Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Riforma cattolica, Controriforma - vol. I


Autore: Angelo Turchini

Sulle categorie storiografiche di Riforma cattolica e Controriforma, molto si è discusso, in un dibattito appassionato ed approfondito, attento a cogliere le caratteristiche distintive di una realtà decisamente complessa, arricchito di nuove categorie utili a cogliere gli elementi di un passaggio fra un prima e un dopo, come ad esempio confessionalizzazione e disciplinamento sociale, ma occorre andare oltre, guardando ad un contesto più ampio, pur nell’assenza di accordo su un unico termine atto a comprendere la realtà. In tale senso non è però inutile ripercorrere alcune tappe di un dibattito, puntualizzare le modalità del superamento di un concetto come Controriforma, spesso ideologicamente ed astrattamente inteso al di là del richiamo alle controversie religiose e agli effetti della loro durezza sino alla ferocia, limitato ma non stemperabile sino all’insignificanza, e valorizzare ulteriormente altre letture.

Già nel considerare le due categorie interpretative nel quadro di una progressiva modernizzazione, e sui tempi lunghi del moderno, in un contesto sociale, politico e culturale nuovo, si ha un quadro concettuale di riferimento entro il quale perde valore il binomio Riforma cattolica – Controriforma, tanto da permettere l’ipotesi se non di una abolizione totale di quest’ultima quanto meno di un suo uso prudente e circoscritto, senza dimenticare che i termini hanno alle spalle una storia (e una tradizione storiografica), corrispondendo ad alcune precise domande e al tempo stesso, e che nessuna è esauriente nel comprendere la realtà, soprattutto se cambiano i metri di riferimento, tenendo peraltro conto che l’uso del termine e del concetto di Controriforma non si ha prima del secolo XVIII. Naturalmente ciò non pregiudica nulla, ma è significativo che la categorizzazione sia stata adottata per la prima volta da un giurista di Göttingen, J.S. Pütter, solo nel 1776 in relazione al forzato ritorno alla confessione cattolica di un territorio protestante e al plurale: controriforme, utilizzata poi anche da L. Ranke per compendiare unitariamente un movimento religioso che dietro i rigori restaurativi lasciava intravvedere elementi di rinnovamento spirituale ed organizzativo.

V’è qualche consonanza con la ri-cattolicizzazione più o meno forzata (Rekatholisierung) di un territorio; M. Ritter fu il primo ad utilizzare il concetto di Controriforma nella sua Deutsche Geschichte im Zeitalter der Gegenreformation I-III (Stuttgart 1889-1908). Il termine, la categoria storiografica nasce in area tedesca ed è una parola composta: gegen+Reformation: se il significato è nuovo, come il neologismo, l’orizzonte di riferimento originario è però preciso, puntuale e denso di contenuti: Reformation, designante il complessivo movimento di riforma. Il nesso fra Reformation e Gegenreformation verrà sottolineato da K. Brandi nella sua opera Die deutsche Reformation und Gegenreformation.

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La Controriforma corrisponde come reazione alla Riforma, anche da un punto di vista politico e militare, con una disciplinata riforma della Chiesa controllata dal centro (papato e curia romana), con puntualizzazioni dogmatiche e organizzative, con la repressione interna ad opera dell’Inquisizione. I fenomeni variamente compendiati in Controriforma sono diversamente scanditi nelle varie realtà territoriali, sia a livello diacronico che sincronico; ad esempio la realtà tedesca e quella italiana sono fortemente differenziate nel loro insieme, ma se si guarda ad ambiti regionali emergono ulteriori ritmi di sviluppo: così il Ducato di Baviera non è la Stiria, come lo Stato della Chiesa non è il Ducato di Milano o la Repubblica di Venezia e Milano non è Pavia. Al pluralismo dei ritmi temporali e degli intrecci tra momento teoretico (o dibattito culturale) e istituzionale, fra ordinamento giuridico e realtà effettiva è stata prestata scarsa attenzione; d’altra parte la periodizzazione è sempre risultata problematica.

A puro titolo esemplificativo per L. Ranke esistono due fasi secche e rigide (1563-1589, 1590-1630), per altri si va dalla pace di Augusta (1555) fino alla guerra dei Trent’anni (Schmidlin) oppure fino alla pace di Westfalia (1648); Cantimori distingue tre cicli (sino al 1543, sino al 1580-1590, da quella data in poi) attraverso i quali si passa da momenti di rinnovamento a momenti di irrigidimento della vita religiosa, ma senza distinzioni nette. Per H. Jedin si può giungere dalla crisi conciliarista ovvero dall’inizio del XV secolo sino al XVIII: parlando di Riforma cattolica e Controriforma per quest’ultima propone come più giusto inizio l’ultima sessione del concilio tridentino (1563) per finire senza dubbio con Westfalia, ma senza escludere ulteriori parziali sviluppi; si può parlare di un generale rinnovamento cattolico compreso fra 1540-1770 (Po-chia Sia), senza escludere peraltro aspetti di Riforma tridentina giungere alla metà del XX secolo.

Nel corso del XVI e XVII secolo si preferisce però adottare il termine di reformatio, perfettamente coerente con l’uso della cultura ecclesiastica di tutto il tardo medioevo, volendo così indicare il rinnovamento della chiesa. “Lutero stesso e, in grado ancora maggiore, Melantone volevano in origine solo riformare la chiesa cattolica e passò molto tempo prima che si facesse strada la persuasione che la loro opera non significava rinnovare, ma costruire dalle fondamenta”(Jedin). Il comune uso abbisogna di specificazioni fornite allora da aggettivi: “vera” o “falsa” riforma, reciprocamente e inversamente detti e scritti da una confessione religiosa contro l’altra (o le altre); in altri termini la categoria della reformatio è originaria e coerente, anche se il volersene attribuire la validità suscita non pochi problemi. Con Riforma cattolica si fa riferimento non solo a sensibilità ed esigenze anche diffuse in alcuni ambienti, ma anche ad una serie di tentativi di rinnovamento della vita della Chiesa, a partire dalla prima metà del XV secolo. Jedin ha il merito di aver fatto il punto sulla questione; a partire dalla nascita e diffusione delle categorie di Controriforma e Riforma cattolica, come due termini e due concetti distinti e collegati, superando secoli di storiografia controversistica e confessionale, ne ha puntualizzato senso e significato, ed il loro rapporto, sottolineando il ruolo e la “funzione centrale” del papato. Il binomio Riforma cattolica e Controriforma: “La Riforma cattolica è la riflessione su di sè attuata dalla Chiesa in ordine all’ideale di vita cattolica raggiungibile mediante un rinnovamento interno; la Controriforma è l’autoaffermazione della Chiesa nella lotta contro il protestantesimo” (Jedin). Ma tanto l’uno che l’altro sono stati intesi spesso non in simbiosi, bensì in parallelo o in successione e senza tener conto dell’interattività con la Riforma che ne condiziona modalità, forme, anche scansioni, o senza individuare le continuità pur presenti nel mutamento complessivo del lungo periodo.

Il parallelismo fra Riforma e Riforma cattolica/Controriforma è interessante. I due concetti non sono antitetici o due fasi storiche “susseguenti”, sono invece strettamente connessi quanto alle origini che affondano in un bisecolare passato comune segnato da tentativi di reformatio e quanto al carattere. La modernità della prima è stata ridimensionata accentuando la spinta innovativa e modernizzante del momento carismatico originario, mentre la seconda risulta da molti punti di vista recuperata al moderno; inoltre una volta costituitisi i gruppi confessionali si nota l’adozione di soluzioni “coincidenti” rispetto a problemi comuni (soprattutto nella difesa dell’identità) in un processo plurisecolare. Il parallelismo mette in risalto il valore della reformatio come punto centrale in quelli che saranno i vari ambiti confessionali ed in tempi comparabili, anche se talora sfasati; mentre sottolinea l’aspetto carismatico originale della Riforma nei primi decenni del XVI secolo, quando affronta gli esiti istituzionali non può che notare analogie fra campo protestante e campo cattolico: in altri termini, dopo un secolare periodo di incubazione, il problema della riforma giunge a maturare e, in fase critica, ad esplodere dando luogo, sia pur con travaglio ed in modo non lineare, a soluzioni speculari (anche se con uno specchio deformato ed irregolarmente diseguale) in campi diversi, distanti, ma sostanzialmente con molteplici omologhi punti di contatto e correlati ad un ideale piano sociale, politico, istituzionale (a più dimensioni).

Il parallelismo giunge così a salvare, parzialmente, la specificità della Riforma in quel breve lasso di tempo, e contemporaneamente ad annullare la concettualizzazione tradizionale introducendo o meglio presentando la dimensione della confessione religiosa come quella più consona a comprendere unitariamente il complessivo campo religioso entro cui si situano domande e risposte, carismatici sussulti, fondazioni ed incanalamenti istituzionalmente accettati. Le differenze sono misurabili e rilevanti, ma pur sempre all’interno del campo. Quindi Jedin ha delimitato le due categorie, esaminandone il valore in rapporto alla periodizzazione della storia della chiesa, ma senza dimenticare tutta una serie di “nuove forze” (diremmo di modernizzazione, comunque proprie dell’età moderna) emergenti nel mondo e nella società con cui fare i conti; e a questo punto valorizza il ruolo del concilio di Trento, punto d’incontro fra Riforma cattolica e Controriforma, agente riformatore a cavallo fra due epoche, fra medioevo ed età moderna.

Non v’è dubbio che il binomio jeniniano, un’endiadi complessa di relazioni interne, sia stato “ripudiato” per una Controriforma senza tempo “come espressione immobile della repressione e del potere”(Prodi) lungo tutto il XVI secolo, un incastellamento inutile se scisso e distinto dalla geografia e dalla storia in omaggio a definizioni e categorie suscettibili di impedire la comprensione dei fenomeni oppure per una controriforma annullata in una riforma cattolica onnicomprensiva: in pratica si tende a leggere una realtà complessa sotto una medesima luce: o tutta Controriforma o tutta riforma cattolica, a seconda della prospettiva; l’una e l’altra versione risulta fortemente condizionata da precomprensioni culturali talora non esplicitate.

Jedin costruisce il binomio, avendo presente la storia della Chiesa ad intus et ad extra, coniugando altresì storia politica ed ecclesiastica, istituzionale e costituzionale. Ma proprio qui sta il problema di fondo: una prospettiva comunque intra-ecclesiale è sufficiente a sorreggere un binomio indagato piuttosto nelle sue dinamiche interne che nelle più generali interazioni? Spostando l’obiettivo dalla Chiesa al mondo, vale a dire dalla specifica storia ecclesiastica alla magmatica storia istituzionale e costituzionale della società di cui fa parte, ovvero reinserendo la teologia nella storia è possibile ridefinire il campo, sgombrandolo delle incrostazioni e delle superfetazioni? Non v’è dubbio che la Chiesa sia non solo agente, ma anche oggetto di cambiamento, come illustrano significativi cambiamenti nelle istituzioni ecclesiastiche (non solo come reformatio in membris), e soprattutto una nuova autopercezione da parte della chiesa chiesa medesima, con una attenzione nuova alla cura animarum, come alla professionalizzazione del clero, in un ampio programma di riforma che lo coinvolge direttamente e, indirettamente, il corpo sociale dei fedeli affidato.

A questo punto torniamo al concetto di Controriforma; ovviamente la parola ha storicamente assunto un senso ed un significato preciso che va, ristretto in un ambito delimitato ed identificabile come “il prevalere rigoroso delle correnti più intransigenti più propense alle formulazioni monolitiche, al ritorno e all’avviamento a posizioni assolutistiche ed esclusive”(Cantimori). È interessante notare come il termine sia stato assunto per definire l’opera di coagulazione e di chiusura dogmatica, insomma di delimitazione confessionale nei modi precedentemente formulati, verificatasi anche in ambito protestante sicché si può parlare di una duplice controriforma protestante. Se la parola (soprattutto l’aggettivo) è ancora utilizzabile, bisogna ponderarla con misura, essendo stata concettualmente controversa, da definire, e per nulla scontata.

Solo in questa più generale cornice e per i motivi precedentemente enunciati è possibile sbarazzarsi senza troppi problemi di una categoria ormai entrata (in modi diversi) a far parte della storiografia; non è una operazione ideologica, ma logica, per la quale non si danno sostituti o alternative, poiché i problemi religiosi vanno affrontati in altro ambito e prospettiva, all’interno e in relazione con più ampie concettualizzazioni, come quelle della confessionalizzazione e del disciplinamento sociale ad esempio (che vede ricomporre la frattura dell’unità religiosa precedente su nuove basi delle strutture ecclesiastiche) e soprattutto della modernizzazione, tenendo conto dei tempi lunghi della storia, senza dimenticare aspetti di continuità e di mutamento o l’importanza degli avvenimenti e delle relative contingenze. Questi concetti fanno i conti con la resistenza di vecchi steccati storiografici, in cui i termini portano con sé un’eredità di conflitti anche ideologici, magari calati in un periodo relativamente breve, senza la prospettiva naturale di un lungo periodo, ed in un ambito spazialmente limitato (non tanto singole diocesi, quanto realtà minori) con l’esame di realtà localisticamente focalizzate.

