sua domanda di partenza. In realtà la speculazione teologica segnalò nel corso dei secoli alcuni limiti. Ad esempio l’accontentarsi della sola opinione probabile apriva al lassismo più bieco facendolo diventare vero sistema morale per giustificare l’ingiustificabile.

Gli stessi domenicani contrapposero al probabilismo il probabiliorismo. Questo sistema morale sostiene che si può seguire l’opinione favorevole alla libertà solo nel caso in cui questa opinione sia sicuramente “più” probabile dell’opinione favorevole alla legge.

  1. La discussione sul probabilismo

Se fin qui si era nel campo della speculazione teologica, ben presto il probabilismo – come altri sistemi morali nati per indicare soluzioni davanti a situazioni dubbiose –, venne applicato nella pratica pastorale e particolarmente nel campo del sacramento della riconciliazione.

Per tutto il medioevo il peccato corrispondeva – secondo la definizione di sant’Agostino – ad ogni azione, parola o desiderio contro la legge eterna. Con l’affermarsi del concetto di coscienza individuale – chiamata a rispondere nella complessità della vita in fedeltà alla norma morale –, la soluzione offerta da Medina non rendeva schiavi del più sicuro davanti al dubbio ma lasciava delle possibilità di poter scegliere diversamente grazie a delle opinioni probabili sostenute da teologi dotti. Ai probabilisti interessa riaffermare che la libertà è il bene proprio ed originario dell’uomo. L’uomo è creato libero, pertanto gode del “principio del possesso” che difende la libertà davanti ad una norma non chiara. In pratica questo nuovo modo di porre questioni delicate di morale, svincolava i fedeli da norme non scritte, su costumi o riti tipici del medioevo o dell’età moderna. All’improvviso l’uomo faceva l’esperienza di autodeterminarsi in tante piccole scelte quotidiane che fino ad allora erano vincolate da norme universali non scritte ma seguite da tutti.

Questo nuovo modo di usare in teologia morale il concetto di opinione probabile portò alla raccolta delle tesi e dei “casi di coscienza”, proposti dai teologici probabilisti, che diventarono un vademecum da applicare durante la celebrazione del sacramento della riconciliazione.

Il probabilismo, però, apriva a vari problemi di carattere teologico che poi si riversarono nella pratica pastorale. Il principale problema era il rapporto tra legge e coscienza. Secondo gli autori probabilisti, fedeli all’occamismo, la legge è estrinseca all’uomo. È adesione alla volontà di Dio che comanda all’uomo di fare questo o evitare quello. Tommaso d’Aquino invece aveva insegnato che la legge è un comandamento della ragione e quindi interiore.

I probabilisti, esasperando l’aspetto della norma estrinseca, riportarono la morale nel campo del legalismo o dell’obbligo. La norma doveva vietare o acconsentire una determinata azione. Davanti al dubbio di legge, la coscienza poteva agire come credeva più opportuno.

La reazione più violenta al probabilismo venne dagli ambienti giansenisti che caddero ben presto nel rigorismo più assoluto. Ricercando sempre il più sicuro, portano le coscienze verso l’esasperazione della legge. Il bene da solo non bastava se non era perfetto.

Il probabilismo venne corretto da Alfonso de Liguori (1697-1787) con il suo sistema detto equiprobabilista. Alfonso assunse il principio del possesso per affermare che davanti a due opinioni probabili, ma opposte, la coscienza è obbligata solo davanti ad una legge certa. La legge cessa di vincolare solo nel momento in cui si è alla presenza di un’opinione più probabile e in favore della libertà. Il sistema alfonsiano sistema si regge su tre principi: sulla ricerca costante della verità, sul primato della coscienza e le esigenze della libertà.

L’Equiprobabilismo, così come lo conosciamo oggi, venne formulato dai redentoristi intorno al 1870 dopo una lunga disputa con il gesuita Antonio Ballerini (1805-1881) il quale accusava il de Liguori di seguire il probabilismo semplice.

Conclusione

Il probabilismo come sistema morale ha formato intere generazioni di sacerdoti attraverso le Institutiones morales. Con il rinnovamento proposto dalla scuola di Tubinga questi manuali iniziarono ad andare in crisi per scomparire quasi del tutto alla vigilia del Concilio Vaticano II.

Il successo del probabilismo, e quindi della casistica e dei sistemi morali, più in generale, è dovuto certamente all’imporsi dell’individualismo tipico dell’era moderna. Mentre il medioevo aveva proposto l’ideale dell’unità organica, finalizzato al bene comune della cristianità, con il Rinascimento si è esalto l’individuo estrapolandolo come centro del proprio agire, senza riferimento all’altro. Dal teocentrismo siamo passati all’individualismo. Questa svolta era stata preparata dall’impostazione nominalistica operata da Gugliemo da Ockham (1285-1347). Nella sua teoria, negando la realtà dell’universale, ha messo al centro il solo individuo. Di conseguenza la morale ha posto la sua attenzione sulla sola coscienza individuale e sugli atti singoli.

Il Concilio di Trento aveva affidato al clero la cura particolare del sacramento della penitenza come formazione e controllo delle coscienze. Esaltando la coscienza individuale, tutta la morale si è concentrata sulla casistica e sui sistemi morali per rispondere a problemi individuali e non connessi con la coscienza comunitaria.

Il probabilismo in questo modo ha facilitato la casistica rendendo il sacramento della confessione una pura tecnica dove il penitente si accusava e il sacerdote come giudice era chiamato ad assolvere o punire. Tutto ciò ha portato la morale cattolica a non sapere rispondere nel XIX secolo ai nuovi problemi agitati dall’industrializzazione e dalla nascita del nuovo senso sociale.

Fonti e Bibl. essenziale

A. V. Amarante, «Probabilismo, attrizionismo e contrizionismo» in Chiesa e Storia 1 (2011), 239-258; Id. «Prudenza e prudenzialità in sant’Alfonso» in Studia Moralia 43 (2005) 2, 469-492; J. M. Aubert «Probabilisme» in Catholicisme hier aujourd’hui demain. Encyclopédie publiéee sous la patrogne de l’Instiuti catholique de Lille, vol. XI, Letouzey et Ané, Paris 1988, 1064-1076; Th. Deman, «Probabilisme» in Dictionnaire de théologie catholique contenant l’exposé des doctrines de la théologie catholique leurs preuves et leur histoire, vol. 3, Letouzey et Ané, Paris 1936, 417-619; J. Delumeau, La confessione e il perdono, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992; R. Gerardi, Storia della Morale, EDB, Bologna 2003; B. Petrà, «Teologia morale», in La teologia del XX secolo. Un bilancio, III, G. Canobbio – P. Coda (edd.), Città Nuova, Roma 2003, 97-193; S. Pinkaers, Le fonti della morale cristiana: metodo, contenuto, storia, Ed. Ares, Milano 1985. L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockham a S. Alfonso de Liguori, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1990; M. Vidal, Historia de la teologia moral. De Trento al Vaticano II. Tomo 1: Crisis de la razón y rigorismo moral en el Barroco (s. XVII), Ed. Perpetuo Socorro, Madrid 2014; Id., Historia de la teologia moral. De Trento al Vaticano II. Tomo 2: El siglo de la Illustracón y la moral católica (s. XVIII), Ed. Perpetuo Socorro, Madrid 2017.

LEMMARIO




Proprietà ecclesiastica - vol. I


Autore: Fiorenzo Landi

All’inizio del ’200 il canonico Guglielmo di Sant’Amore sintetizzò con particolare efficacia quale era la funzione della proprietà ecclesiastica: la Chiesa non è fondata, se non è dotata. In altri termini la Chiesa ha bisogno di risorse economiche senza le quali mancano le fondamenta della sua presenza nella società. Quindi l’esigenza di risorse economiche particolarmente rilevanti è legata a una delle caratteristiche peculiari della strategia pastorale della chiesa cattolica incentrata sulla creazione di una fitta rete territoriale di istituzioni finalizzate all’esercizio delle attività di culto, al proselitismo, al disciplinamento e al controllo sociale. Per questo il significato della proprietà non si esaurisce sul piano puramente economico ma coinvolge nella forma e nella sostanza la quantità e la qualità dei “servizi” erogati e la tipologia dell’esperienza religiosa che viene proposta.

Nel corso dei secoli il clero secolare, il clero regolare e le altre istituzioni ecclesiastiche in un processo di stratificazione progressiva hanno realizzato sul territorio una delle più complesse e articolate costruzioni istituzionali della storia moderna, differenziata per obiettivi specifici, ma unitaria nello sforzo comune di sostegno e di affermazione della propria missione pastorale in una dialettica continua con le istituzioni laiche. Il territorio italiano in questo contesto ha almeno due particolarità: la prima è costituita dalla presenza del papato e di uno Stato della Chiesa, la seconda dal frazionamento in numerosi Stati, ognuno dei quali si distingue anche per la posizione specifica nei confronti della Chiesa.