La confessionalizzazione vede processi similari nelle varie chiese, nuova fondazione identitaria confessionale fra chiesa e stato, ruolo giocato nelle società e nei rapporti con lo stato e tocca molti elementi, anche la prassi liturgica e sacramentale, e la catechesi; porta al disciplinamento sociale, attraverso cui consegue una estesa cristianizzazione delle masse, soprattutto nelle campagne, aperte a nuove dinamiche culturali indotte al compattamento confessionale; del resto chiesa e stato, per via di interazioni dinamiche, si influenzano a vicenda ed esercitano il loro influsso sul complesso della società di riferimento. Confesionalizzazione e disciplinamento sono categorie utili ed efficaci strumenti di analisi, in un dinamico processo di modernizzazione che vede tendenze ad un maggiore accentramento, costruzione di istituzioni ed organismi giuridici, con razionalizzazione delle procedure, con crescente burocratizzazione, risultato e specchio di quanto si verifica nella costruzione degli stati moderni: il fedele è disciplinato suddito della chiesa, orientato a nuovi modelli di comportamento, mentre lo stato ricerca un suddito fedele in cui la disciplina è anche come autodisciplina. È così agevole rileggere la stessa “attuazione romana del Tridentino” e soprattutto il medesimo “sistema tridentino”, un impasto di elementi culturali, di abitudini e comportamenti, di prassi organizzative e di forze istituzionali attivamente impegnate nel processo di confessionalizzazione e nel disciplinamento sociale del proprio ambito religioso, con una duplice azione svolta sia a livello dottrinale che disciplinare, e la figura e l’attività di C. Borromeo a Milano, come di L. Paleotti a Bologna, ne sono testimoni esemplari; e non è mancata attenzione per “una ripresa del tridentino” a partire dal concilio romano di papa Benedetto XIII, tenendo conto peraltro della sua precedente esperienza diocesana.

È stato usato il termine di età confessionale, ma limitato al tempo, per età della controriforma, connessa con età del disciplinamento; così si usa anche Riforma cattolica, a volte indicata come riforma tridentina – e non v’è dubbio che riforma e concilio siano importanti nel corso di un processo di trasformazione “sia nel nuovo rapporto dell’individuo con Dio, sia nel rapporto tra il sacro e il potere, tre le chiese e lo stato” (Prodi), anche come riforma disciplinare, centralizzazione del comando, standardizzazione nella prassi e così via. Ma un uso meramente cronologico del concilio di Trento (pre-post), usato come indicatore (peraltro importante per l’influenza esercitata come applicazione normativa), può essere fuorviante se si applica il modello post-tridentino alla realtà anteriore, meno fosca di quanto si possa immaginare, anche se non così luminosa o omogenea come sarà successivamente.

Riforma cattolica e Controriforma, indicano allora esiti diversi di una generale aspirazione alla riforma o rigenerazione religiosa presente nel XV e nella prima metà del XVI secolo, permettendo di parlare di una fase tridentina della storia della chiesa, come la risposta storicamente data dalla chiesa romana alla sfida della modernità, al rapporto con la modernità, in un arco temporale che giunge sino al Vaticano II con elementi di continuità nella lunga stagione tridentina, con atttenzione agli sviluppi dottrinali, alla storia delle istituzioni a partire dalla riforma della curia romana, e al popolo cristiano sui più diversi piani: da quello culturale, dell’umanesimo, della nuova spiritualità, della devotio moderna nel XV secolo sino agli illuministi cristiani, a quello politico ed economico, fra cambiamento e continuità, fra XV, XVIII secolo e ben oltre.

Si ha una nuova organizzazione ecclesiastica a partire dalla residenza dei vescovi e del clero, con una presenza capillare delle parrocchie, ovvero valorizzazione di una rete atta alla conquista, al coinvolgimento, alla protezione e guida delle coscienze; il controllo ed intervento delle istituzioni è volto ad uniformare ed educare come a controllare la popolazione, diffondendo i modelli della disciplina religiosa; si evidenzia una nuova professionalità del clero secolare, con l’istituzione dei seminari partita nella seconda metà del XVI secolo e realizzata nel XVIII, e regolare; si punta ad una nuova partecipazione dei fedeli ai riti di passaggio, al tempo di festa ed ai sacramenti, dal battesimo al matrimonio tridentino (modalità conservate a tuttoggi, con una nuova valorizzazione della donna), dalla confessione (con sollecitazione allo sviluppo della coscienza individuale) alla comunione annuale, né manca una attenzione alla storia vissuta dei fedeli, ai problemi di interazione fra religione popolare e ufficiale.

La chiesa nel mondo moderno, in cui il termine di modernità si coniuga anche con l’amministrazione ed esercizio di una sovranità spirituale, deve fare i conti con il cambiamento dello stato, al di là dei rapporti fra chiesa e stati (O’Malley), lo sviluppo sociale (anche demografico) ed economico, l’espansione extraeuropea, nuove correnti culturali con la scoperta del mondo e dell’uomo e l’accrescimento e la necessaria divulgazione della conoscenza, con attenzione ad una nuova evangelizzazione e cristianizzazione, da conseguire con una educazione religiosa diffusa nelle Indias de aca, per un cattolicesimo moderno (definizione ampia).

Fonti e Bibl. essenziale

H. Jedin, Riforma cattolica o Controriforma? Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni sul concilio di Trento, Brescia 1967 (ed. or. 1946); P. Prodi, Controriforma e/o Riforma cattolica. Superamento di vecchi dilemmi nei nuovi panorami storiografici, “Roemische historiche Mitteilungen”, 31, 1989, 227-237; W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un discorso storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a c. di P. Prodi, C. Penuti, Bologna 1994, 101-123; R. Po-Chia Sia, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), Bologna 2001; J.W. O’ Malley, Trento e ‘dintorni’. Per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna, Roma 2004 (ed. or. 1999); E. Bonora, La Controriforma, Roma-Bari 2001; A. Prosperi, Disciplinamento, in Historia. Saggi presentati in occasione dei vent’anni della Scuola superiore di studi storici, a c. di P. Butti de Lima, San Marino 2010, 73-88; R. Bireley, Ripensare il cattolicesimo, 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma, Genova-Milano 2010.


LEMMARIO




Riforma gregoriana - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Con questa espressione, coniata da Augustin Fliche negli anni Venti del secolo scorso e ormai abbandonata dalla medievistica, ma ancora persistente in ambienti meno avvertiti, si intendeva rappresentare il grande movimento di riforma della Chiesa compreso tra gli anni Quaranta del secolo XI e i primi due decenni del secolo successivo, interpretandolo come premessa, esecuzione e compimento di un progetto unitario di Gregorio VII (1073-1085), già avviato prima ancora che questi divenisse pontefice (le prime notizie su Ildebrando di Sovana risalgono ai primissimi anni Cinquanta del secolo XI) e proseguito attraverso l’operato dei suoi successori. La centralità di Gregorio VII nel vasto e articolato movimento di riforma del suo tempo era già avvertita da molti contemporanei, come Bonizone di Sutri, che proprio in quel papa riconobbe il protagonista dell’imponente cambiamento che avrebbe portato, nel corso di pochi decenni, all’affermazione del primato della Chiesa romana e della libertas Ecclesiae contro l’imperatore. L’errore di Fliche e dei numerosi studiosi che da lui hanno preso le mosse risiede nell’aver accettato la lettura proposta in seno alla linea risultata poi vincitrice come la verità storica. Ne discendono numerose aporie, opportunamente corrette in primo luogo da Gerd Tellenbach, Ovidio Capitani e Cinzio Violante: ritenere che l’imperatore fosse un semplice laico, che la sua azione politica fosse di rottura rispetto alla tradizione, che lo scontro si svolgesse sul piano della lotta fra spiritualità (Chiesa) e temporalità (Impero, laici) e che il movimento di riforma della Chiesa e nella Chiesa fosse organico e unitario. Al contrario, gli studiosi contemporanei hanno concluso che, lungi dal ristabilire un ordine violato, Gregorio VII voleva sovvertire il sistema ereditato dalla tradizione. Infatti l’attribuzione di prerogative di controllo e tutela della Chiesa all’imperatore, persona consacrata, era perfettamente in linea con una tradizione che si era affermata almeno a partire dall’età carolingia e che risaliva al modello di Costantino. Anche il sistema della Chiesa imperiale (Reichskirche), imperniato su vescovi e grandi abati, era percorso da fervide aspirazioni di riforma, promosse e realizzate dapprima su scala locale dai vescovi, quindi dallo stesso imperatore Enrico III (1039-1056), il propugnatore di una dura lotta contro la simonia, che rafforzò il papato e gettò le basi del protagonismo della Sede Apostolica, che a partire dagli anni Sessanta del secolo XI cercò di catalizzare e coordinare le molte anime, anche contrapposte, del movimento riformatore. Insomma, per non fare che un esempio inerente allo stesso fronte riformatore romano, per analogia possiamo affermare che Ildebrando di Sovana e Pier Damiani stanno alla Riforma come Cavour e Mazzini al Risorgimento italiano: le enormi differenze di idee ed azioni furono in entrambi i casi sottostimate dal giudizio storico, al fine di costruire l’idea di movimenti unitari e condivisi.

La prima fase della Riforma della Chiesa nel secolo XI (espressione molto più adatta di “Riforma gregoriana” per abbracciare l’intero fenomeno) fu promossa da numerose sedi episcopali in Italia e fuori di essa tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo XI. Le istanze di riforma partivano dalla constatazione che i patrimoni ecclesiastici si trovavano depauperati dalla forte commistione degli interessi delle aristocrazie. La proposta di cambiamento si rivolgeva lungo due linee direttrici fondamentali, che sono poi quelle cui s’improntò l’intero ciclo di riforme nella sua lunga durata. In primo luogo si cercò di ottenere un rafforzamento dei patrimoni, e dunque della forza di intervento sia politico che spirituale degli enti ecclesiastici; in questa azione, tuttavia, non si intendeva agire, come sarebbe accaduto in seguito, considerando le aristocrazie laiche come necessariamente estranee alle Chiese, bensì organiche e necessarie al governo. In secondo luogo, si cercò di modificare il genere di vita del clero, promuovendone la vita comune a imitazione del modello monastico. Soprattutto nella seconda metà del XI secolo e durante la prima metà del successivo furono istituite numerose canoniche regolari, ove vigeva la cosiddetta Regola di s. Agostino. La pressante richiesta di una vita vissuta con maggiore rigore mirava a realizzare un modello di chierico di fatto assimilato al monaco, sovraordinato e fortemente distinto dalla comunità di cui faceva parte. Siccome non era più accettabile che persone sposate accedessero agli ordini sacri, si diffuse il principio del celibato del clero, mentre i chierici legittimamente ammogliati fino a quel momento furono accusati – benché con forti contrasti interni, per esempio nella diocesi milanese – di “nicolaismo”. Inoltre si denunciò con forza la “simonia”, cioè l’assunzione di cariche ecclesiastiche dietro corresponsione di un prezzo, e – nel caso delle canoniche regolari riformate – si esclusero i chierici dalla possibilità di avere proprietà personali, in questo imitando ancora una volta i monaci. Sotteso a queste istanze di rinnovamento vi era l’anelito di ritornare alla purezza originaria della Chiesa, di ricreare la Ecclesiae primitivae forma: da ciò l’espressione reformatio, cioè restituzione di una forma ritenuta originaria.

Negli anni dell’imperatore Enrico III (1039-1056) gli ideali e le conseguenti politiche di riforma iniziarono ad avere un centro propulsore molto più organico che non in precedenza. Come scrive Cinzio Violante, «Enrico III […] fu l’ultimo imperatore che […] poté difendere incontrastato un ideale di collaborazione perfetta tra regnum e sacerdotium, fondato sulla sostanziale fusione di queste due realtà nella persona dell’imperatore». Durante il suo regno assistiamo al momento apicale della forza e unitarietà della Chiesa imperiale. Sceso in Italia nell’ottobre 1046, Enrico tenne un sinodo antisimoniaco a Pavia. Il suo atto più significativo fu però il sinodo di Sutri del dicembre successivo, celebrato poco tempo prima di essere incoronato imperatore. Il sovrano rimosse i tre papi che si contendevano la sede apostolica e ne scelse un quarto, Clemente II, che era l’arcivescovo di Bamberga. Da allora e per un decennio – fino alla morte di Vittore II nel 1057 – il papato romano fu sostanzialmente controllato dall’imperatore (nonostante la strenua opposizione delle aristocrazie locali), la riforma iniziò ad avere l’Urbe come centro di irradiamento e il papa e l’imperatore come suoi principali propagatori. In quel periodo, soprattutto Leone IX (1049-1054) fu il pontefice che maggiormente si indirizzò verso concrete azioni di riforma..