In generale la proprietà ecclesiastica aveva la funzione di produrre una rendita che doveva consentire il mantenimento del personale religioso nello svolgimento delle sue funzioni. In questo modo le istituzioni del clero secolare e regolare dovevano farsi carico del reperimento delle risorse che servivano al loro funzionamento. Il clero regolare è la componente che ha assorbito maggiori risorse patrimoniali e che ha sperimentato le strategie patrimoniali più complesse e variegate in virtù delle sua particolari forme di diffusione e di insediamento.

Dalle origini fino alla metà dell’Ottocento si possono individuare almeno tre fasi evolutive che corrispondono all’affermazione di differenti concezioni del ruolo dei regolari all’interno della Chiesa e della società.

La prima fase vede come protagonisti gli ordini monastici tradizionali che si prefiggono come compito quello di fornire esempi di perfezione religiosa da proporre come modello alla società laica. Dal punto di vista del funzionamento economico i monasteri e le abbazie che accolgono i monaci hanno come elemento comune una dotazione iniziale che serve per la costruzione degli edifici e la creazione di un’entrata annuale. I beni di prima erezione sono in genere donati da imperatori, sovrani e nobili. In base alla rendita che consentono, si individua un costo procapite di mantenimento che determina il numero dei religiosi prefissati. In questo caso l’unica fonte di rendita è costituita dal patrimonio e il modello economico di funzionamento è molto statico.

Ciononostante esistono diverse possibilità di intervenire per correggere eventuali squilibri. In caso di crisi economiche si può ridurre il numero dei religiosi presenti coprendo solo una parte dei posti prefissati. In questo modo, stabilmente o limitatamente allo stato di necessità, diminuisce l’entità della rendita di funzionamento in proporzione della entità della riduzione dei membri della famiglia dei religiosi. In secondo luogo si possono fare investimenti orientati a rendere temporaneamente più produttivi beni sottoutilizzati: ad esempio si possono bonificare aree soggette a disordini idraulici, oppure disboscare e appoderare aree boschive.

Infine, a partire dal ’500, con l’istituzione di congregazioni che raccolgono e coordinano l’attività di monasteri e di abbazie appartenenti a una stessa famiglia, come ad esempio i Cassinesi o i Camaldolesi, si possono creare meccanismi di compensazione che consentono alle strutture in difficoltà di superare periodi congiunturali negativi o eventi traumatici di carattere bellico, attraverso prestiti di denaro o accensione di piani di accumulo.

In questo modo i monasteri e le abbazie hanno una vita lunghissima che viene generalmente interrotta solo da confische e soppressioni. Il modello economico di funzionamento garantisce una sopravvivenza senza particolari difficoltà anche in considerazione della dimensione mediamente molto vasta della ricchezza patrimoniale. Nell’economia preindustriale la dimensione dei beni immobili è un requisito di particolare stabilità soprattutto perché lo sfruttamento effettivo ha margini elevati di ampliamento che vengono dilatati solo in caso di necessità.

Nella sottoutilizzazione delle potenzialità patrimoniali e nei rapporti di solidarietà tra istituzioni della stessa congregazione sta il limite dinamico della gestione economica degli ordini tradizionali. I beni sono ben gestiti e la solidarietà tra i monasteri consente di superare le difficoltà contingenti, ma da una parte l’obbligo di ricambiare l’aiuto e dall’altro il ricorso a interventi di potenziamento della rendita solo in caso di emergenza non produce accumulazione se non finalizzata all’accrescimento dei membri della famiglia dei religiosi che comporta evidentemente l’assorbimento delle quote di rendita eccedenti.

Il tipo di esperienza religiosa che è legato a questa modalità economica e organizzativa ha soprattutto la funzione di proporre un modello di perfezione che dovrebbe servire alla società nel suo complesso per seguire un percorso elitario di elevazione spirituale.

Agli inizi del ’200, quando il modello economico fondato sulla rendita patrimoniale dei beni di prima erezione ha perso gran parte del suo slancio, si afferma una nuova strategia di funzionamento economico legata agli ordini mendicanti. In questo caso l’avvio dell’iniziativa di fondazione prescinde da un patrimonio iniziale e dalla rendita conseguente per affidarsi alla ricerca della carità quotidiana. I frutti dell’elemosina devono servire per i bisogni essenziali dei religiosi e, in caso di un’eccedenza rispetto a tali bisogni , devono essere re-distribuiti ai poveri.

In base a questa strategia si ipotizza una “rendita” senza patrimonio frutto della carità dei fedeli che ha una sua logica funzionale in due direzioni: da una parte si inserisce all’interno del mondo dell’autoconsumo e dello scambio in natura e dall’altro funziona come uno strumento di redistribuzione delle risorse. Nel dualismo della società preindustriale esistono due mondi paralleli, quello dell’autoconsumo e dello scambio in natura e quello del mercato e del denaro che ha un ruolo dominante. Gli ordini mendicanti si collocano nell’area della povertà e dell’autoconsumo con una funzione particolarmente importante dal punto di vista sia sociale sia religiosa. Essi, infatti, assorbono attraverso la cerca il superfluo di cui il donatore si priva, ne utilizzano una parte per il funzionamento del convento e re-distribuiscono quanto resta per aiutare chi non ha il necessario per vivere. Questa funzione di cerniera e di riequilibrio delle risorse assume un ruolo particolarmente rilevante sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista dell’esperienza religiosa,che da esempio elitario di perfezione diventa fenomeno di massa vissuto collettivamente a contatto diretto con i fedeli .

Per la rapidità e l’entità della diffusione gli ordini mendicanti in pochi decenni diventano la componente quantitativamente di gran lunga dominante del clero regolare.

I Francescani e i Domenicani, i Carmelitani scalzi e gli Agostiniani scalzi iniziano la loro attività quasi contemporaneamente e partono con lo stesso obiettivo: quello della povertà non solo individuale, ma anche collettiva. Ma la loro evoluzione li trasforma progressivamente in una alternanza tra adattamenti e radicalizzazione della regola che caratterizza soprattutto la componente francescana.

Il punto cruciale sul quale avviene il cambiamento è costituito dal concetto stesso di elemosina. Essa consiste in un atto solidale senza contropartita, asimmetrico rispetto al dono che caratterizza le società primitive. Nelle società primitive, infatti, il dono tra i protagonisti dello scambio implica reciprocità sia pure differita nel tempo e diversa nei contenuti. Nel caso dell’elemosina, invece, il donatore concede il suo contributo in nome della carità cristiana, per essere ricompensato da Dio e non dal beneficiario.

Ma l’elemosina facilmente può assumere dimensioni e caratteri che ne modificano le implicazioni: invece di ottenere un pezzo di pane, si può ricevere un sacco di grano, oppure un appezzamento di terra che produce dieci sacchi di grano. È vero che l’obbligo morale imporrebbe sempre e in ogni caso di re-distribuire ai poveri tutto ciò che eccede i bisogni minimi del convento, ma la donazione di terre o di edifici non si presta a una redistribuzione immediata. In questo modo diventa un patrimonio che può produrre rendita per i poveri, ma il passaggio non è più diretto e immediato e snatura il senso della scelta iniziale di povertà assoluta. Così dal punto di vista della proprietà il convento rischia di assomigliare sempre di più ai monasteri che vivono della rendita patrimoniale e paradossalmente le potenzialità di arricchimento possono anche diventare maggiori ,perché si sommano insieme le forme di patrimonializzazione tradizionale con i proventi di una ricerca di pubblica carità.

A questo punto chi ha fatto la scelta drastica e irrevocabile della povertà assoluta , si stacca dal proprio ordine e rilancia l’ iniziativa osservante come accade – ad esempio – per i Cappuccini, mentre i Francescani osservanti si adeguano al compromesso tra esigenze di povertà e gestione delle rendite.

Quello che in ogni caso merita di essere sottolineato è che , così come i mendicanti si sono aggiunti agli ordini monastici tradizionali e non si sono sostituiti ad essi, allo stesso modo i mendicanti conventuali e quelli osservanti non si avvicendano, ma si sommano allargando la loro presenza e assorbendo sempre maggiori risorse.

Con il concilio di Trento e la Controriforma si verifica un’altra ondata di insediamenti di regolari. Si tratta dei Chierici Regolari, una variante rispetto ai monaci tradizionali e ai frati mendicanti, che si caratterizza per la mancanza di una regola vera e propria, sostituita da una formula vitae, cioè da una serie di norme di comportamento e di vita comune che in particolare non comportano coabitazione e abito distintivo.

Questi nuovi ordini, finalizzati in primo luogo a contrastare la Riforma protestante e a promuovere l’educazione scolastica godono di una particolare autonomia operativa dal punto di vista economico che consente loro di mettere a frutto la lunga tradizione gestionale di monasteri e conventi. In particolare i Gesuiti apportano nell’acquisizione, nella gestione e nella valorizzazione di patrimoni e rendite una nuova attitudine orientata in modo speciale verso l’aspetto finanziario .Nella loro disponibilità patrimoniale e di rendita le somme in denaro sono particolarmente elevate e vengono utilizzate in maniera molto più dinamica con uso di strumenti del credito e una velocità di riallocazione delle risorse fino ad allora sconosciuta.

Dal punto di vista dell’esperienza religiosa i chierici regolari introducono ulteriori elementi di coinvolgimento collettivo con un’attenzione particolare alla spettacolarizzazione, e alla catechizzazione di massa attraverso le missioni e le scuole .

Ognuno degli ordini e delle congregazioni era nato per rispondere a bisogni specifici di carattere pastorale, assistenziale, sociale, culturale e aveva coniugato la sua specializzazione con una o più delle strategie economiche finalizzate al reperimento delle risorse necessarie al proprio funzionamento. All’interno della società questa rete di insediamenti era diventata uno dei pilastri della stabilità d’antico regime , perché orientata a una funzione caritativa e assistenziale generatrice di obblighi e, pertanto,efficace strumento di controllo sociale oltre che religioso. In positivo la fitta rete dei Regolari, integrata da quella delle parrocchie e delle confraternite, era il fondamento di una coesione sociale e un tipo di religiosità vissuta collettivamente. In negativo la proprietà inalienabile e diffusa dei religiosi trasferiva anche sul piano economico gli stessi effetti di stabilità e di immobilismo.

La causa era legata prevalentemente alla natura del possesso e in speciale modo alla sua dimensione .Per quanto riguarda il primo aspetto, trattandosi di beni finalizzati a particolari funzioni religiose e sociali, godevano di privilegi fiscali e soprattutto erano inalienabili. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il processo plurisecolare di stratificazione aveva dilatato la dimensione soprattutto della proprietà fondiaria fino a raggiungere livelli locali talmente vistosi da diventare oggetto di polemica e di scandalo.

La quantificazione dei beni posseduti dalla Chiesa in Italia nella seconda metà del settecento , quando inizia il processo di confisca, è impossibile da definire con precisione sia in termini assoluti che in termini relativi. Infatti non si può calcolare il significato economico della proprietà immobiliare, che costituiva il settore patrimoniale assolutamente dominante , in termini di pura e semplice estensione , perché il valore effettivo dipendeva evidentemente dalla qualità dei beni, piuttosto che dalla loro quantità. In secondo luogo il contesto polemico all’interno del quale avvennero le soppressioni toglie gran parte del significato alle valutazioni dei contemporanei sui quali si sono basate generalmente le valutazioni storiografiche.

In termini di larga approssimazione e sottolineando l’esistenza di differenze sostanziali a seconda degli Stati e delle aree regionali, possiamo comunque ricavare dai dati emersi dalle ricerche locali un ordine di grandezza dell’incidenza media relativa della proprietà ecclesiastica dell’ordine di almeno un 10-15 per cento del totale che , però, non esclude concentrazioni molto più elevate nelle aree soprattutto urbane ad alta densità demografica. Si tratta di una valutazione di molto inferiore a quella prodotta dalle polemiche del periodo illuminista, ma in ogni caso dal significato economico rilevante soprattutto in ragione della quantità elevata di diritti d’uso aggiuntivi goduti dagli enti ecclesiastici su beni di uso comune, che si sommano alla proprietà esclusiva, e soprattutto grazie della qualità degli edifici posseduti.

Fonti e Bibl. essenziale

Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi sulla proprietà ecclesiastica soprattutto per quanto riguarda il clero regolare. In questa sede ci limitiamo a segnalare i contributi di carattere generale che possono essere utilizzati per ogni eventuale ulteriore approfondimento. Per un orientamento bibliografico: DIP. Dizionario degli Istituti di perfezione religiosa , a cura di G. Pelliccia – G. Rocca, Roma (1974-2003); E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento Milano 1985; Storia d’Italia, Einaudi (1986), Annali , IX, La Chiesa e il potere politico, Torino 1986; F. Landi, Storia economica del clero in Europa (secoli XV-XIX), Roma 2005; M. Rosa, Clero cattolico e società europea, Bari 2006. Per approfondimenti a livello nazionale e regionale: G. Borelli, Aspetti e forma della ricchezza negli enti ecclesiastici e monastici di Verona tra secc. XVI e XVIII, Verona 1980; A. Placanica, La Calabria nell’età moderna , Vol. II, Chiesa e società, Napoli 1988; M. Spedicato, Redditi e patrimoni degli enti ecclesiastici nella Puglia del XVIII secolo , Galatina 1990; F. Landi, Il paradiso dei monaci .Accumulazione e dissoluzione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Roma, 1996; M. Taccolini, L’esenzione oltre il catasto: beni ecclesiastici e politica fiscale dello Stato di Milano nell’età delle Riforme, Milano 1998; G. Poidomani, Gli ordini religiosi nella Sicilia moderna. Patrimonio e rendite nel Seicento, Milano 2001; M. Giannini, L’oro e la tiara :la costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa Sede, 1560-1620, Bologna 2003.


LEMMARIO




Protestantesimo - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Il termine “protestante” è nato alla II Dieta di Spira del 1529, quando gli Stati evangelici elevarono una solenne protesta contro la decisione di imporre un’interpretazione rigida dell’Editto di Worms (1521), sostenuta dalla maggioranza dei principi cattolici con l’intento di bloccare sino a futuro concilio ogni processo di rinnovamento già avviato peraltro nei territori passati alla Riforma.

In Italia il protestantesimo si è diffuso già nel XVI secolo in forme diverse a seconda delle personalità coinvolte, dei luoghi (Repubblica Veneta, Stato di Milano, Napoli, Sicilia, Lucca, ducato di Ferrara, Piemonte, Calabria, Puglia) e delle fasi storiche del suo processo. Qui interessa partire dagli inizi dell’Ottocento quando, dopo il lungo periodo della Controriforma e la fine dell’Ancien Régime (1798), all’isolata presenza dei [→] valdesi nelle valli piemontesi cominciano ad aggiungersi nuovi arrivi: i «Liberi», i «Fratelli», i metodisti, i battisti, i pentecostali; una galassia di chiese che nel «grande Risveglio» e nella lotta patriottica per l’unificazione trovano un’occasione storica per un rilancio missionario in Italia. In effetti, dopo l’epoca dell’Ortodossia, fonte di aspre dispute interne e di un esasperato confessionalismo, e del Puritanesimo di stampo calvinista inglese e americano, e dopo l’ondata di rinnovamento spirituale del Pietismo tedesco e l’opera evangelizzatrice e di “rinascita” portata avanti in Inghilterra dalle «società metodiste», si diffonde tra i protestanti d’Europa e del Nuovo Mondo un movimento di ispirazione pietista tendente a «risvegliare» la testimonianza degli evangelici attraverso una maggior consapevolezza ed entusiasmo verso la fede, la conversione personale e il rinnovamento della vita. Così, in Gran Bretagna nasce e si spande all’interno dell’anglicanesimo la corrente «evangelical», mentre tra i circoli «awakened» si costituisce nel 1804 la British and Foreign Bible Society e nel 1812 la Church Missionary Society per la diffusione della Scrittura e sorgono nuovi movimenti come quello dei «Fratelli di Plymouth», guidato da John Nelson Darby (†1882), e dell’ «Esercito della Salvezza» a sostegno degli emarginati dalla società urbana. Dal «Reveil» svizzero prende vita la «Società degli Amici» ad opera di Ami Bost (†1874) e di Robert Haldane (†1842) in polemica con la “razionalistica” chiesa ufficiale e la Compagnia dei Pastori di Ginevra; inizia altresì la predicazione carismatica di Felix Neff (†1829), capace di coinvolgere nel rinnovamento della vita protestante europea le comunità valdesi delle valli del Pinerolese, e ancora ne rimane profondamente influenzato, seppure con posizione critica, il magistero del grande teologo Alexandre Vinet (†1847), teorico della separazione della chiesa dallo stato ed ispiratore della «chiesa libera» in alternativa a quella di Stato e difensore appassionato della libertà religiosa e della superiorità dell’individuo sulla collettività. In Germania dalla «Erweckung», dominata dalle prestigiose figure del teologo August Tholuk (†1887) e del predicatore guaritore Johann Christoph Blumhardt (†1880), prende slancio il movimento della Missione interna, volta a congiungere evangelizzazione ed azione sociale a favore delle masse povere.

In Italia il «Risveglio», introdotto sostanzialmente da esuli, viene a connettersi profondamente col grande moto risorgimentale, marcando però diversità e rotture tra le varie componenti dell’evangelismo italiano. I membri della «Chiesa libera», militanti fra le truppe garibaldine e politicamente radicali e repubblicani, coltivano un anticlericalismo così acceso da giungere a collaborare con la massoneria del tempo per abbattere la Roma papale. Personaggio di spicco ne è l’ex-barnabita Alessandro Gavazzi (†1889), predicatore appassionato, patriota e più tardi esponente della Sinistra, che propugna una chiesa evangelica nazionale alternativa a quella cattolico-romana e nel 1852 organizza una «Chiesa Cristiana Libera in Italia» con una forma di tipo presbiteriano (ad imitazione della Free Church of Scottland), staccandosi anche per questo dalla «Chiesa dei Fratelli», e destinata a sciogliersi nel 1905 per confluire nelle comunità metodiste. In effetti, gli appartenenti alle «Assemblee dei Fratelli», introdotte dal conte fiorentino Piero Guicciardini (†1886) con una struttura “congregazionalista” sul modello della «Fratellanza di Plymouth» (senza pastori specializzati, ma dove tutti i fedeli possono prendere la parola per formulare preghiere, leggere la bibbia, cantare inni, ecc.) considerano il moto risorgimentale come un’occasione provvidenziale di evangelizzazione dei territori del papa, in attesa della venuta del Regno. E pertanto, pur ritenendosi profondamente italiani, preferiscono rimanere missionari e propagatori della bibbia piuttosto che impegnarsi attivamente nella politica.