Sarebbe peraltro erroneo cogliere nelle iniziative imperiali un desiderio di “riforma della Chiesa” nel senso solitamente attribuito a questa espressione, poiché alla sua base non vi era una nuova ecclesiologia, bensì l’uso di schemi carolingi che a loro volta evocavano, nel rapporto imperatore-papa, il modello costantiniano. Si voleva infatti il rinnovamento dell’Impero in quanto contenitore istituzionale dell’intera societas christiana. Per questa ragione, per il periodo di Enrico III può essere più espressivo ricorrere al termine “restaurazione” piuttosto che al termine “riforma”.

In quegli stessi anni si andava formando in seno alla Chiesa un gruppo di ecclesiastici (tra cui Bruno di Toul, Pier Damiani, Ugo Candido, Umberto di Silvacandida, Stefano di Lorena, Odilone e Ugo di Cluny, Anselmo da Baggio, Ildebrando di Sovana, Guiberto di Ravenna, Bonizone di Sutri) di idee molto diverse gli uni rispetto agli altri. Alcuni, per esempio Pier Damiani, apprezzavano l’operato dell’imperatore; altri (tra i quali soprattutto Ildebrando di Sovana) preparavano il terreno a un distacco tra gli ideali dell’Impero e quelli della Chiesa romana. Dopo la morte improvvisa di Enrico III, cui seguì la lunga minorità del successore Enrico IV, Roma iniziò a prendere in mano l’iniziativa in modo sempre più indipendente dall’Impero, che versava in uno stato di grave debolezza. Nel 1059, il Decretum in Nomine Domini stabilì nuove regole per l’elezione pontificia escludendone i romani e attribuendone il diritto ai soli cardinali. Anche se il decreto faceva salvi l’honor e la reverentia del re, è evidente che la Chiesa romana (o meglio, un ben individuato gruppo di cardinali vescovi con alcuni altri cardinali, tra i quali Ildebrando, allora arcidiacono) rivendicava ormai una larga autonomia, che stava per diventare la netta affermazione della Libertas Ecclesiae e la lotta senza quartiere tra Regnum e Sacerdotium. Il “sistema”, però, ancora non era strutturato e il movimento seguiva varie direzioni, non essendo per nulla omogeneo. Tant’è che, per esempio, Pier Damiani, rinunciò al cardinalato, Ugo Candido passò dalla parte imperiale, Guiberto di Ravenna, sottoscrittore del decreto del 1059, nel 1080 fu eletto papa contro Gregorio VII.

Entrando dunque nello specifico dell’operato di Ildebrando di Sovana – Gregorio VII (ché solo a lui si può attagliare perfettamente – secondo Ovidio Capitani – il concetto di “Riforma gregoriana”), possiamo riassumere la sua azione in quattro principi fondamentali e interdipendenti. Il primo di essi è la cosiddetta “clericalizzazione del clero” (l’espressione è di Pierre Toubert), ovvero la sempre più evidente volontà e capacità di distinguere i membri del clero rispetto agli altri gruppi sociali, nonché di assumere, da parte degli ecclesiastici, il controllo capillare dello spazio, dei simboli, delle liturgie e di tutti gli aspetti legati alla sacralità. Il secondo principio, che ne è diretta conseguenza, è la volontà di estromettere i laici da tutto ciò che riguarda il governo della Chiesa. Il terzo principio, diretta conseguenza degli altri due, è l’estromissione dell’imperatore, ritenuto equiparabile a un laico, da tutto ciò che riguarda la gestione del sacro, a cominciare dalle investiture dei vescovi (contrasto che provoca la “Lotta per le Investiture”). Infine il quarto principio è la sostituzione dei quadri di riferimento generali: da una idea di societas christiana ordinata nell’appartenenza all’Impero romano, si passa a un’idea della medesima societas ordinata nell’appartenenza alla Chiesa romana. La centralità della Chiesa romana e del suo vertice, il pontefice, fu dunque la grande novità che, a ben guardare (come ha fatto G.M. Cantarella), rappresentò una vera e propria rivoluzione. Naturalmente, i contrasti furono fortissimi e, alla resa dei conti, nell’immediato non portarono alla vittoria di Gregorio VII. Deposto nel 1076, egli riuscì a portare l’imperatore a chiedere il perdono a Canossa (1077), ma fu nuovamente deposto nel 1080 e si vide contrapposto l’arcivescovo di Ravenna Guiberto Clemente III (1080-1100). Sebbene fosse effettivamente stato un grande papa riformatore, propugnatore di un’idea altissima del pontificato romano e convinto della necessità che esso si ponesse alla testa della cristianità (suoi sono i Dictatus papae, ventisette proposizioni che dichiarano l’assoluta preminenza della Chiesa romana), esaltato o denigrato con toni accesi dai suoi fedeli e dagli oppositori, in realtà la sua capacità operativa fu relativamente limitata. L’ultimo suo atto, il tentativo di recuperare Roma con l’ausilio dei Normanni, portò a un immane saccheggio della città (1084) e alla fuga verso Salerno, dove morì e fu sepolto nel 1085.

La fase successiva, generalmente considerata anch’essa, in modo ovviamente improprio, parte della “Riforma gregoriana”, si situa tra la morte di Gregorio VII e il concordato di Worms (1122). Alla morte di papa Gregorio il partito riformatore, che continuò a scegliere i propri pontefici tra cardinali tutti appartenenti al monachesimo, si trovò in grave difficoltà. Mentre Vittore III (1086-1087) non ebbe neppure il tempo di procedere ad ampie riforme, il suo successore Urbano II (1088-1099) dovette competere con Clemente III, allora considerato da molti il papa legittimo e saldamente insediato a Roma. L’indebolimento dell’imperatore (al quale si ribellò anche il figlio Enrico V), la sempre più forte istituzionalizzazione della Curia romana e la sua vieppiù amplificata capacità di azione (per esempio Urbano II bandì la Prima crociata) portarono peraltro a un rafforzamento sempre maggiore del papato romano, ormai avviato su una strada di accentramento delle prerogative e di irradiamento dell’autorità che non si sarebbe interrotto fino al principio del secolo XIV. I primi due decenni del secolo XII, in particolare, pur segnalandosi per i numerosi periodi di rottura con l’Impero e per il proseguire della Lotta per le Investiture, si chiusero con una pacificazione temporanea ottenuta attraverso il concordato di Worms. Furono, quelli, in assoluto gli anni di più intensa riforma. Questa si indirizzò soprattutto verso i canonici regolari (nascita dei Premostratensi), verso i monaci (nascita dei Cistercensi) e verso i primi cosiddetti ordini monastico-cavallereschi: i Templari e gli Ospitalieri.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Fliche, La riforma gregoriana e la riconquista cristiana, 1057-1123, SAIE, Torino 1959 (ediz. orig. La Réforme grégorienne, Spicilegium sacrum Lovaniense, Louvain 1924-1937); Studi Gregoriani (collezione curata inizialmente da G.B. Borino, edita a Roma, presso l’Abbazia di San Paolo, dal 1947, e proseguita presso il Pontificio Ateneo Salesiano); O. Capitani, Esiste un’“età gregoriana”?, «Rivista di storia e letteratura religiosa», I (1965), 451-481; G. Miccoli, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, La Nuova Italia, Firenze 1966; Il monachesimo e la riforma ecclesiastica (1049-1122), Atti della IV Settimana Internazionale di Studio (Passo della Mendola, 23-29 agosto 1968), Vita e Pensiero, Milano 1971; O. Capitani, L’Italia medievale nei secoli di trapasso. La riforma della Chiesa (1012-1122), Patron, Bologna 1984; G. Tellenbach, Die westliche Kirche vom 10. bis zum frühen 12. Jahrhundert, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1988; C. Violante, La riforma ecclesiastica del secolo XI come progressiva sintesi di contrastanti idee e strutture, «Critica Storica», XXVI (1989), 156-166; G. Cantarella, Il sole e la luna: la rivoluzione di Gregorio VII, papa (1073-1085), Laterza, Roma-Bari 2001; Riforma o restaurazione? La cristianità nel passaggio dal primo al secondo millennio: persistenze e novità. Atti del XXVI Convegno del Centro Studi Avellaniti Fonte Avellana 29-30 agosto 2004, Il segno dei Gabrielli Editori, Negarine 2006; C. Sereno, Le diverse anime della “riforma”, in Reti medievali, Repertorio, 2006, http://centri.univr.it/RM/repertorio/rm_cristina_sereno_la_riforma.html (cons. maggio 2012); N. D’Acunto, L’età dell’obbedienza: papato, impero e poteri locali nel secolo XI, Liguori, Napoli 2007.


LEMMARIO




Riforma protestante - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Già al concilio di Costanza (1415-1418) era risuonato l’accorato appello per una Reformatio ecclesiae in capite et in membris; un invito più volte ripetuto sino agli inizi del ‘500, ma rimasto inascoltato a causa di una gerarchia e di un papato per molti versi non all’altezza delle sfide religiose del tempo. Sfide che in Germania trovano terreno fertile, anche sul piano politico e sociale, per uno scontro con Roma e non solo sulla questione delle indulgenze, il cui esito sarà la Riforma protestante e la divisione della cristianità occidentale. A Wittenberg con Lutero (†1546), come a Zurigo con Zwingli (†1531), a Ginevra con Calvino (†1564) e a Strasburgo con Bucer (†1551) viene elaborandosi un modello di riforma della chiesa che, oltre a modificare aspetti pastorali, disciplinari e liturgici, tocca punti decisivi della teologia e della dottrina nel tentativo di riportare la compagine ecclesiale alle sue origini evangeliche, riscoprendo e sostenendo la centralità del solus Christus, sola Scriptura, sola gratia, sola fide; una riforma, però, che Leone X rigetta come “eretica” (Lutero è scomunicato il 3 gennaio 1521 con la bolla Decet Romanum Pontificem ed è bandito dall’Impero con l’editto di Worms dell’8 maggio 1521), sovversiva ed esiziale per l’assetto religioso e politico/finanziario della chiesa tardo-medievale e rinascimentale, innescando così un conflitto nell’impero di Carlo V, ben presto trasformatosi in scontro armato tra protestanti e cattolici che solo nel cuius regio, eius et religio della dieta di Augusta del 1555 troverà una soluzione politica, ancorché insufficiente a garantire la pace nella tolleranza. Non solo in Germania, in Svizzera, in Francia, in Olanda, in Inghilterra, dove vengono a costituirsi stati confessionali e chiese evangeliche, ma anche in Italia – ed è il territorio che qui ci interessa in modo particolare – il disagio profondamente avvertito da non pochi ecclesiastici, intellettuali e gente del popolo di fronte ad un cristianesimo per molti versi “esteriorizzato”, “mondanizzato” e con una struttura di potere autoritaria e clericale, alimenta un dissenso ora esplicito ora più prudentemente “nascosto” (“Nicodemismo”), che si incanala concretamente o nell’adesione alla Riforma d’Oltralpe oppure nell’evangelismo degli «spirituali», in ambedue i casi perseguitato e represso dall’Inquisizione romana. In concreto, le idee di rinnovamento religioso che attraversano l’Europa nella prima metà del ‘500 giungono anche in Italia, prendendo forme molto diverse, dal movimento valdesiano al «cattolicesimo evangelico», dalla Riforma zwingliana, calvinista e luterana al radicalismo anabattista, alle posizioni eterodosse degli «eretici» e degli antitrinitari. E’ difficile, quindi, se non vano cercarvi un denominatore comune. Occorre dire inoltre che tale fermento riformatore diffuso nell’intera penisola trova promotori convinti soltanto in alcuni circoli, città e personalità prima di scomparire del tutto nella seconda metà del XVI secolo – ad eccezione delle comunità valdesi del nord-ovest d’Italia – sotto i colpi della censura controriformistica.