Calviniste e Cavouriane sono invece le comunità valdesi, e per questo accusate dai «Fratelli» di scarsa “italianità” e di autoritarismo interno e dai «Liberi» di conservatorismo e legami stretti con lo Stato sabaudo. Dopo le “Lettere Patenti”, concesse da Carlo Alberto nel 1848 col riconoscimento dei diritti civili, i valdesi sull’onda del cammino risorgimentale e sollecitati dagli impulsi evangelizzatori dell’anglicano e «risvegliato» Charles Beckwith (†1863) non solo avviano un’opera di alfabetizzazione capillare (le «scuolette Beckwith») e di rinascita religiosa tra i valligiani, ma allargano la loro presenza al di là delle Valli, abbandonando così una certa connotazione etnico-regionale (la Facoltà teologica nel 1860 viene spostata da Torre Pellice a Firenze e nel 1922 a Roma e nascono in tutta Italia numerose comunità e una fitta rete di scuole), e a partire dalla fine degli anni Cinquanta del XIX secolo si spingono persino oltreoceano, fondando “colonie” e chiese tra le pianure uruguaiane e argentine del Rio de la Plata.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bouchard, Chiese e movimenti evangelici del nostro tempo, Claudiana, Torino 32006; F. Chiarini, Storia delle chiese metodiste in Italia, 1895-1915, Claudiana, Torino 1999; F. Chiarini – L. Giorgi (a cura di), Movimenti evangelici in Italia dall’Unità ad oggi. Studi e ricerche, Claudiana, Torino 1990; F. Ferrario, Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri, in G. Filoramo (a cura di), Cristianesimo, Laterza, Roma 1995, 377-456 (con bibl.); Ferrario-P. Gajewski, Il protestantesimo contemporaneo. Storia e attualità, Carocci, Roma 2007; P. Ricca, Le chiese protestanti, in G. Filoramo – D. Menozzi (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV: L’età contemporanea, Laterza, Roma 1997, 5-128 (con bibl.); U. Gastaldi, I movimenti di risveglio nel mondo protestante. Dal «Great Awakening» ai «revivals» del nostro secolo, Claudiana, Torino 1989; P. Bolognesi (a cura di), Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1996, Edizioni Dehoniane, Bologna 1997; G. Lesignoli, L’Esercito della Salvezza. Una introduzione, Claudiana. Torino 2007; S. Maghenzani – G. Platone (a cura di), Riforma, Risorgimento e Risveglio, Claudiana, Torino 2011; D. Maselli, Storia dei battisti italiani (1873-1923), Claudiana, Torino 2003; D. Maselli, Libertà della Parola. Storia delle chiese cristiane dei Fratelli. 1886-1946, Claudiana, Torino 1978; G. de Meo, Granel di sale. Un secolo di storia della chiesa cristiana avventista del 7° giorno in Italia. 1864-1964, Claudiana, Torino 1980; A. Olivieri, La riforma in Italia. Strutture e simboli, classi e poteri, Mursia, Milano 1979; G. Spini, L’evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa cristiana libera in Italia. 1870-1904, Claudiana, Torino 1971; P. Spanu-F. Scaramuccia, I battisti. Libertà – tolleranza – democrazia, Claudiana, Torino 1998.

 

 

 

 

 


LEMMARIO




Quietismo - vol. I


Autore: Pietro Zovatto

Per quietismo si intende quel movimento si spiritualità che si propone di raggiungere «velociter» la perfezione evangelica con un tipo di esperienza di carattere mistico. Storicamente compare nel XVII sec. particolarmente in Italia, Francia e Spagna. Esso ha interessato sotto il profilo dottrinale tutta l’Europa occidentale, ma più in generale ha riguardato anche l’Islam con il sufismo. La sua affermazione fondante va individuata attorno al principio di “passività”, che ha trovato collocazione presso i catari, i Fratelli del libero spirito, le beghine, i pelagini, e anche presso gli “alumbrados” spagnoli. Nel caso specifico in Italia compare con“l’oratione detta di pura quiete”, o “orazione degli affetti” (card. Francesco Albizzi, 1682), o ancora prima con il card. Caraffa, nunzio a Venezia, che denuncia un laico della diocesi di Brescia (Valcamonica), G.F. Milanese, che insegnava nel suo Oratorio di s. Pelagia non essere necessaria la recezione dei sacramenti, essendo sufficiente “l’orazione mentale”, mentre le altre devozioni popolari venivano disattese (Madonna e santi). Le tesi che gli venivano contestate riguardavano “l’unione sublime passiva, ed estatica, senza haver passato per i gradi della purgativa ed illuminativa”. La denuncia più significativa è quella del card. Innico Caracciolo (30-1-1682) al papa Innocenzo XI. In questa si descrivono le caratteristiche essenziali del quietismo, che non sempre trovano un corrispondente storico.

1). Il loro orare è “un sommo quieto e silenzio muti, come morti”, abbandonandosi “alle divine influenze”, snobbano quindi il meditare raziocinando, quello che rende scopribili i propri difetti. 2) Pensano così di raggiungere “quel sublime grado di orazione passiva di contemplazione, che Iddio per suo liberal dono concede a chi vuole, e quando vuole”.3)Ignorano che è necessaria la via purgativa e di purificazione prima di accedere al vertice della vita d’unione. 4) Non sanno che la contemplazione o “orazione passiva”, è dono di Dio, e che il demonio si riveste sotto la forma di “angelo della luce”. 5) Addirittura alcuni quietisti rinunciano alla “orazione vocale”, per buttarsi nella “orazione di pura fede e di quiete”, tralasciando il rosario, la preghiera vocale quotidiana, restando come “morti alla presenza di Dio”. 6) Muti davanti a Dio, rifiutano anche le immagini di Gesù Cristo, della Madonna e dei santi, poiché in questo stato di esperienza ritengono che ogni pensiero sia ispirato da Dio. 7) il card. Caracciolo non lo dice esplicitamente che essi snobbano la confessione, sottolinea però che si credono degni di ricevere la comunione quotidiana.

Storicamente i quietisti, o semiquietisti, rientrano nella categoria delle élites spirituali; sono meno frequenti, anche se non mancano, “gli idioti”, cioè gli illetterati, che obbediscono ciecamente al loro direttore spirituale. Come impazienti di fronte all’ideale della santità la vogliono raggiungere velocemente e con sicurezza per mezzo di una metodologia semplificata al massimo. La via è quella della opzione interiore radicale in un processo di interiorizzazione esperienziale che scavalca, o male se ne appropria, persino della tradizione consacrata dalla storia dei grandi maestri, come s.Giovanni della Croce. Per il quietismo l’attenzione più che sull’aspetto ascetico e della mortificazione si concentra nel riposo interiore di una vita, il cui protagonista è Dio stesso. Nella orazione passiva acquisita infatti è Dio che la elargisce a coloro che vi si dispongono. In tutto questo insieme l’anima di verità sembra consistere nel riflettere un tipo di spiritualità esperienziale, come l’orazione di silenzio interiore, di semplice fede, di contemplazione affettiva, coinvolgente tutte le facoltà umane. In polemica o per sfuggire al carico del devozionale e alla aridità spirituale di un tipo di teologia intellettualistica di derivazione tomistica. Purtuttavia, neanch’essi riescono sempre a sfuggire del tutto al devozionale.

Precursore del quietismo italiano si può considerare Isabella Cristina Berinzaga sotto la guida del gesuita Achille Gagliardi (d’origine padovana), autore del Breve Compendio della perfezione (1597) a inizio del Seicento a Milano. Con Angelo Elli l’uomo annientando radicalmente se stesso “si divinizza” a condizione di restare passivo. Questo minore osservante si spinge fino a negare la responsabilità morale e il valore delle opere in determinati stadi mistici. Insistendo sullo stato di amore puro, di amare cioè Dio per se stesso e non per paura dell’inferno. A Brescia presso i Preti della Pace, amalgamati attorno alle costituzioni di san Filippo Neri, emerge Giacomo Filippo Cosolo, che godeva fama di santo e di operare addirittura dei miracoli. I Pelagini della Valcamonica sostenevano che è necessaria l’orazione mentale per la salvezza, disprezzando la pratica sacramentale e il matrimonio. Al gruppo lombardo appartengono i fratelli Leoni, Simone e Andrea Maria; essi con una rozza psicologia delle strutture conoscitive “di parte superiore” e “di parte inferiore”, propugnavano una unione a Dio passiva in cui solo Dio agisce, diventando l’uomo impeccabile, poiché mette in opera solo la parte superiore.