A Napoli intorno a Juan de Valdés (†1541) si crea negli anni Quaranta-Cinquanta un cenacolo di «spirituali», a cui appartengono nomi illustri come le nobildonne Vittoria Colonna (†1547), Giulia Gonzaga (†1566), Isabella Bresegna (†1567), l’agostiniano fiorentino Pier Martire Vermigli (†1562) e il vicario generale dei cappuccini Bernardino Ochino (†1564), entrambi passati successivamente alla Riforma protestante, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi (†1567), finito nelle mani dell’Inquisizione, processato e giustiziato a Castel Sant’Angelo come eretico, l’umanista Marcantonio Flaminio (†1550), i patrizi Bartolomeo Spadafora (†1566), Mario Galeota (†1585) e Galeazzo Caracciolo (†1586), divenuto quest’ultimo calvinista e rifugiatosi a Ginevra nel 1551. Nei suoi interventi formativi e negli scritti pubblicati postumi – tra i maggiori si ricordano l’Alfabeto Cristiano e le Cento e dieci divine considerazioni – il cavaliere e filosofo spagnolo fa proprie alcune posizioni di Lutero (l’uomo è giustificato soltanto per la giustizia di Cristo mediante la fede; l’arbitrio dell’uomo non è libero; il peccatore riceve il perdono non in forza della confessione, ma perché crede in Cristo redentore), mentre se ne allontana a favore di uno spiritualismo evangelico che tende a svalutare l’aspetto esteriore del cristianesimo, compresi i sacramenti, e a negare ogni principio dogmatico di verità, per cui l’illuminazione interiore è preminente rispetto alla funzione “magisteriale” della Parola scritta, giacché non è la “lettera” a condurre il credente verso la verità, ma lo Spirito che la vivifica; e ancora: è lo Spirito e non la Scrittura l’unico maestro per i credenti “progrediti”. Fautore di una concezione a-gerarchica della chiesa, Valdés si astiene dall’attaccare direttamente la struttura del papato. E con lui i suoi discepoli, che in definitiva non vogliono causare rotture laceranti all’interno della compagine cattolica. Di forte ispirazione valdesiana è la predicazione a Napoli e in molte altre città italiane di Bernardino Ochino (†1564). Avvicinatosi col tempo sempre più alle posizioni “riformate”, l’ex frate cappuccino è costretto nel 1542 a fuggire a Ginevra, dove riceve asilo presso Calvino e aderisce pienamente alla dottrina protestante. E sono ancora i discepoli di Valdés a diffonderne il pensiero e la spiritualità a Roma, Firenze, Padova, Venezia e in particolare a Viterbo tramite Flaminio e Carnesecchi col coinvolgimento e sotto la protezione del cardinale inglese Reginald Pole (†1558) aperto alla riforma della chiesa e alla giustificazione per fede. E’ nell’Ecclesia Viterbiensis che Flaminio matura nel 1541-43 la revisione “riformata” del Trattato utilissimo del Beneficio di Gesù Cristo di Benedetto da Mantova (†1556); un’opera molto apprezzata da uomini come i cardinali Morone e Pole, ma ben presto accusata di “eterodossia” e messa all’Indice, e che costituisce in realtà il documento letterario più importante, seppure con linguaggio velato, del passaggio dall’evangelismo al calvinismo.

Alla Riforma protestante sia nella versione luterana che riformata aderiscono gruppi diversi in varie parti del paese sotto la guida di leaders convinti e combattivi. I valdesi, la cui presenza si concentra nelle Valli del Pinerolese, col Sinodo generale di Chanforan del 1532, dominato dalla figura di Guillaume Farel (†1565), passano al protestantesimo svizzero, divenendo così un canale di diffusione, soprattutto attraverso la stampa, delle nuove dottrine non soltanto in Piemonte, ma nel Delfinato e nel Marchesato di Saluzzo, oltre che in Calabria e nelle Puglie. Idee evangeliche si fanno strada negli anni Trenta-Quaranta nella Repubblica di Lucca e nel ducato di Ferrara. Nella città toscana predica nel 1538 Ochino, ma soprattutto vi giunge nel 1541 l’agostiniano Pier Martire Vermigli (†1562). Discepolo di Valdés e passato alle tesi calviniste, questi istituisce per i novizi del suo ordine e per i giovani intellettuali lucchesi una scuola di bibbia con corsi di latino, greco ed ebraico e, facendo leva sulle sue doti di scrittore, si mette al servizio della propagazione della fede evangelica, aiutato peraltro da alcuni collaboratori, tra cui Celio Secondo Curione (†1569). L’anno dopo, però, è costretto ad espatriare e rifugiarsi a Strasburgo presso Bucer e da qui ad Oxford, chiamato da Cranmer per sistemare la dottrina, il diritto e la liturgia della chiesa anglicana. Orientatosi progressivamente in senso zwingliano (dopo il 1553 si stabilisce a Zurigo) con una forte coloritura anti-luterana (è convinto che sia meglio nessun battesimo piuttosto che riceverlo dai predicatori luterani, visto anche che il battesimo non è necessario alla beatitudine eterna), Vermigli è uno tra gli uomini più eruditi del suo tempo e il più dotto dei protestanti italiani. Anche dopo la sua partenza, nel 1542, Lucca continua ad essere per qualche tempo centro di diffusione della Riforma, basti ricordare l’opera di Girolamo Zanchi (†1590), obbligato a lasciare la città nel 1551 per trasferirsi come professore prima a Strasburgo e poi ad Heidelberg, o l’attività delle famiglie dei Diodati e dei Turrettini, costretti ad espatriare a Ginevra, dove assumeranno ben presto posizioni di rilievo nel governo e nell’accademia della città lemana, o anche l’insegnamento dell’umanista Aonio Paleario, che dopo essere emigrato a Milano nel 1556 per coprire la cattedra di studi umanistici, nel 1568 viene preso dall’Inquisizione romana, processato, condannato come eretico impenitente e giustiziato a Castel Sant’Angelo nel 1570.

Non meno vivo che in Toscana è il movimento evangelico a Ferrara e a Modena. Nella città estense numerose famiglie accettano la fede riformata, non ostacolati peraltro dal vescovo locale, il card, Morone, promotore dell’evangelismo e ammiratore e diffusore de Il beneficio di Cristo, e nasce l’«Accademia» di Giovanni Grillenzoni (sarà sciolta dal Duca di Ferrara nel 1543) come cenacolo per discutere il rinnovamento della chiesa, questioni teologiche e morali e per promuovere attività in vista della propagazione della cultura umanistica e del pensiero protestante. Allo stesso scopo sono orientati anche le iniziative di due grandi protagonisti del protestantesimo a Modena, il letterato Ludovico Castelvetro (†1571), studioso attento degli scritti dei riformatori e traduttore delle opere di Melantone (Loci communes), e il predicatore itinerante Bartolomeo della Pergola († ?), discepolo di Valdés. L’evangelismo modenese si presenta in concreto orientato in varie direzioni: alla componente valdesiana, si affiancano orientamenti luterani e riformati e fermenti di matrice anabattista. Attiva sostenitrice della fede calvinista a Ferrara è Renata di Francia (†1575), moglie del duca Ercole II. Con Calvino mantiene una fitta corrispondenza dopo la visita di questi alla città nel 1536 e si prodiga nell’accoglienza degli ugonotti esuli dalla Francia e degli altri dissenzienti perseguitati nel territorio italiano. La città stessa con la presenza di studenti stranieri, a volte protestanti, che frequentano l’università, rivela aperture ed interessi verso le idee nuove, ma è anche teatro negli anni Cinquanta di processi ed esecuzioni capitali di dissidenti come i casi del fornaio Fanino Fanini, condannato nel 1550 con l’accusa di propagare eresie, e del visionario catanese Giorgio Rioli, detto il Siculo, amico di Benedetto da Mantova e “nicodemita”, spiritualista radicale e antiprotestante (cfr. Epistola alli cittadini di Riva di Trento contra il mendacio di Francesco Spiera et falsa dottrina d’ Protestanti), giustiziato per le sue dottrine eversive nel 1551, e dello stesso processo del 1554 al gruppo calvinista della corte ferrarese con a capo Renata di Francia.

Ma è specialmente la Repubblica veneta ad essere centro di confluenza degli scritti e delle dottrine protestanti, sia perché la Serenissima è crocevia di scambi commerciali e culturali con Svizzera e Germania meridionale e leader dell’editoria europea con i suoi 500 editori e tipografi, ma anche per il potere limitato che l’Inquisizione vi esercita. Tra gli anni Quaranta-Settanta Venezia gioca un ruolo determinante per l’irradiazione delle nuove idee per tutta la penisola e, come avviene in altri Stati italiani, nella città lagunare sono membri di ordini religiosi ad accogliere con favore le dottrine della Riforma e spesso nella loro formulazione più radicale, vicina all’anabattismo e al ribellismo sociale. A ciò si aggiunga l’apporto degli esuli dallo Stato della Chiesa e dalla Toscana, spesso anticlericali, savonaroliani e filoprotestanti. Così i francescani conventuali Girolamo Galateo (†1541) e Bartolomeo Fonzio (†1562) predicano a Venezia e Padova le tesi di Lutero, subendo per questo persecuzione e morte. Non meno pesante è la sorte di coloro che viceversa, convertiti dapprima al protestantesimo, finiscono per abiurare sotto il peso della persecuzione, dei processi e delle torture, cadendo nella disperazione e nel tormento interiore del rimorso; ed è il caso di Francesco Spiera (†1548) e del biblista Antonio Brucioli (†1566). Altri invece, come l’ex-benedettino Francesco Negri da Bassano (†1563) autore della Tragedia del libero arbitrio, preferiscono la fuga, aggiungendosi alla schiera di esuli per fede che in vari posti dell’Europa, specialmente a Ginevra, costituiscono l’ecclesia peregrinorum degli italiani. Il calvinismo arriva a Vicenza per iniziativa del nobile veneto Alessandro Trissino (†1609?). E, contemporaneamente sorgono a Padova, Venezia e Vicenza comunità anabattiste tra artigiani, salariati e piccola borghesia, spesso con venature di antitrinitarismo e i caratteri del radicalismo religioso e sociale. Anche lo Stato di Milano registra sin dagli anni Venti la presenza di nuclei evangelici di rilievo sia calvinisti che luterani. Cremona raccoglie la comunità protestante più consistente ed organizzata, dopo Lucca, fra tutte le città d’Italia, e dà il maggior numero di esuli a Ginevra. Pavia si accosta alla “nuova comprensione del vangelo” tramite l’insegnamento di Celio Secondo Curione e la predicazione dell’agostiniano Agostino Mainardo (†1563). L’influenza della Riforma arriva pure alla porta orientale dell’Italia, in Dalmazia e in Istria, ad opera dei due fratelli Vergerio. Pier Paolo (†1565), vescovo di Capodistria, rimane così affascinato dal pensiero protestante che, una volta scomunicato da Roma nel 1549, lascia la diocesi e da semplice pastore evangelico di Vicosoprano si dedica a creare collegamenti tra gli evangelici italiani esuli e i riformati svizzeri e nel 1553 diventa consigliere del luterano duca Cristoforo del Württemberg.

È di tutta evidenza da questo quadro sintetico che il moto riformatore italiano si caratterizza per una dimensione quasi esclusivamente urbana, se si eccettuano i territori in cui si concentrano le comunità valdesi; comunità peraltro che in seguito al Trattato di Cavour del 1561 costituiranno per molto tempo l’unico baluardo del protestantesimo in Italia. In effetti, la repressione controriformistica ben presto fa piazza pulita dei vari gruppi di dissidenti italiani e i pochi sopravvissuti si disperdono in Svizzera, Polonia, Germania, Francia, Boemia, Transilvania. Di questa “diaspora” fanno parte, tra gli altri, quei protestanti definiti «eretici» o anche «antitrinitari», in ultima analisi “ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiale” (Cantimori). Tra i nomi più noti giova menzionare: Celio Secondo Curione (†1569), Lelio (†1562) e Fausto Sozzini (†1604) e Giorgio Biandrata (†1588). Il primo, autore del Pasquillus extaticus (una feroce satira anticlericale e antipapale di grande successo), rifugiato a Losanna e a Basilea (1546), insegna una dottrina fortemente individualista e basata sulla tolleranza religiosa. I due Sozzini, lo zio Lelio e soprattutto il nipote Fausto, entrambi umanisti senesi ed approdati in Polonia e in Transilvania (dove la presenza di antitrinitari e di unitariani è molto forte), si fanno propagatori di una sorta di cristianesimo «liberale» lontano dagli assunti protestanti («socinianesimo»), basato su un approccio razionalistico alla dogmatica (Gesù non è Dio, ma divino; Gesù non salva l’uomo morendo sulla croce, ma attraverso l’esempio e la predicazione lo aiuta a salvarsi) e su una visione positiva dell’essere umano naturale, ed organizzano concretamente la cosiddetta ecclesia minor o chiesa unitariana; chiaramente le loro posizioni saranno duramente combattute da tutte le Ortodossie secentesche. Il medico saluzzese Biandrata, rifugiatosi in Transilvania, è il predicatore più esplicito dell’antitrinitarismo con l’opera del 1568 De falsa et vera unius Dei Patris, Filii et Spiritus Sancti cognitione.

In definitiva, però, tutti i vari tentativi di introdurre in Italia la Riforma e ancor prima i fermenti dell’evangelismo scompaiono alla fine del Cinquecento sotto l’attacco della Controriforma senza lasciare traccia. Rimarrà soltanto la presenza, seppure ghettizzata, dei valdesi che dopo il «Glorioso rimpatrio» (1689) verranno ad abitare nuovamente nei territori delle Valli, mentre all’estero nella diaspora continueranno a sopravvivere le comunità protestanti degli esuli italiani. Sarà il grande moto risorgimentale nell’Ottocento a fare uscire dal ghetto le chiese evangeliche e a facilitare il ritorno nella penisola di un protestantesimo, ormai plasmato in vari e nuovi modelli dal Pietismo, dal Metodismo, dal Battismo e ultimamente dal movimento del «Risveglio».