A Vercelli il vescovo Vittorio Ripa aveva chiamato il padre barnabita La Combe (subito raggiunto da madame Guyon, di questi due aveva dato l’approvazione per la stampa delle loro opere) per dirigere i casi di coscienza da tenere al clero, portandoseli anche nelle visite pastorali. L’orazione del cuore (1686) del Ripa evidenzia un amore puro che si trasforma in passività annichilante per le facoltà sensibili al cuore. A Venezia Michele Cicogna, un sacerdote titolato della chiesa parrocchiale di sant’Agostino di Venezia, scrittore spirituale letterariamente seicentesco (Ambrosia divina, 1682), offrendo a Dio il libero arbitrio, è disposto a sopportare le più orribili sofferenze (anche l’inferno) per compiere un atto di carità totalmente disinteressato. Fecondo di opere di edificazione a più riprese l’Indice intervenne (1683; 1690;1691;1702).

Alla duchessa Laura di Modena, altro centro di spiritualità semiquietistica, il padre Giovanni Paolo Rocchi di Città di Castello (Umbria) le dedicava il libro Passi dell’anima per il cammino di pura fede (1677, posto all’Indice dieci anni dopo) dati dai tre gradi dell’orazione di pura fede, raccogliendo l’eredità di Ugo di san Vittore, santa Caterina da Genova, san Giovanni della Croce, sostenendo che l’anima opera sia nella contemplazione passiva che in quella acquisita; mantenendosi, tuttavia, in una posizione di un incerto equilibrio.

In Pietro Battista da Perugia, minore osservante, il mistico deve restare immobile, affinché “Dio dipinga nell’anime le misericordie”, senza cercare consolazioni, illuminazioni o sentimenti spirituali. La sua opera Scala dell’anima per arrivare in breve alla contemplazione, perfettione ed unione con Dio fu posta all’Indice nel 1689). Giovanni Antonio Solazzi, (all’Indice nel 1689 con Modo facile per far acquisto dell’oratione di quiete) operante a Roma, conosce le posizioni del Petrucci e del Molinos, e afferma che lo spirito “nell’orazione di quiete è assonnato” nell’essenza di Dio “con l’anima dell’anima”. Oltre ai due massimi rappresentanti del quietismo citati, sente l’influenza di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, l’estatica carmelitana di Firenze.

Tommaso Menghini, domenicano di Albacina, insiste sulla “orazione degli affetti” (Opera della divina grazia, 1680) tanto da attenuare la fase ascetica del cammino spirituale, questa può determinare l’amor proprio. Questa “orazione degli affetti” consiste nell’elevare la mente a Dio in silenzio e lasciarlo parlare “nel fondo del cuore”. Così da eliminare la fase meditativa. Con il Menghini si spezza l’equilibrio tra abbandono fiducioso in Dio e la forza della natura sorretta dalla grazia (Indice, 1688). Si possono considerare petrucciani il marchigiano Benedetto Biscia dell’Oratorio che fa un lungo elenco delle difficoltà di pensieri, di distrazioni, di immaginazioni per attingere Dio che rimane inconoscibile, per cui altro non resta che la fede che crede e non conosce, esperienza intellettiva che sarà possibile nella dimensione eterna con il lume della beatitudine. Carlo Caldori di Fabriano, canonico, dedica un suo libro al Petrucci: Del sacro santo sacrificio della messa (1682), ma risulta più guardingo del suo maestro, poiché unisce l’ascetica alla mistica piena di slanci letterari con una vigile coscienza riflessa, non sfuggì, tuttavia, all’Indice (1690). Anche i Pii Operai di san Balbina a Roma risentono del clima generale, tanto che il loro Preposito Generale, padre Antonio Torres di Napoli (ammirato da G.B. Vico e poi anche nel Settecento da sant’Alfonso), convinto assertore della “orazione mentale” fu condannato e quindi riabilitato dalla sospensione, poiché non negava né l’orazione mentale né quella vocale.

In Sicilia suor Geltruda, benedettina, sosteneva i vari gradi di unione con Dio (unioni di matrimonio) negando la responsabilità in atti del “de sexsto”; e un fra’ Romualdo, suo compagno di sventura, non riconosceva l’efficacia oggettiva dei sacramenti se il sacerdote non era in stato di grazia nell’amministrarli, confondendo la liceità con la validità. Entrambi, dopo alterne vicende del processo finirono sul rogo.

Questa fenomenologia mistica con notevoli intemperanze dottrinali non rappresenta un organismo sistematico logico con un centro unitario interno. E mostra di non soddisfare le esigenze antropologiche delle singole persone in cammino di perfezione, indicando una inquietudine religiosa diffusa. Il quietismo del resto non rappresenta una dottrina teologica sistematica, ma piuttosto un insieme di insegnamenti di carattere pratico, collocandosi in un grado avanzato del percorso spirituale. Si potevano trovare dei quietisti che consideravano la contemplazione acquisita uno stato permanente dell’anima. Non esistevano singoli quietisti, poiché essi si presentano perlopiù organizzati in gruppi, “conventicole”, ove era quasi sempre un sacerdote che li dirigeva, o un laico. Le smagliature di condotta licenziosa attinenti il “de sexto”, là ove c’erano, si potevano trovare tra la gente di basso profilo culturale e quindi facilmente vittime della presunzione. Le polemiche insorte riguardavano le facili estasi, le visioni a richiesta e altre forme vistose della fenomenologia mistica. Di certo non si trattava di quietismo quando si parlava di “orazione degli affetti o di quiete”, come esigenza di coinvolgere la totalità della persona. Emergeva, tuttavia, questo, quando per affermarlo, si eludevano esplicitamente le orazioni vocali considerate inutili, dal momento che ci si collocava in uno stadio più elevato dello spirito. L’incapacità della teologia del tempo di considerare le tre età della vita interiore, purgativa, illuminativa e unitiva, fasi di un processo in un rapporto dialettico di flessibilità tra loro, secondo cui il momento prevalente non esclude, ma suppone gli altri. Basti vedere i punti qualificanti del quietismo come erano stati concepiti dal card. Girolamo Casanata (1682) quando la vertenza sul quietismo aveva raggiunto il suo apice (J. De Guibert, Documenta ecclesiastica Christianae perfectionis, 1931, n. 445-452; Id., Theologia spiritualis ascetica et Mystica, 1952, n 518). Storicamente la più grande querelle l’aveva scatenata Molinos (a Roma dal 1663 al 1693) con la sua Guida Spirituale (1675) qui uscita con l’approvazione dei censori ecclesiastici e del maestro dei Sacri Palazzi. La sua dottrina si dirige a chi ha superato la fase ascetica di purificazione e s’incammina alla contemplazione, facilmente raggiungibile attraverso la contemplazione appunto, ma possibile pure per via meditativa. Nell’unione con Dio l’anima fissa la volontà in Dio, ma con “ripulsa di pensieri e tentazioni” con la maggiore calma possibile. Questo percorso attinge molto dal magistero di s. Giovanni della Croce. Di lui lo specialista carmelitano­ E. Pacho (DSp., X, 1486-1514 e DM, s.v.)­ ha indicato la sua ortodossia e la sua assenza di turpitudini di cui fu accusato. Negli articoli (Denzinger n. 1221-1288) la condanna (1687) si concentra sulla “orazione di quiete” o passiva e sulla conciliazione di pensieri immorali senza responsabilità personale, poiché considerati violenza diabolica.

Per il citato card. Pier Matteo Petrucci (Jesi, 1636-1701), amico di Molinos, la meditazione non va trascurata, ma concentrandosi il cammino di perfezione sulla contemplazione di abbandono o di quiete, non ammette l’impeccabilità in questo stato, come altri pur sostenevano. Nell’opera Mistici enigmi, (1680), presa di mira dal Sant’ufficio, parla de “l’unione tutta perduta in Dio”, da cui non deriva un panteismo negatore della individualità personale, ma “la perfetta indifferenza” dal momento che l’anima “fissa” in Dio vive con la sola possibilità di “amare con tutta la totalità della sua volontà”. Anche il Petrucci si rifà alla dottrina sanjuanista, oltre che a F. Malaval, I. Berinzaga, A. Gagliardi, J. Falconi, A. Elli e P. Manassei. E ha come interlocutore chi è già avanzato nel cammino di perfezione e non il cristiano comune, che pur è chiamato alla santità. A Roma intanto fioccavano le denunce sul Petrucci, chiamato “begardo”, “calvinista”, “iconoclasta”, “giansenista”e insieme “quietista”. Anche nella denuncia del Caracciolo tra i quietisti si nominava il Petrucci. E la condanna non tardò ad arrivare, sulla scia del Molinos. Certo non si può considerare il Petrucci quietista, poiché risulta cristocentrico nell’organizzare la sua dottrina spirituale, mentre i quietisti sono fondamentalmente teocentrici; e inculca la necessità dell’ascesi quotidiana, senza frettolosi scavalcamenti dall’ascetica alla mistica. Il Petrucci domina la scena nel panorama quietistico o semiquietistico italiano con il suo innato senso della diplomazia. Quietisti o vicini al quietismo ormai sparsi alla macchia se ne trovavano in Italia in Angelo Elli, Sisto Cucchi e Paolo Manassei.