Fonti e Bibl. essenziale

L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Laterza, Roma – Bari 2010; Eresia e Riforma nell’Italia del Cinquecento. Miscellanea I, Firenze – De Kalb-Chicago 1974; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, (1949), a cura di A. Prosperi, Einaudi, Torino 2002; S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino 1997; S. Caponetto, Aonio Paleario (1503-1570) e la Riforma protestante in Toscana, Torino 1979; E. Fiume, Scipione Lentolo 1525-1599. Quotidie laborans evangelii causa, Claudiana, Torino 2003; M. Firpo, Tra alumbrados e “spirituali”. Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze 1990; M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento. Un profilo storico, Laterza, Roma-Bari 2008; G. Fragnito, Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma, Mulino,  Bologna 2011; Istituto Storico Lucchese, I lucchesi a Ginevra da Giovanni Diodati a Jean Alphonse Turrettini, Lucca 1993; A. Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio: The Making of an Italian Reformer, Genève 1977; S. Peyronel Rambaldi, Speranze e crisi nel ’500 modenese. Tensioni religiose e vita cittadina ai tempi di Giovanni Morone, Milano 1979; S. Peyronel Rambaldi (a cura di), Cinquant’anni di storiografia italiana sulla Riforma e i movimenti ereticali in Italia. 1500-2000, Claudiana, Torino 2002; A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000; A. Stella, Dall’anabattismo veneto al «Sozialevangeliums» dei fratelli hutteriti e all’illuminismo religioso sociniano, Roma 1996; V. Vinay, La Riforma protestante, Paideia, Brescia 21982.


LEMMARIO




Rinascimento - vol. I


Autore: Yvonne zu Dohna

Rinascimento, Neoplatonismo e Chiesa. Con il termine Rinascimento si vuole qualificare il clima culturale, creatosi in Italia tra il XV e XVI secolo, indicativamente dalla fine del grande scisma al Concilio di Trento (Vasari, Burckhardt, Michelet). La metafora di rinascita è inerente alla ripresa dell’eredità letteraria e artistica greco-romana. Il Rinascimento rappresenta un nuovo approccio al mondo classico e al senso della cultura e il suo studio coinvolge le dimensioni letterarie ed artistiche (Duhem, Randall), religiose e teologiche (De Lubac, Ulmann), scientifiche e filosofiche (Kristeller).

Il Rinascimento si caratterizzò per un “sano antropocentrismo”, che esaltò la persona umana nella sua unicità e perfezione. Questa fase storica può essere considerata come la “culla della modernità” nelle sue diverse matrici: filologico-ermeneutica (Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam), filosofico-cosmologica (Ficino, Cusano, Giordano Bruno), politica (Macchiavelli) e “moralistica” (Guicciardini, Castiglione). Gli scritti di Platone raggiunsero l’Italia attraverso le fonti arabe e bizantine e furono tradotti in latino. Umanisti come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola diedero vita a una nuova forma di “neoplatonismo cristiano”, offrendo una nuova interpretazione delle verità religiose alla luce del pensiero platonico. L’uomo è così concepito come immagine di Dio e la bellezza umana come riflesso della perfezione divina. Da un lato la bellezza terrena rivela all’anima umana le sue origini divine e dall’altro la bellezza divina suscita il desiderio di conoscenza (eros), di cui la fede rappresenta la sua forma compiuta. Nell’arte europea emerse un nuovo interesse per l’imitazione della natura, per una corporeità sensuale ed erotica e per la sua espressione classica. L’arte antica ne divenne il modello ideale.

Attraverso l’interesse per la cultura classica, la Chiesa espresse la volontà di inserirsi nella tradizione imperiale dell’Occidente e volle riprendere il tentativo di una presenza culturale e politica ispirata a quel modello. Gli emissari papali raccolsero molti scritti degli autori antichi fino a trasformare la Biblioteca Apostolica Vaticana, aperta da Sisto IV al pubblico nel 1475, in una collezione di altissimo valore culturale. In quei decenni l’intreccio tra il lavoro degli umanisti e la promozione ecclesiastica della cultura fu molto intenso. L’espressione di Terenzio homo sumnihil humani alienum mihi puto può essere considerata la cifra dell’orientamento culturale generale. Il cristianesimo rinascimentale attraversò diverse dinamiche e processi. Sulla scia della devotio moderna e dietro ispirazione della De imitatione Christi si assistette a una “interiorizzazione” ed “elementarizzazione”, affettiva ed intellettuale, della cultura, corroborata dall’ l’influsso degli ordini mendicanti e dei mistici (francescani, domenicani, spirituali, Eckhart, Taulero, Ruysbroeck), La riscoperta della cultura greca prese vigore da un rinnovato dialogo tra Oriente e Occidente, di cui si hanno tracce nel Concilio di Pisa, nel Concilio di Costanza e soprattutto in quello di Basilea-Ferrara-Firenze. Nel campo della teologia è possibile riscontrare le diverse anime del neoplatonismo (Ficino), dell’aristotelismo e del tomismo (De Vio) e dello scotismo (Della Rovere) oltre che alcuni fermenti di riforma (Savonarola). Non sono da dimenticare, infine, una certa espansione evangelizzatrice anche extraeuropea e la variegata vivacità della pietà popolare.

Neoplatonismo e artisti a Firenze. È Firenze, con i Medici, la culla di questo movimento. Con Brunelleschi, Donatello, Masaccio e Ghiberti iniziò un’intensa rievocazione delle forme antiche, ispirata dalla letteratura e da interessi archeologici. In seguito, con Botticelli, Leonardo, Michelangelo, sotto Lorenzo il Magnifico e l’influsso del Savonarola, lo stile dell’arte volle ispirarsi al pensiero filosofico, raggiungendo il suo vertice speculativo. Le maggiori peculiarità stilistiche furono l’utilizzo della prospettiva, un forte realismo descrittivo, anche anatomico, e la ricerca dell’essenzialità del tratto, tra lo studio della natura e il tentativo costante di una sua trasfigurazione artistica. Queste tendenze si espressero in modo diversificato e personalissimo nelle realizzazioni dei singoli artisti.

Neoplatonismo e politica culturale papale.  Grazie al rinnovato interesse mostrato dai Papi per l’arte, Roma divenne nella seconda metà del Quattrocento il centro della massima espressione della Weltanschauung rinascimentale. Il Palazzo Apostolico divenne uno scrigno d’arte. Finanche gli interventi dei Papi nell’ambito artistico furono espressione dell’intreccio tra l’influsso neoplatonico e la politica culturale ecclesiastica.

Giannozzo Manetti descrive nella sua biografia come Niccolò V (1447-1455), umanista fiorentino e primo tra i Papi che scelse di risiedere a Roma dopo la parentesi avignonese, modificò l’architettura e la decorazione della basilica vaticana di San Pietro quale espressione del suo potere imperiale. Rinnovò, inoltre, le mura cittadine e il Campidoglio (Antonio da Firenze, Leon Battista Alberti, Bernardo Rossellino, Fra Angelico).

Pio II (1458-1464), umanista, scrittore e diplomatico, incaricò Rossellino di trasformare Corsignano, il modesto borgo della sua nascita, nella città ideale di Pienza. A Roma fece realizzare la Loggia delle Benedizioni di S. Pietro da Francesco del Borgo, allievo di Alberti, che si ispirò al Tabularium e ai teatri antichi.

Per Paolo II (1464-1471) Francesco del Borgo trasformò il suo palazzo cardinalizio e l’adiacente chiesa di S. Marco in una nuova e moderna residenza papale ai piedi del Campidoglio: il Palazzo Venezia.

Sisto IV (1471-1484), francescano, rinnovò il sistema viario della città, costruì il Ponte Sisto, l’ospedale di Santo Spirito, il convento agostiniano di S. Maria del Popolo e la Cappella Sistina. La Sistina è paradigma esemplare dello stile quattrocentesco di Roma, ove Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, nelle vite di Mosè e di Cristo, mettono a confronto i due testamenti. La morte di Mosè è raffigurata secondo un’iconografia particolare: egli muore, non in solitudine nell’atto di contemplare la terra promessa, ma in mezzo al popolo che lo piange. Il corpo morto di Mosè è, nel senso tipologico, una prefigurazione del Melismos, il corpo morto di Cristo e il corpo eucaristico sull’altare.

Alessandro VI (1492-1503), grande e discusso uomo politico, chiamò Antonio il Vecchio da Sangallo, fratello minore di Giuliano, l’architetto di Lorenzo il Magnifico, per fortificare Castel S. Angelo e per costruire la Torre Borgia in Vaticano e la rocca di Civita Castellana. Incaricò, inoltre, il Pinturicchio per la decorazione dell’Appartamento Borgia.

Giulio II (1503-1513), di formazione francescana come lo zio Papa Sisto IV, scelse Bramante come suo architetto sia per l’ingrandimento e il rinnovamento del Vaticano (Cortile del Belvedere, Logge, Stanze), sia per la ricostruzione della Basilica di S. Pietro. Nel braccio del coro doveva essere collocato il suo monumento funebre e in esso Michelangelo avrebbe dovuto oltrepassare idealmente tutte le precedenti realizzazioni scultoree.

Il Palazzo dei Tribunali, sede di tutti i tribunali della Curia e della città, doveva essere costruito di fronte alla vecchia sede del Vicecancelliere, in una piazza della nuova Via Giulia, che il ricostruito Ponte Trionfale avrebbe collegato direttamente con il Vaticano. Giulio II fu anche un grande collezionista di sculture antiche e collocò l’Apollo del Belvedere, la sua statua preferita, il Laocoonte, appena rinvenuto, e altre icone nel giardino superiore del Belvedere. Le sue architetture gigantesche, le iscrizioni e le statue rispecchiano l’utopia personale di un impero papale, che avrebbe dovuto esercitare la sua egemonia sull’intera penisola italiana. Nelle sue committenze pittoriche si espressero non solo le sue ambizioni politiche, ma anche il suo pensiero profondamente religioso e molto vicino al Neoplatonismo. Nella volta della Cappella Sistina, avviata nel 1508, Michelangelo rappresentò la Creazione e la storia di Noè, ispirandosi anche alle interpretazioni di Egidio da Viterbo (Pfeiffer) e Rashi (Doliner Blech, Dohna). L’iconografia della Sistina è un affresco dell’opera di graduale differenziazione con cui Dio imprime all’universo la sua forma originaria ed esercita la sua signorìa sulla storia con l’elezione di Israele e con l’evento dell’Incarnazione, reso dalla successione degli antenati di Mosè fino a Cristo. Nello stesso periodo Raffaello evocò nella Stanza della Segnatura la grande rinascita, con Papa Giulio II, della promozione della teologia, delle scienze, delle arti e della poesia, mentre nella Stanza di Eliodoro e nella Madonna Sistina volle significare l’incolumità della Chiesa dalle minacce politiche e dallo scisma, grazie alla protezione divina e alla fede del Papa (Frommel). Sotto Giulio II Roma divenne il centro dell’arte europea, momento aureo delle arti in cui il cristianesimo abbracciò mirabilmente la tradizione antica. Leone X Medici (1513-1521) si formò nella Firenze di Marsilio Ficino e Angelo Poliziano. Come il padre, Lorenzo il Magnifico, fu amante e collezionista d’arte e promosse l’attività di raffinate cerchie di intellettuali. Unendo lo Studium sacri palatii, il Collegium Vaticani e lo Studium urbis diede vita all’Università “La Sapienza”, favorendo lo studio delle lingue antiche. Promosse il recupero di manoscritti, l’allestimento di biblioteche, la musica, la cura delle lettere, creando un’Accademia di belle arti ante litteram. Dopo la morte di Bramante nominò Raffaello come primo architetto papale, incaricandolo di ingrandire la Basilica di S. Pietro e di continuare la decorazione delle Stanze e della Cappella Sistina con due cicli di arazzi che rappresentano la storia degli apostoli e i successori di Mosè e Cristo, già evocati dai pittori quattrocenteschi. Le scene di S. Pietro erano collocate sotto quelle di Mosè, simbolo della Ecclesia ex circumcisione e le scene di Paolo sotto quelle di Cristo, che evocano l’Ecclesia ex gentibus. Ambedue i cicli testimoniano la futura maiestas papalis. Con la sua erudizione e il suo carattere tranquillo e sereno Leone X favorì l’aspetto classicista dell’arte di Raffaello. La maggior parte dei suoi grandi progetti architettonici, purtroppo, non fu mai realizzata e la stessa Villa Madama, cominciata su iniziativa di suo cugino, il Vicecancelliere Giulio de’ Medici, non procedette oltre la metà.

Adriano VI (1521-1523), segretario olandese di Carlo V ed eletto su pressione di questo, era molto meno interessato alle arti e alla cultura antica. In un’incisione in cui l’Avarizia caccia le Muse dal tempio delle arti, Baldassarre Peruzzi, il secondo architetto del papa che disegnò anche la sua tomba a S. Maria dell’Anima, riprovò questo atteggiamento contrario allo spirito del Rinascimento. A seguito del nuovo clima culturale alcuni artisti lasciarono Roma e la città perse il suo ruolo di centro artistico.

Inizialmente Clemente VII (1523-1534) alimentò la speranza che Roma fosse di nuovo un theatrum mundi per tutti i geni del tempo. Già come cardinale aveva commissionato a Raffaello la Villa Madama e la Trasfigurazione, a Sebastiano del Piombo la Risurrezione di Lazzaro, ad Andrea del Sarto e al Pontormo gli affreschi di Poggio a Caiano e diverse realizzazioni scultoree a Bandinelli e Rustici. La sua più importante committenza pittorica fu la Sala di Costantino, iniziata sotto Leone X da Raffaello e ultimata negli anni 1520-24 da Giulio Romano e G. F. Penni. I brevi intermezzi di Rosso Fiorentino e Parmigianino, che non ottennero da lui alcuna committenza, non giustificano l’ipotesi di uno “stile clementino”. I suoi architetti rimasero Sangallo e Peruzzi ed egli spostò la sua attività architettonica in imprese familiari della natìa Firenze, incaricando Michelangelo di completare la Cappella Medicea e di costruire la Biblioteca Laurenziana. Giulio Romano, l’unico tra gli artisti romani con le velleità dell’uomo “capriccioso”, lasciò per sempre la città già nel 1524, anche in seguito alla crisi politica, finanziaria e artistica che afflisse il centro della cristianità dopo il Sacco di Roma. In quegli anni la costruzione di S. Pietro fu sospesa e i pochi artisti rimasti cercarono altrove committenti più generosi.

Clemente VII incaricò Michelangelo del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, ma solo Paolo III (1534-1549) riuscì a farlo dipingere. L’affresco del Giudizio Universale riflette i dibattiti del tempo sul destino dell’uomo, sull’immortalità dell’anima e la risurrezione della carne. Nella figura del Cristo Risorto, raffigurato privo di barba e con una folta chioma di capelli, si esprime la nuova tradizione iconografica del nuovo Adamo, purificato, forte e fisicamente bello.

Panoramica italiana. In Italia il pensiero rinascimentale si sviluppò con modi ed espressioni diversificati. Pur formati alla scuola dello stile fiorentino, molti artisti s’interessarono ai grandi innovatori fiamminghi, come van Eyck e Rogier van der Weyden. Rivolsero pari attenzione ai francesi, come Jean Fouquet e ai tedeschi, come Schongauer, Dürer, Grünewald e Holbein. Ispirati all’arte nordica e ad Antonello da Messina, pittori veneziani come Giovanni Bellini e la sua scuola svilupparono un colorismo rivoluzionario, adottato perfino da Raffaello e con cui Tiziano aprì nuovi orizzonti per l’arte sacra. Accanto a Venezia, i centri artistici più vitali dell’Italia settentrionale nel Quattrocento furono le corti di Ferrara, Mantova, Urbino, Napoli e Milano, che grazie ad Alberti e Mantegna contribuirono sostanzialmente alla maturazione del nuovo stile. Ispirato dal giovane Leonardo, anche Perugino sviluppò a Perugia e Firenze la sua maniera “dolce e soave”, che proseguì nelle opere di Pinturicchio e del giovane Raffaello. Un esempio isolato fu Siena con una pittura al confine fra gotico e Rinascimento. Grazie al re Alfonso II di Napoli e i suoi discendenti crebbe anche a Napoli un centro artistico, ove confluirono influssi dall’antico, da Firenze e da Roma, dalle Fiandre, dal mondo arabo-ispanico. Il Rinascimento appare, dunque, come un fenomeno tipicamente italiano che solo alla fine del Quattrocento cominciò a espandersi in Francia e Spagna e solo nel Cinquecento si estese all’Europa centrale e orientale e all’Inghilterra.

Fonti e bibliografia essenziale

S.J. Freedberg, Painting of the High Renaissance in Rome and Florence, 2 voll., Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1961; P.O. Kristeller, La tradizione classica nel pensiero del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1969; H. de Lubac, Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del Rinascimento, Jaca Book, Milano 1977; P.O. Kristeller, Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, ed. S. Silvestroni, La Nuova Italia, Firenze 1978;  E. Garin, Il Rinascimento italiano, Cappelli, Bologna 1980; J.F. D’Amico, «Humanism in Rome»in A. Rabil Jr., ed., Renaissance Humanism, Foundations, Forms and Legency, vol. 1, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1988; A. Esch ‒ C.L. Frommel, ed., Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento (1420-1530). Atti del Convegno internazionale. Roma 24-27 ottobre 1990, Biblioteca Hertziana, Istituto storico germanico di Roma, Einaudi, Torino 1995; E. Panofsky, «Il movimento neoplatonico a Firenze e nell’Italia settentrionale», in Id., Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1999, 184-235; A. J. Grieco ‒ al., ed., The Italian Renaissance in the twentieth century. Acts of an international conference, Florence, Villa I Tatti, June 9-11 1999, Olschki, Firenze 2002; A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, ed. M. Ghelardi, Aragno, Torino 2004; E. Garin, La cultura del Rinascimento. Profilo storico, Laterza, Roma-Bari 20056;  T. Verdon, L’arte cristiana in Italia 2, Rinascimento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006; C.L. Frommel, The Architecture of the Italian Renaissance, Pelican Art History, London 2007; H. Pfeiffer, La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, Jaca Book, Milano 2007; C.M. Richardson ‒ al., ed., Viewing Renaissance art, Yale University Press, London 2007; I. Herklotz, ed., Società, cultura e vita religiosa in Età Moderna. Studi in onore do Romeo De Maio, Centro di Studi Sorani Vincenzo Patriarca, Sora 2009; C. Catà, La Croce e l’Inconcepibile. Il pensiero di Nicola Cusano tra filosofia e predicazione, EUM, Macerata 2009; Y. zu Dohna, «Figure di Dio nel XVII secolo. Il volto artistico della modernità», in P. Gilbert, ed., L’uomo dell’età moderna e la Chiesa, 329-347, GB Press, Roma 2012; Id., Lo specchio della fede: la rappresentazione del Divino nell’Arte di Raffaello e Michelangelo. Verso un nuovo approccio all’Arte, Collana di Studi e Tesi n. 26, Accademia Raffaello, Urbino 2013.

Immagine
Raffaello, La Scuola di Atene, 1509, Stanza della Segnatura, Palazzo Apostolico, Musei Vaticani, Stato della Città del Vaticano


LEMMARIO




Rinascimento carolingio - vol. I


Autore: Paolo Fusar Imperatore

Il panorama italiano del IX secolo non appare così marcatamente mutato da poter parlare di un vero e proprio rinascimento carolingio italiano: l’incertezza politica fra Roma, Costantinopoli e Pavia, capitale longobarda, non faciliterà l’intervento legislativo e uniformante di Carlo magno nella penisola. I Franchi, invitati da papa Stefano per fermare il pericolo longobardo e per garantire la libertà delle terre del patrimonium Petri, si guarderanno bene, infatti, dal gestire la situazione italiana da padroni di casa. L’intervento carolingio provocherà una definitiva frattura politica della penisola e introdurrà alcuni elementi della cultura franca, portando alle estreme conseguenze ciò che i longobardi non erano riusciti a fare, ossia, con una parola che vuole essere soltanto un comodo concetto generale, l’impostazione feudale del territorio, con i privilegi e le immunità. Il trascorrere del IX secolo, in linea generale, segna un forte declino della realtà italiana, accentuato dal fatto che l’imperatore abitava al di là delle Alpi e in controtendenza solo nelle terre del pontefice. I Franchi, soprattutto nell’area orientale dell’Italia settentrionale, dove più forte era la presenza longobarda, avevano la necessità di creare nuove figure di governo, ma, in generale, si erano guardati bene dal sostituire interamente le vecchie strutture: l’Italia del X secolo presenterà una grande e confusa molteplicità di poteri, fra duchi e gastaldi longobardi, conti e marchesi franchi, esarchi e temi bizantini, che di volta in volta andranno ad assommarsi, perdendo i significati propri, ma mantenendo intatta la loro memoria di dominio e potere. Dall’altro lato della medaglia, proprio la debolezza politica dell’impero farà del IX secolo un periodo di ripresa economica, rilanciato dalle autonomie locali appena formate.

Il punto di vista culturale può permetterci di individuare altri aspetti contraddittori dell’epoca carolingia. L’ambiente italiano del secolo precedente, sebbene non fosse particolarmente promettente viste le asperità del regno longobardo, era ancora caratterizzato da alcuni centri culturali particolarmente attivi e vivaci, che la presenza franca tenderà a limitare entro i propri schemi. Il regno longobardo, soprattutto dopo la conversione al cristianesimo, si era vivamente impegnato nell’edificazione e nell’arricchimento dei centri monastici con lo scopo di preparare posti pregevoli per i figli cadetti della nobiltà, non destinati a succedere nei ducati o nei ranghi del regno: la scelta degli irlandesi di Bobbio e di altri centri di nuova fondazione era finalizzata a garantirsi luoghi protetti e liberi dagli influssi di Roma e Costantinopoli. Con l’apporto della paleografia vediamo, così, la crisi dei grandi centri culturali monastici del secolo precedente: Bobbio, splendida abbazia fondata da Colombano e custode della cultura classica, riduce inesorabilmente i propri spazi e la propria influenza; Montecassino e san Vincenzo al Volturno vedono la distruzione e dispersione del proprio patrimonio a causa dei saccheggi degli Arabi, vero flagello del secolo; altri monasteri saranno irreggimentati nelle strutture imperiali franche, come, ad esempio, Farfa. La cultura carolingia, al contempo, non si impone con la stessa forza e coerenza con cui si è proceduto oltralpe, e la riforma benedettina promossa da Benedetto di Aniane non fu sufficiente a bilanciare l’introduzione degli “abati laici” nei monasteri. Il monachesimo italico, dopo l’opera di Gregorio magno e con due secoli di sperimentazione longobarda, cominciava a raggiungere livelli di splendore invidiabili e soprattutto quella fama di santità che rendeva i monaci consiglieri, maestri e protettori. L’uniformità linguistica, culturale e spirituale che l’impero carolingio cercherà di portare in Italia non farà altro che appiattire un panorama molto ricco e capace anche di uomini colti e validi come fu lo stesso consigliere di Carlo magno, Paolo diacono, o il vescovo Paolino d’Aquileia. Paradossalmente “rinascimento carolingio” in Italia significò una grande contraddizione: l’irrimediabile morte di strutture antiche, provocata dai continui mutamenti di potere e la conseguente nascita di nuove strutture, anche ecclesiastiche, di notevole durata e rendimento. La forza ideale ed ideologica di un nuovo impero romano, suscitata anche dall’apporto simbolico di un rapporto con Roma, non fu sufficiente per restituire all’Italia un vero e durevole rinascimento, servì tuttavia al lento consolidarsi di quanto era sopravvissuto del passato, romano, longobardo e franco.

Per l’Italia settentrionale la grande novità carolingia fu quella dei “vescovi conti”: il termine designa l’impostazione voluta dai sovrani franchi nella gestione dei propri territori, con la concessione di potere politico ai vescovi, fino alla creazione di veri e propri feudi episcopali. L’idea che soggiace a questa visione è quella della sacralità del sovrano e della conseguente commistione fra regno e chiese: i vescovi erano, così, eletti dal sovrano e insigniti di una giurisdizione. È vero che la situazione italiana non corrisponde molto alla Francia o a ciò che verrà a crearsi ai tempi di Ottone I di Sassonia nel X secolo, ma non si può certo negare che la politica carolingia in Italia non abbia favorito e potenziato la figura del vescovo. In contrapposizione al regno longobardo che sopravviveva come federazione di duchi affiancati al prestigio di grandi e potenti monasteri, i nuovi signori restituirono potere civile ai vescovi e alle loro giurisdizioni: persone valide e preparate, senza dubbio prive di eredi, e capaci di un alto concetto di fedeltà. La nuova situazione impedirà un ricambio altrettanto valido e l’innescarsi della valanga degli episcopati di ceto nobiliare, a lungo termine, porterà l’episcopato ad una insignificanza culturale e religiosa. La riforma carolingia delle diocesi, efficiente in via teorica, segnò anche la scomparsa definitiva delle strutture patriarcali antiche, con il lato positivo di annientarne anche gli atavici conflitti. In contrapposizione alla cultura dei monasteri il governo carolingio obbligò i vescovi ad avere una propria scuola per la formazione dei chierici e degli impiegati del proprio tribunale: si tratta di un notevole sforzo di unitarietà e controllo, volto a limitare gli spazi longobardi e a migliorare le effettive condizioni di governo. Il caso più evidente riguarda la capitale longobarda, Pavia, dove venne nominato amministratore l’abate benedettino Waldo, con l’incarico di istituire una scuola vescovile. La rapida rovina dell’impero porterà però il degrado di queste neonate istituzioni, che poterono sopravvivere solo in presenza di qualche abile vescovo e di un patriziato cittadino autorevole. La feudalità ecclesiastica scadrà nella creazione delle cappelle private e del clero canonicale delle grandi collegiate esenti: vescovi funzionari e signori territoriali in lotta con la nobiltà vassalla. Bisognerà cercare nel clero pievano e nella riorganizzazione ecclesiastica locale gli aspetti positivi di un’epoca che ha tutta l’aria di una grande decadenza. Sul piano organizzativo si può scorgere la preoccupazione di creare unità territoriali più compatte e meglio amministrabili: la Chiesa delle pievi, dipendente dai vescovi, ma sufficientemente strutturata per reggersi anche senza di loro, portò avanti per tutto il medioevo l’espansione e la presenza del cristianesimo nelle campagne.