Dei due citati fratelli Leoni: Antonio Maria (n. 1639), laico, della diocesi di Como. Con le sue affermazioni bizzarre propugnava: la riforma della chiesa sotto il papa Alessandro VIII (1689-1691) in virtù di una cristologia antiatanasiana. Con la morte mistica si realizza l’impeccabilità e l’indifferenza totale dell’uomo con Dio, separandosi la parte inferiore dell’anima da quella superiore si acquista l’impeccabilità e l’indifferenza tra il sensibile e il visibile. In questo cristianesimo decurtato e semplificato i sacramenti non sono necessari, in particolare la confessione, anche se si incoraggia la comunione quotidiana. Questo quietismo eterodosso, che con varianti emerge nella penisola, è lungi da quello ben strutturato e colto di Petrucci; e di Molinos che tanta influenza ha esercitato anche al di là di Roma, ove operava, nel mondo protestante.

Il fratello Simone Leoni, sacerdote, rifiuta la meditazione, le invocazioni dei santi con la conseguente svalutazione dei sacramenti. Quello che è più inquietante in lui è l’affermazione secondo cui l’anima nello stato passivo è impeccabile e non deve opporsi alle tentazioni, poiché tutte le attività sono sospese (compreso il libero arbitrio) e la creatura divinizzata. Stranezze vengono proposte anche intorno alla Trinità, in cui il Figlio è inferiore al Padre; e nella incarnazione tutta l’essenza trinitaria si unisce alla carne, e la divinità di Cristo è creata. Lo stesso Cristo non fu esente dalla macchia originale. Tutti e due i fratelli furono condannati al carcere, oltre che all’Indice (1689; 1717).

In generale a questa dottrina quietista, non sempre con smagliature ereticali, s’opposero A. Regio, in particolare Gottardo Belluomo (gesuita †1690) ( con Il pregio e l’ordine dell’orationi ordinarie e mistiche, (Modena 1678) in maniera radicale, affermando, quest’ultimo, il valore previo della meditazione e delle virtù per via unitiva, a cui si perviene, tuttavia, “in modo perfetto” senza attingere la contemplazione. Contemplazione che non può concepirsi come “un addormire dello spirito”, ma piuttosto “un movimento della libertà”. Paolo Segneri con Concordia tra la fatica e la quiete nell’orazione (Firenze 1680) difende la meditazione senza attenuare il valore della contemplazione, anche se sospettoso della fenomenologia mistica, come rapimenti e visioni. L’opera fu posta all’Indice (1681) “donec corrigatur”. Tuttavia, Alessandro Regio con Clavis aurea assieme alla Concordia del Segneri contro i quietisti (Molinos compreso) furono messi all’Indice, poiché in quella fase storica il quietismo godeva di un particolare momento di favore. Al Segneri si affiancava Daniello Bartoli, pure gesuita, con l’opera Scrittura contro li quietisti, in cui si sottolineava la tradizione storica di quel movimento quietista con i Begardi, condannati da papa Clemente V al Concilio di Vienne (1312)

Altri antiquietisti furono, i vescovi Mercurio Maria Teresi e Nicolò Terzago nel XVIII sec., quando ormai la questione quietista era diventata un oggetto storico. E il Manzoni stesso si può collocare tra gli antiquietisti, non solo perché di atteggiamento “filogiansenista”, ma perché considerava il desiderio della felicità una legge universale del cuore umano (contro l’amore puro indifferente alla beatitudine). Così era stato condannato Molinos (1687) dapprima dal Sant’Ufficio e poi dalla costituzione di Innocenzo XI Coelestis pastor (1687), con conseguente incarcerazione perpetua. Nello stesso anno il card. Petrucci dovette emettere, in forma discreta, una ritrattazione di 54 proposizioni davanti al segretario del Sant’Ufficio, il card. Alderano Cybo.

Con la condanna di Molinos e del Petrucci il quietismo italiano si poteva considerare sconfitto e con quella di Fénelon (1689), che ebbe la peggio nel duello con Bossuet sulla vertenza del “puro amore”, la mistica stessa veniva considerata virtualmente messa sotto accusa. Sotto il profilo storico il suo insistere sulla contemplazione acquisita mostra l’importanza accordata alla presenza silenziosa davanti a Dio, al di là di ogni formulazione, in adorazione dello spirito; segna l’inizio di un’era di crisi della mistica, o perlomeno di un guardarla con sospetto per favorire ogni metodologia alla perfezione, con la preponderanza ascetica; lascia libero spazio alla spiritualità gesuita che nelle mani dei suoi figli andava progressivamente rafforzandosi con “l’asceticismo” (Bremond), oscurando la radice mistica delle sue origini; poneva il problema della possibilità di considerare la contemplazione sì uno spazio riservato ai vertici, ma a portata di mano anche dei “semplici” o degli “idioti”, per rendere possibile la vocazione universale alla santità; nella ricerca dell’affettività nel porsi presso Dio in contemplazione, il quietismo affermava inconsapevolmente una antropologia molinista, cioè la definizione egologica nel vertice dell’itinerario a Dio, al di là d’ogni intellettualismo dottrinario elevato a sistema. Senza avvedersene si scopriva così l’esigenza ineludibile dell’esperienza cristiana profonda, per viverla con radicale impegno. I quietisti anche se elitari (quelli che lo erano) come i giansenisti, proprio questi essi sembrano controbattere, senza nominarli, per il loro rigorismo etico e aprirsi così la strada per rendere accessibile i più alti gradi di perfezione a ogni uomo. Il principio di passività quietistico di fronte alla preponderante grazia di Dio veniva interpretato come una svalutazione delle opere presso il mondo protestante e un argomento apologetico anticattolico (una negazione pericolosa, se non ereticale, dell’economia sacramentale presso quello cattolico), per cui la Guida spirituale di Molinos, formulata nel cuore della cristianità, ha goduto di una notevole fortuna nelle molteplici traduzioni in tedesco.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Reliquie - vol. I


Autore: Mario L. Grignani

Etimologia. In latino reliquiae e in greco λείψανα, con il significato generale di “ciò che resta”, riferito al corpo umano o parte di esso. La voce r. « fu usata nell’antichità, secondo il senso etimologico (illa quae ex aliqua re relicta sunt) anche per designare resti dei corpi dei defunti o le ceneri dei corpi inceneriti » (Kirsch). Il significato in ambiente cristiano si riferisce, in particolare, ai resti mortali di coloro che sono riconosciuti come martiri e santi e, più in generale, a quegli oggetti che sono stati a contatto della loro persona, e che, per la virtus divina in loro presente ed operante, ne sono stati consacrati. Nel caso in cui le r. si riferiscano all’intero corpo, vengono chiamate reliquiae insignes, se si riferiscono a una parte di esso si dicono reliquiae non insignes. Le r. inoltre possono essere ottenute in virtù del contatto non solo con il corpo della persona viva, ma anche post mortem; in questo secondo caso anticamente si chiamavano brandea, palliora, memoria, pignora, sanctuaria, patrocinia. Infine si conoscono anche le r. di sangue, conservate nelle ampullae sanguinis.

Fondamento storico e teologico del culto delle r. e magistero della Chiesa. Di natura e origine diversa sono le fonti che presiedono lo studio delle r. e del relativo culto, connesso alla santità: dalle fonti scritte alle orali, dalle archeologiche alle iconografiche. Dalla conoscenza di tali fonti, della storia dei martiri, dei santi e delle relative forme di devozione popolare dipende la comprensione del fenomeno delle r. e del culto ad esse legato. I primi riferimenti cristiani alle r. si trovano nel Nuovo Testamento: nel Vangelo secondo Marco si osserva la cura rivolta ai resti di Giovanni Battista martire (6,29), negli Atti degli Apostoli si riferisce del martirio di Stefano (8,2). Le r. cristiane trovano la loro ragion d’essere nella fede in Cristo professata dai martiri e nella dottrina della resurrezione dei morti insegnata dalla Chiesa, e si inquadrano perciò in una dimensione religiosa e cultuale, teologica e antropologica. Negli Acta del martirio di Policarpo (†155) si trovano espresse la consapevolezza e la cura che cristiani di Smirne rivolgono al martire e alle sue spoglie mortali: « Noi solo più tardi potemmo raccogliere le sue ossa, più preziose delle gemme, più insigni e più stimabili dell’oro, e le collocammo in un luogo conveniente. Quivi, per quanto ci sarà possibile, ci raduneremo nella gioia e nell’allegrezza, per celebrare, con l’aiuto del Signore, il giorno natalizio del suo martirio, per rievocare la memoria di coloro che hanno combattuto prima di noi, e per tenere esercitati e pronti quelli che dovranno affrontare la lotta » (Martirio di s. Policarpo). San Girolamo all’inizio del secolo V, nell’Epistola 109, ricorda che l’onore tributato ai resti dei martiri ha per fine l’adorazione dovuta a Dio.