L’Italia centrale vide, invece, un periodo di relativo splendore, soprattutto per quanto riguarda l’ambito papale: lo scontro con l’oriente per la questione iconoclasta e lo scisma di Fozio incorniciarono una serie di papi di origine orientale, estremamente colti e capaci di buon governo, garantiti sia dall’oriente sia dalla nuova funzione acquisita dal papato in ambito franco. Solo a fine secolo, con la lontananza degli imperatori e con la fine della dinastia carolingia si avrà la caduta del papato nelle mani delle autonomie locali romane. Riorganizzare e ricostruire furono le attività preferite dai pontefici: Roma vide gli splendori delle basiliche di Pasquale I e le nuove fortificazioni cittadine della città leonina e della giovannipoli; il patrimonium Petri fu rimesso in ordine focalizzando il controllo governativo a partire dai centri di Ravenna, Perugia e Roma. Il IX secolo romano è anche l’epoca della rielaborazione di tre secoli di prassi di curia nella gestione dei rapporti con Costantinopoli, coi Longobardi e con i Franchi. Per il papato può giustamente definirsi un secolo d’oro: nulla di ciò che si era guadagnato era andato perduto. Il Franco era un alleato potente e sufficientemente lontano per garantire sicurezza ed autonomia; grazie all’appoggio papale poteva anche diventare un perfetto contraltare al potere bizantino nella penisola e alle pretese teologiche dei patriarchi e degli imperatori orientali, ma, soprattutto, era un decisivo deterrente alle mire espansionistiche longobarde, non ancora del tutto sopite dal trascorrere degli anni, anche se ridotti ai soli ducati di Spoleto e Benevento. Il papato del IX secolo è, però, meno sollecito nei confronti delle altre nazioni europee: le uniche attenzioni andarono verso le questioni di giurisdizione per i territori confinanti con l’impero Bizantino (Slavi e Bulgari), accontentandosi del legame con la dinastia carolingia per una comunione con le chiese d’oltralpe.

Il Sud della penisola vide un netto peggioramento della situazione: il mancato ritorno delle terre pontificie di Sicilia e Dalmazia dopo la fine delle controversie iconoclaste con l’imperatore d’oriente e il conseguente inserimento nell’orbita bizantina dei temi di Sicilia, Puglia e Calabria, facilitarono l’avvento della dominazione araba. La presa della Sicilia e le ripetute incursioni costiere portarono ad un completo cambiamento geografico e religioso: l’abbandono delle località costiere e la fuga nell’entroterra furono i primi passi di quello che viene chiamato il fenomeno dell’“incastellamento”, che per tutto il secolo segnò l’intera penisola italiana. Anche Roma fu saccheggiata più volte e si giunse persino a fortificare le basiliche di san Pietro e san Paolo, facendo di Castel sant’Angelo un vero baluardo per la città eterna; i porti più esposti furono abbandonati con l’accrescersi delle difficoltà della flotta bizantina e con l’evolversi delle politiche commerciali mediterranee. L’interesse degli imperatori carolingii per la difesa delle terre del meridione italiano fu sempre mediato dalle necessità d’oltralpe e dall’evitare nuovi conflitti con Costantinopoli: le varie spedizione risultarono sempre più fallimentari e il pericolo arabo si fece sentire sempre più vicino, mentre le singole città, un tempo federate con Roma e con l’impero, diventarono realtà autonome e incapaci di collaborare. Il secolo IX vide un continuo farsi e disfarsi di alleanze e guerre di cui spesso l’arabo non era che un pretesto: le vicende delle città di Bari e di Otranto ad Est e di Napoli e Salerno ad Ovest sono esempi concreti di questa situazione. La difesa era condizionata dagli interessi locali e dai conflitti fra giurisdizioni e poteri: solo dopo un secolo di aspre lotte e grazie soltanto alla debole, ma decisiva, lega organizzata dal papa all’inizio del X secolo, si porrà fine alla presenza araba nell’entroterra della penisola con la battaglia sul fiume Garigliano. A quell’epoca in Italia dell’impero carolingio non restava altro che un lontano ricordo: solo a Nord uno spettrale e quanto mai frazionato Regno d’Italia cercava ancora di mantenere ordine e unità negli scontri dinastici, dichiarandosi, però, impotente di fronte alla calata degli Ungari.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Azzara – P. Moro, I capitolari italici, Viella, Roma 1998; P. Cammarosano, Storia dell’Italia medievale. Dal VI all’XI secolo, Laterza, Roma-Bari 2008; O. Capitani, Storia dell’Italia medievale, Laterza, Roma-Bari 2004; S. Gasparri, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. I Dalle Origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1977, 144-213; C. Wickham, Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo secoli V-VIII, Viella, Roma 2009. Per gli aspetti culturali si consultino gli Atti delle Settimane di Studio per l’Alto Medioevo del Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto.


LEMMARIO




Rivoluzione francese - vol. I


Autore: Mario Tosti

Anche in Italia, nell’ultimo ventennio, il rapporto Chiesa-Rivoluzione francese è stato uno dei filoni d’indagine più produttivi: spesso gli studi si sono mossi verso una riconciliazione tra l’ideale rivoluzionario dell’Ottantanove e il riconoscimento della libertà cristiana, ma altrettanto frequentemente gli avvenimenti sono stati letti confondendo fede e controrivoluzione, testimonianza cristiana e resistenza politica. Nonostante i progressi c’è bisogno ancora di favorire una discussione critica e severa che individui le ragioni storiche della non accoglienza della Rivoluzione da parte della Chiesa e metta in evidenza le esigenze di purificazione, di liberazione, di rinnovamento religioso che il moto rivoluzionario provocò. Troppo spesso, invece, periodici e riviste, non solo di provenienza cattolica, manifestano una posizione rigorosa e dogmatica, con atteggiamenti di drastica condanna, contrapposti ad altri di esclusiva esaltazione. Per diversi decenni la storiografia cattolica, anziché soffermarsi sulle articolate posizioni assunte dalla coscienza cristiana davanti al problema posto dalla laicizzazione dello Stato e dalla secolarizzazione della vita sociale, ha infatti preferito, se non riproporre l’idea della Rivoluzione come frutto di un complotto, ribadire la tesi di una radicale antitesi tra essa e la Chiesa. All’indomani dell’Ottantanove non si avverte nel mondo cattolico italiano l’emergere di particolari preoccupazioni circa gli esiti della Rivoluzione. Molti erano dell’avviso che la Chiesa potesse accettare quella forma di governo costituzionale che garantiva i fondamentali diritti dell’uomo a condizione che il cattolicesimo venisse riconosciuto come religione di Stato. Si trattava insomma di riproporre, in un diverso contesto politico, il tradizionale rapporto pattizio che aveva caratterizzato l’antico regime: le nuove autorità s’impegnavano a garantire l’assetto e i privilegi della Chiesa in cambio di una sua azione nel sostenere il nuovo ordinamento. Questa concezione trova sostenitori in ambienti romani e persino curiali. Intanto però l’approvazione in Francia della Costituzione civile del clero, che impone una profonda ristrutturazione della Chiesa, attribuendo ai fedeli la scelta di parroci e sottraendo a Roma l’istituzione canonica dei vescovi, determina un irrigidimento nelle posizioni del papato che gli eccessi della Rivoluzione e il processo di scristianizzazione fecero rapidamente slittare in un aperto scontro tra cattolicesimo e Rivoluzione. Pio VI, con il breve Quod aliquantum (10 marzo 1791), condannò la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il passaggio verso questa rigida posizione non era tanto dovuto alla pur evidente emozione per l’esecuzione del re – cui Pio VI attribuì subito il titolo di martire – quanto piuttosto al fatto che Roma inquadrava ormai il fenomeno rivoluzionario in un ambito più vasto e comprensivo: gli eventi francesi erano l’esito di una cospirazione da tempo tramata, un’alleanza tra calvinisti e filosofi per “rovinare” la religione cattolica. La Rivoluzione usciva dal quadro dei fenomeni politici e storici razionalmente identificabili e controllabili: gli unici termini che potevano interpretarla erano quelli di “complotto”, “congiura”, “cospirazione”. Tutti questi elementi non si fondono ancora in una prospettiva organica e coerente e riprendono talvolta concezioni e valutazioni già espresse nel mondo cattolico del periodo di fronte alla politica giurisdizionalistica dei sovrani assoluti, alle riforme ecclesiastiche, alla soppressione dei gesuiti, alla proclamazione da parte della filosofia dei “lumi” del principio della libertà religiosa.

Si affaccia l’interpretazione organica della Rivoluzione come esito finale di una lunga catena di errori iniziati dalla sottrazione luterana dell’individuo al potere di Roma e prende corpo la teoria che essa costituisse una punizione inviata dalla Provvidenza agli uomini, e in particolare alla Chiesa, per castigarli della scarsa resistenza all’empietà del mondo moderno. Ben presto venne introdotto un parallelo tra gli eventi rivoluzionari e il medioevo: le masse rivoluzionarie in rivolta producevano un attacco contro la civiltà molto simile a quello che nell’età di mezzo avevano condotto le orde dei barbari. In ambienti cattolici si fece strada l’idea che la Chiesa e il papato dovessero tornare a giocare nella crisi contemporanea lo stesso ruolo direttivo e civilizzatore assunto nell’età medioevale. Prese corpo anche un’applicazione di questo orientamento con il tentativo di convincere il papa a bandire una guerra santa contro la Francia. Così l’ex gesuita spagnolo Francesco Gusta, nel 1794, darà alle stampe il Saggio critico sulle crociate, uscito una prima volta a Ferrara e, sempre nel medesimo anno, in seconda edizione, a Foligno per l’editore Tomassini. In esso il polemista controrivoluzionario difendeva le antiche crociate e auspicava una moderna “levata in massa” di volontari di “tutti gli ordini di persone, massime gli agricoltori e gli artigiani”. L’idea non rimase confinata nelle pagine della letteratura controrivoluzionaria, ma ebbe effetti immediati sul piano politico-operativo: sappiamo, per esempio, che il nunzio di Venezia si dette da fare, perché aveva preso sul serio l’idea maturata a Roma di bandire una crociata antifrancese. Alla fine tuttavia prevalse una linea più cauta che si limitava a appoggiare e a benedire l’azione delle armate controrivoluzionarie. Con l’arrivo delle truppe napoleoniche nella Penisola si delinea il primo concreto impatto della Chiesa italiana con la Rivoluzione e il quadro che ne deriva appare assai variegato. Messo davanti al mutamento politico l’episcopato italiano, in larga parte, assume atteggiamenti che invitano alla subordinazione all’autorità costituita e, quasi ovunque, il passaggio dall’antico regime al governo rivoluzionario avvenne attraverso la mediazione dei vescovi che divenne apparente partecipazione collettiva in occasione della cerimonia in cattedrale per l’inizio della nuova era, con il canto del Te Deum di ringraziamento per “l’avvenuta rigenerazione”. Rispetto a tale atteggiamento, ancora troppo spesso si continua a parlare di “voltafaccia” dei vescovi, di atteggiamenti di “compromesso”, senza considerare che anche in Francia, con il Direttorio, si era venuta a creare una nuova situazione rispetto alla religio­ne: rinnovata la libertà di culto alle confessioni religiose erano venuti meno anche molti degli argomenti usati in precedenza contro la Rivoluzione. L’atteggiamento omogeneo dell’episcopato che invitò i fedeli ad accettare il mutamento di regime sottolineando come il nuovo governo si impegnasse a rispettare la religione cattolica e i suoi ministri, trovò una base generica di riferimento nell’obbedienza verso l’autorità po­litica, raccomandata dai testi neotestamentari, oppure nella ricerca del bene comune, espressione della fraternità universale, con esortazioni, assai vaghe, “all’amore fraterno”, “alla pace”, “alla rassegnazione”, “all’obbedienza”, “alla carità”. Tuttavia la sottomissione e l’ubbidienza sembrano consistere in un ossequio formalistico alle nuove leggi: non si intravvede, in realtà, l’elaborazione di motivazioni politiche per giustificare il mutamento di regime; il rispetto della legalità viene ad essere un gesto personale che trova nell’ordine etico la sua giustificazione e spiegazione.