Pontefici e concili (ecumenici e provinciali) hanno insegnato, custodito e difeso lungo i secoli la dottrina della Chiesa sulle r. Nel secolo VIII la minaccia alle r. rappresentata dall’iconoclastia è condannata nel Concilio di Nicea II (787). Nel secolo XVI, mentre le dottrine protestanti di Lutero e Calvino negano valore alle r., la Chiesa riunita nel Concilio di Trento, con i suoi prelati e teologi ne approfondisce il significato ed il valore: se ne presenta la dottrina e si sottolineano le norme per l’istruzione dei fedeli, stabilendo che nell’invocazione dei santi, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini deve essere bandita ogni superstizione, eliminata ogni turpe ricerca di denaro e infine evitata ogni indecenza (sessione XXV, 1563). A sua volta il Catechismo Romano ad uso dei Parroci (1566), nel commento al primo comandamento, insegna il valore del ricorso ai santi e dà ragione del potere insito nelle loro r. Sul finire del secolo papa Clemente VIII istituisce la Congregazione delle Indulgenze che Clemente IX chiamerà Congregazione delle Indulgenze e delle Reliquie (1669); ad essa spetta vigilare sulle r., stabilirne l’autenticità, combattere gli abusi, le frodi, il commercio e una religiosità a volte caratterizzata da manie di feticismo, e infine concedere le relative indulgenze legate alle feste religiose locali ed alla pietà↗ cristiana. Nel secolo XVIII, mentre l’Illuminismo ritiene la fede una superstizione e combatte le r. ed il loro culto, è fondamentale la sistematizzazione della materia elaborata dal cardinale Lambertini, futuro Benedetto XIV, nell’opera De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-1738).

Tipologia e geografia delle r. nella penisola italiana. La constatazione di Delehaye riguardo dei martiri romani –«L’hagiographie romaine dépasse en richesse tout ce que la tradition des Églises mous a légué en ce genre» – può applicarsi anche al caso delle r. in Italia; infatti è straordinaria la presenza delle r. nella penisola italiana sia per provenienza sia per circolazione, sia per quantità che per qualità. Vi si trovano r. in nesso a Gesù Cristo, alla Vergine Maria, agli Apostoli e ai Santi, nonché alle tradizioni relative a manifestazioni di creature angeliche.

Le r. più importanti sono quelle relative alla vita e alla passione di Cristo, nonché ai fatti miracolosi riguardanti le specie eucaristiche. Rinvenute in Terra Santa e poi portate in Italia, prima da Elena, madre dell’imperatore Costantino, e poi durante i pellegrinaggi e le crociate, tra di esse troviamo le r. della croce (il resto più famoso è quello custodito nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, r. dell’iscrizione posta sopra la testa di Cristo crocefisso; un altro frammento della croce si trova nel Santuario di San Michele Arcangelo, sul Monte Gargano, portato dall’imperatore Federico II di ritorno dalla crociata nel 1229); i chiodi (molto conosciuto è quello conservato nel Duomo di Milano); la colonna della flagellazione (portata da Gerusalemme a Roma nel 1223 dal cardinale Giovanni Colonna e custodita nella Basilica di Santa Prassede); i resti della mangiatoia in cui venne deposto Gesù Bambino (“la sacra culla” e il panniculum nella Basilica di S. Maria Maggiore chiamata anticamente ad praesepem); le spine della corona (Chiesa di S. Maria della Spina a Pisa). A Roma poi, salendo i gradini di un’altra r., la Scala Santa, quella percorsa da Gesù all’ora di presentarsi dal governatore romano Ponzio Pilato, si accede alla famosa Cappella del Sancta Sanctorum, dove si trova l’icona del Volto Santo. Certamente però tra le r. riferite a Cristo la più celebre e universalmente conosciuta è la Sindone (o Santo Sudario) custodita a Torino dal 1578; studi iconografici collegano alla Sindone un’altra r. venerata a Manoppello ossia il velo del Volto Santo. Anche la celebrazione liturgica dell’Eucarestia ha consegnato alla storia ed alla fede del popolo cristiano le r. legate alle specie eucaristiche, a elementi riconosciuti dalla scienza come sangue e/o carne di natura umana. In Italia sono una trentina i luoghi dei miracoli eucaristici. Esempi di tali “r. eucaristiche” sono quelle originate dai fatti miracolosi di Lanciano nel secolo VIII e di Bolsena nel 1263. Nel primo caso le r., custodite nella stessa città, traggono origine dall’evento occorso durante la celebrazione della messa da parte di un monaco basiliano. Nel secondo caso l’Ostia, il corporale e i purificatoi sono conservati nel Duomo di Orvieto, appositamente costruito per tale scopo.

Anche le r. mariane sono presenti nella Penisola e sono meta di pellegrinaggi e di devozione. Famosa è la Santa Casa di Loreto, ovvero la Casa di Maria a Nazareth, che la tradizione indica essere stata trasportata nel 1294 dagli angeli, identificabili anche con quei crociati legati alla famiglia Angeli Comneno. Altra r. mariana è la Cintola (o cintura) di Maria, una sottile striscia di lana di capra portata a Prato a metà del secolo XII da Michele, un pellegrino pratese di ritorno da Gerusalemme, e poi conservata nel Duomo di Prato; anch’essa oggetto di devozione mariana e meta di pellegrinaggi. Studi recenti mostrano il profondo rapporto esistente tra tradizioni civiche e devozioni mariane nelle città italiane tra medioevo ed età moderna.

Nella storia della Penisola Roma è stata un centro privilegiato, sia perché città del martirio e della sepoltura degli apostoli Pietro e Paolo, sia per le catacombe, i cimiteri sotterranei che hanno custodito i “Corpi Santi”. La venerazione delle r. del “Principe degli Apostoli” ha costituito un motivo fondamentale di pellegrinaggio a Roma da parte di tutta la cristianità latina occidentale, presso la Basilica Costantiniana prima e nell’attuale Vaticana poi, così come per l’ “Apostolo delle Genti” presso la basilica di san Paolo fuori le mura. A Roma si trovano inoltre le r. di altri apostoli, come per esempio Filippo e Giacomo il Minore presso la Basilica dei Santi XII Apostoli, o Bartolomeo presso l’omonima basilica nell’Isola Tiberina. Nell’Urbe è degna di nota anche la Cattedra di Pietro che rappresenta un esempio di come un simbolo sia stato trasformato in r., mentre in altri casi siano i reliquiari a parlarci delle r. in essi custodite (i cosiddetti “reliquiari parlanti”, come nel caso di san Pantaleo nel Duomo di Vercelli).

In Italia esistono anche r. legate a eccezionali manifestazioni angeliche, come nel caso di San Michele Arcangelo, narrato nel “Liber de apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano” (secolo VIII). Nell’omonimo santuario, anch’esso centro di pellegrinaggio lungo la via che portava alle coste pugliesi e di lì in Oriente via mare, vi si conserva la pietra nella quale è impressa l’orma del piede attribuita all’angelo e che perciò funge da r.

Nel complesso intreccio di interessi che ruotavano attorno alle r. si inquadrano le trafugazioni e/o traslazioni, generalmente dall’Oriente, e i furta sacra, fenomeni da collocare tra gli inizi del IX e quelli del XII secolo, in coincidenza con la prima fase della rinascita spirituale, economica e commerciale medievale. Alle iniziative personali volte a proteggere le r. dal pericolo rappresentato dalla espansione e dominazione islamica, come riportato dalle fonti nel caso dei resti di san Marco che vengono trafugati da Alessandria d’Egitto nel 828 da due commercianti veneziani e portato alla Serenissima Repubblica, si accompagnavano interessi economici, politici e di prestigio delle città italiane, come nel caso della spedizione marittima barese che si impadronisce delle spoglie di san Nicola vescovo di Myra e lo porta a Bari nel 1087. Le r. ci raccontano dunque le grandezze e le piccolezze degli ideali umani. Mentre la Cappella dei Martiri nella Cattedrale di Otranto, dove si venerano le r. degli 813 uomini della città decapitati in odium fidei dai Turchi nel 1480, testimonia un fatto martiriale di proporzioni uniche nella storia cristiana della Penisola, che se è da ascriversi ai conflitti tra cristiani e mussulmani, deve essere anche interpretato alla luce della salvaguardia della ’identità locale e financo peninsulare dalle scorrerie ed invasioni dei Saraceni lungo le coste adriatiche, i furta sacra, ci mostrano l’esistenza di interessi più mondani ai quali si dedicava per esempio il diacono romano Deusdona, che nel secolo IX era al comando di una organizzazione di mercanti di r. che da Roma illegalmente riforniva il centro Europa e il sud Italia.

Non trascurabile è infine la notorietà delle r. di taluni santi dovuta all’influsso esercitato dai miracoli attribuiti alla loro intercessione: tale è il caso delle guarigioni operate da s. Antonio, il cui corpo è custodito a Padova; della protezione di s. Agata dall’eruzione del vulcano Etna, dalla peste e dalle incursioni dei mori, a Catania; del taumaturgo s. Rocco, a Venezia. A tale notorietà non si deve solamente il furto ma anche l’uso di dividere il corpo in pezzi affinché varie città possano beneficiare del potere del santo.

L’opera pastorale svolta nella penisola da due grandi vescovi di Milano è centrale per la venerazione e la diffusione delle r. nel territorio, e non solo in Italia. A distanza di secoli l’uno dall’altro ed in circostanze storiche differenti, sant’Ambrogio e san Carlo Borromeo sono attivi sostenitori e propugnatori delle r. dei santi e del rispettivo culto locale; la storia del culto delle r. non può prescindere dal riferimento alla Chiesa milanese a partire dall’episcopato di s. Ambrogio: « Come l’opera liturgica di Ambrogio assunse le note di modello e di testimonianza universale, così il suo atteggiamento verso i martiri e le loro r. divenne emblematico » (Ronchi). Famoso è il ritrovamento (inventio) dei corpi dei martiri Gervaso e Protaso, e Nazaro e Celso, con il numeroso concorso di popolo durante la loro translatio e depositio, nonché l’intenso culto popolare. Esaltando le r. Ambrogio ha voluto educare il suo popolo per mezzo dei santi, additati come modelli, intercessori e difensori della città; lo stesso farà s. Carlo Borromeo in obbedienza al tridentino, contribuendo al consolidarsi delle identità e tradizioni religiose e civili peninsulari.

Le r. come un significativo aspetto delle identità ecclesiali e civili della penisola italiana. In Italia l’altissima densità di r. ha contribuito alla nascita e/o sviluppo dell’identità dei centri locali; essa si manifesta ampliamente nelle devozioni popolari, nelle forme di spiritualità, nei pellegrinaggi, negli edifici religiosi, nonché nelle opere d’arte cristiana, come i preziosi reliquiari. Possedere una r. celebre, di un santo famoso per i miracoli operati e ancor meglio se taumaturgo, è considerato segno di protezione e di benedizione divine, accresce il prestigio e il potere ecclesiastico e politico, sviluppa centri di interesse religioso, economico ed artistico fino a giungere al caso straordinario del tesoro della “Cappella delle Reliquie” presso Palazzo Pitti a Firenze.

Particolare espressione del valore universale dell’unità ecclesiale, la capillare presenza delle r., i loro culti con l’universale messaggio di fede e speranza, ha contribuito alla progressiva costruzione di una identità territoriale attraverso i diversi modelli ideali rappresentati da santi e sante locali che ispirano la pietà dei compatrioti e favoriscono l’identificarsi con essi (Ditchfield); universali valori religiosi e civili erano resi familiari e perseguibili nei particolari esempi delle vite dei santi patroni, nei quali i concittadini potevano trovare senso alle loro vicissitudini e, certi della protezione dei “loro” santi, realizzare la sintesi locale di religiosità cristiana e di identità secolare, come narrato nel XIX secolo per il caso di Napoli dove la venerazione di san Gennaro lo considerava concittadino e figlio prediletto della « nostra Chiesa, la quale, circondata del suo tutelar presidio, nella duplice annual ricorrenza della festività di lui, tragge quasi certo pronostico de’ futuri eventi, di prosperità o di sventura, in quel misterioso liquefarsi del sangue » (D’Aloe).

Studi recenti sui culti orientali in Piemonte mettono in evidenza l’influsso che nel medioevo le r. di santi hanno avuto nella formazione della religiosità locale della regione; è il caso, tra gli altri, di san Spiridione, particolarmente venerato dagli imperatori Paleologi, che probabilmente ne introdussero il culto in alcuni territori di loro dominio nell’attuale Monferrato, o anche del più conosciuto san Biagio al quale si legano il rito della “Candelora” e la venerazione delle Madonne nere piemontesi.

Le lacune e i problemi che in certi casi la documentazione ha lasciato alla moderna critica storica non impediscono di costatare che le r. e il culto dei santi rappresentano uno elemento di conoscenza straordinaria della storia della Chiesa cittadina, della diocesi, della stessa società civile nel corso del Medioevo, come per esempio è segnalato per il caso di Bologna (Golinelli). Ed è proprio la produzione storiografica post-tridentina che testimonia il ruolo delle r. e dei loro culti liturgici nella memoria e nella conservazione delle tradizioni locali italiane, come nel caso di uno storico piacentino, che per situare e giudicare l’opera di un antico vescovo, narra quanto da lui fatto in rapporto alle r. nel 1369, scrivendo: « Ma ciò che farà sempre indicio chiaro & eterna testimonianza della di lui [Pietro Vescovo] molta pietà, e religione, fu che questo sacro Pastore […] arricchì questa Chiesa e segnalò la Città nostra d’una pretiosa reliquia tra l’altre della medesima Santa Lucia: con cui si eccitò allhora nel Piacentino popolo una tal divotione che propagata ne’ posteri infin à hoggi vi dura » (Campi).

Fonti e Bibl. essenziale

G.B. Alfano – A. Amitrano, Notizie storiche ed osservazioni sulle reliquie di sangue conservate in Italia e particolarmente in Napoli, Arti Grafiche “Adriana”, Napoli 1951; P. M. Campi, Dell’Historia Ecclesiastica di Piacenza, III (Stampa Ducale di Giovanni Bazachi, Piacenza 1662), Tip. Le. Co., Piacenza 1995; A. D’Alés, Reliques, in Dictionnaire Apologétique de la Foi Catholique, IV, Gabriel Beauchesne, Paris 1928, coll. 909-930; S. D’Aloe, Storia della Chiesa di Napoli, Stabilimento Tipografico, Napoli 1861; H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Société de Bollandistes, Bruxelles 1933, 260-340 (Chapitre VII: Les principaux centres du culte des martyrs. Rome et l’Italie); S. Ditchfield, La conservazione delle tradizioni locali in una Chiesa post-tridentina, in Storia della Diocesi di Piacenza. III L’età moderna (a cura di) P. Vismara, Morcelliana, Brescia 2010, 141-159; F.A. Ferretti, De sacris Sanctorum Reliquiis, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1942; P.J. Geary, Furta Sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo, Vita e Pensiero, Milano 2000; A. Giuliani, Le reliquie eucaristiche del miracolo di Lanciano. Tradizione, storia, culto, scienza, Edizioni S.M.E.L., Lanciano (CH) 1997; P. Golinelli, Santi e culti bolognesi nel Medioevo, in Storia della Chiesa di Bologna (a cura di) P. Prodi – L. Paolini, II, Edizioni Bolis, Bologna 1997, 11-37; M. Hutter – A. Angenendt – H. Maritz, Reliquien, in Lexikon für Theologie und Kirche, VIII, Herder, Freiburg-Basel-Rom-Wien 1999, coll. 1091-1094; E. Josi, Relique, in Enciclopedia Cattolica, X, Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1953, coll. 749-757; G.P. Kirsch, Reliquie, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, 29, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 1936, 36-38; H. Leclercq, Reliques et reliquaires, in Dictionnaire d’Arquéologie Chrétienne et de Liturgie, XIV/2, Librairie Letouzey et Ané, Paris 1948, coll. 2294-2359; A. Lombatti, Antonio, Il culto delle reliquie. Storia, leggende, devozioni, Sugarco Edizioni, Milano 2007; N. Monelli, La Santa Casa a Loreto. La Santa Casa a Nazareth, Congregazione Universale della Santa Casa, Loreto 1997; E. Ofenbach, Sulle orme dei santi a Roma: guida alle icone, reliquie e case dei santi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003; H. Pfeiffer, L’arte e la Sindone, in Sindone. Cento anni di ricerca, [a cura di] B. Barberis – G. M. Zaccone, Libreria dello Stato, Roma 1998, 107-122; Reliquia de’ Santi, in G. Moroni Romano, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, LVII, Tipografia Emiliana, Venezia 1852, 106-122; A.M. Rocca, Istruzioni popolari sulle reliquie dei santi, Società Anonima Tipografica, Vicenza 1934; G. Ronchi, Reliquie, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, V, NED, Milano 1992, 3017-3025; F. Ruggeri, Il Santo Chiodo venerato nel Duomo di Milano, NED, Milano 1999; P. Séjourné, Reliques, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XIII/2, Librairie Letouzey et Ané, Paris 1937, coll. 2312-2376; S. Silvestro, Santi, reliquie e sacri furti. San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni, Liguori, Napoli 2013; P. Tamburini, Bolsena: il miracolo eucaristico, Bolsena, Città di Bolsena Editore 2005; Sui culti orientali nel Piemonte medievale si vedano gli articoli di D. Taverna nella rivista «Studi sull’Oriente Cristiano», anni 2008, 2010, 2011, 2013. Sulle tradizioni civiche e le devozioni mariane nelle città italiane tra medioevo ed età moderna si vedano gli articoli apparsi in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XLIX (2013).


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