In linea generale si può affermare che la reazione cattolica fu più forte in quegli Stati, come quello della Chiesa, dove assai scarso era stato l’effetto del riformismo illuminato nelle strutture economiche e nell’amministrazione e le resistenze e le reazioni si verificarono con più violenza laddove la presenza francese si manifestò come scontro ideologico e religioso. Sia la stampa repubblicana che i resoconti dei generali francesi sottolineano i fattori culturali e religiosi delle insorgenze e ricorrono spesso ad un parallelismo con la Vandea, scoprendo nelle rivolte italiane le stesse radici religiose e legittimiste; tuttavia ciò non può far diventare le insorgenze un fenomeno cattolico e monarchico, come pure si è tentato di dimostrare, né ad utilizzare la religione popolare come strumento per amalgamare le resistenze controrivoluzionarie a tutti i livelli, dallo Stato della Chiesa alle Calabrie, facendola diventare sinonimo di reazione. È chiaro che il riferimento alla religione, ed in particolare al culto mariano, presente nel linguaggio e nella simbologia delle insorgenze, non può essere sottovalutato, anzi pare proprio una delle cause che lega i vari moti altrimenti riconducibili a percorsi e dinamiche locali talvolta assai diversi. Ma è necessario intendersi sul significato della dimensione religiosa: sono infatti i luoghi e le pratiche della vita religiosa popolare, luoghi informali e formali, dalle edicole sacre alle confraternite, che gli insorgenti difendono dall’attacco, perché sul piano sacramentale il nuovo governo non ostacola il normale svolgimento della vita religiosa. D’altra parte non mancano testimonianze di una disarticolazione della coscienza cattolica dal modello unitario che si era venuto a formare nel corso dell’età post-tridentina e controriformistica e destinata a produrre durature correnti di pensiero. Con sfumature diverse, centrale appare il tema della compatibilità tra cristianesimo e democrazia che propone il problema dell’esistenza di una corrente cattolico-democratica (cattolici possibilisti nella definizione di Luciano Guerci. Cf. L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura per il popolo nell’Italia in Rivoluzione (1796-1799), Il Mulino, Bologna 1999, pp. 284-288) o quanto meno della circolazione di quelle idee che volevano dimostrare la non inconciliabilità del cristianesimo con il mutamento della società operato dalla Rivoluzione francese. Questi cattolici accettano la fine del potere temporale del papato come una svolta provvidenziale, che finalmente assicura una maggiore trasparenza spirituale all’azione del pontefice, si mostrano favorevoli alla laicizzazione dello Stato, in cui vedono l’occasione per purificare la Chiesa dai condizionamenti del potere politico che nel corso dei secoli l’ha legata a sé, per dare avvio a un processo di autoliberazione, di purificazione da quello spirito che l’aveva portata, dopo i primi secoli, a prendere le forme stesse della società civile e a modellarsi sull’esempio di quella, ponendosi come struttura di potere. Comune a tutti loro è la richiesta di una maggiore libertà religiosa: nella Chiesa e per la Chiesa; istanza in cui molti storici, giustamente, hanno individuato le radici intellettuali e spirituali del cattolicesimo del Vaticano II e la genesi dei movimenti cristiano-democratici. Una particolarità da rilevare è senz’altro il consistente numero di ecclesiastici che ricoprirono incarichi nelle istituzioni repubblicane; l’impressione è che in questi casi, soprattutto nelle aree rurali, svolga un ruolo determinante la capacità di saper leggere e scrivere; non si può sottovalutare, tuttavia, che anche in quel clero culturalmente meno avveduto, come di fatto era la maggior parte del basso clero, abbiano giocato un ruolo decisivo alcune istanze rivoluzionarie che mettevano in primo piano la salvaguardia degli umili, la lotta alla prepotenza e all’usurpazione dei diritti della persona. Senza ricercare motivazioni politiche, frutto di ragionamenti e meditate convinzioni, nell’opzione a favore della repubblica può aver influito una forte volontà di organizzare meglio la città terrena, nella quale anche la Chiesa doveva continuare a rivestire un ruolo fondamentale e non eliminabile. In questo senso, le posizioni si riavvicineranno con l’ascesa sulla scena di Napoleone Bonaparte (1799). Questo genio militare, di energia instancabile e di ambizione sconfinata, personalmente irreligioso ma ammiratore dell’organizzazione ecclesiastica romana, incontrò un valido interlocutore nel nuovo pontefice Pio VII (1800-1823). Questi, nella qualità di vescovo di Imola, aveva mostrato, al momento dell’invasione francese in Italia (1796), una certa disponibilità ad accettare l’ordinamento repubblicano, aderendo ad una prospettiva che allora si definì “democrazia cristiana”. La Chiesa poteva accettare un assetto politico basato sulla libertà, sull’uguaglianza e sulla sovranità popolare a condizione però che si mantenesse il ruolo centrale del cattolicesimo come fattore normativo della nuova socialità democratica. Alla tradizionale simbiosi tra Stato e Chiesa, garantita dal principe cattolico, veniva a sostituirsi una “cristianità repubblicana”, che rendeva l’autorità ecclesiastica depositaria delle regole fondamentali e delle nuove forme di organizzazione della vita collettiva.

Tra il primo console e il papa si giunse così nel 1801 alla firma di un concordato. Questo processo di normalizzazione ebbe come primo effetto l’abolizione della Chiesa costituzionale. Napoleone, che ai tempi della campagna d’Italia aveva ben compreso il ruolo della religione e del clero per il governo della penisola, proseguì la sua azione di pacificazione religiosa promovendo un concordato anche con la Repubblica italiana, la cui costituzione venne approvata il 26 gennaio 1802 dalla Consulta straordinaria di Lione. Il concordato italiano fu firmato a Parigi il 16 settembre 1803, dal cardinale Giovanni Battista Caprara e da Ferdinando Marescalchi, ministro degli esteri della Repubblica italiana: esso concedeva al presidente della Repubblica il diritto di nomina dei vescovi, prevedendo tuttavia l’investitura da parte del pontefice; prima di assumere le loro funzioni, essi (come peraltro i parroci, che ora sarebbero stati scelti dagli ordinari diocesani) dovevano pronunciare un giuramento di fedeltà al governo. Le norme del concordato surrogavano tutte le leggi e i decreti emanati precedentemente dall’autorità statale in materia ecclesiastica e il testo venne reso pubblico nel territorio della Repubblica nel gennaio del 1804, insieme ad un decreto organico di esecuzione, modellato sugli “Articoli organici del culto cattolico”, l’atto unilaterale imposto da Napoleone e allegato al concordato del 1801, che palesava tendenze di carattere fortemente giurisdizionalistico nell’organizzazione della vita ecclesiastica. La nuova situazione concordataria non implicò dunque la rinuncia alla laicizzazione di alcuni fondamentali istituti della vita collettiva e l’introduzione anche nella Repubblica del codice civile, comprensivo delle disposizioni sul divorzio, aggraverà negli anni successivi il conflitto col papato. Esploso sul piano politico per il rifiuto di Pio VII di partecipare al blocco continentale contro l’Inghilterra, lo scontro portava ad una nuova soppressione dello Stato Pontificio e all’esilio del pontefice prima a Savona (1809) e poi a Fontainebleu (1812). La risposta del Papa, che già aveva denunciato la violazione del Concordato del 1801, compiuta con gli “Articoli organici”, non si limitava alla scomunica di mandanti ed esecutori della sua estromissione dal potere temporale, che di per sé già delegittimava l’imperatore, ma colpiva un nucleo centrale della sua politica religiosa. Il rifiuto pontificio di concedere l’istituzione canonica ai vescovi nominati dal governo determinava, infatti, una serie di difficoltà nell’espletamento del regolare servizio religioso in numerose diocesi. Cadeva così quell’ordinata ripresa dell’amministrazione religiosa su cui Napoleone aveva puntato per la costruzione delle consenso. La resistenza di Pio VII e della maggioranza dei vescovi si coniugò con le sconfitte militari dell’imperatore, determinando la fine dei suoi progetti. La Rivoluzione francese rappresentò un decisivo cambiamento della costellazione politica generale; a lungo andare, si pervenne (spesso assieme a una separazione di Stato e Chiesa) alla formazione di due culture fondamentali e profondamente ostili tra loro. Da una parte la nuova militante cultura democratico-laicistica della dominante borghesia liberale e dall’altra la radicata contro o subcultura cattolico-conservatrice della Chiesa. La divisione opera ovunque: nelle scuole, negli ospedali, nell’assistenza ai poveri e rimane massiccia per tutto il XIX e XX secolo. Solo dopo il Vaticano II si può apertamente affermare che libertà, uguaglianza e fraternità – per lungo tempo definite parole diaboliche nella Chiesa cattolica – possiedono un originario fondamento cristiano.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Latreille, L’Eglise catholique et la révolution française, 2 voll., Ed. Hachette Paris 1946; V.E. Giuntella (ed.), Le dolci catene. Testi della controrivoluzione cattolica in Italia, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1988; L. Mezzadri, La Chiesa e la rivoluzione francese, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1989; D. Menozzi (ed.), La Chiesa italiana e la Rivoluzione francese, Edizioni Dehoniane, Bologna 1990; F. Agostini, La riforma napoleonica della Chiesa nella Repubblica e nel Regno d’Italia, 1802-1814, Istituto per le Ricerche di Storia sociale e religiosa, Vicenza 1990; V.E. Giuntella, La religione amica della democrazia. I cattolici democratici del triennio rivoluzionario (1796-1799), Edizioni Studium, Roma 1990; M. Caffiero, La nuova era. Miti e profezie dell’Italia in Rivoluzione, Marietti, Genova 1991; L. Fiorani – D. Rocciolo, Chiesa romana e Rivoluzione francese 1789-1799, École Française de Rome, Roma 2004; G. Pelletier, Rome et la Révolution française. La théologie et la politique du Saint-Siège devant la Revolution française (1789-1799), École Française de Rome, Roma 2004; M. Tosti, Una Costituzione per la Chiesa. La proposta di un Concilio ecumenico negli anni della Rivoluzione francese, Edizioni Nerbini, Firenze 2006; L. Guerci, Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), Utet Libreria, Torino 2008; L. Mascilli Migliorini (ed.), Italia napoleonica. Dizionario critico, Utet Libreria, Torino 2011 (in particolare la sezione a cura di M. Caffiero, Chiesa e vita religiosa, 91-118).


LEMMARIO




Roma, Romanità - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

“Urbe” per eccellenza, capitale dell’Impero, dello Stato pontificio e sede del capo della Chiesa cattolica, nonché una delle più popolose città della penisola italiana, Roma ha sempre vissuto due dimensioni diverse ma strettamente intrecciate, essendo al contempo un luogo fisico e simbolico. Situata sul fiume Tevere a poca distanza dalla foce, compresa nel circuito delle mura Aureliane, con propaggini sulla riva destra (Trastevere e il Vaticano), per una superficie che all’interno della cinta fortificata si aggirava sui 1400 ettari, la città ha conosciuto una storia demografica complessa, le cui cifre sono ancora oggetto di dibattito tra gli storici. Popolata da forse un milione di persone nel I secolo d.C., ebbe un tracollo demografico nel corso del VI secolo, una significativa ripresa nel periodo compreso tra il IX e il XIII secolo, un ulteriore calo durante il Trecento e una crescita continua – interrotta solo dal Sacco del 1527 – nel corso dell’età moderna. La sua popolazione viene calcolata, per l’età medievale, sull’ordine di alcune decine di migliaia e di circa 100.000 abitanti durante l’età moderna. Nel periodo in cui cessò la propria funzione di capitale dello Stato pontificio (1870) essa aveva circa 200.000 abitanti, mentre il XX secolo è stato il periodo del suo sviluppo esponenziale. Durante tutta la sua storia, la popolazione si è caratterizzata per una conformazione decisamente aperta, essendo sempre stata centro di imponenti flussi migratori.

La città conobbe l’evangelizzazione di Pietro e Paolo solo poco tempo dopo la morte di Gesù, negli anni Cinquanta del I secolo. I due apostoli vi ricevettero il martirio verso il 67. Pietro fu sepolto vicino al luogo dell’esecuzione, sul colle del Vaticano; Paolo, che era stato decapitato ad Aquas Salvias (oggi S. Paolo alle Tre Fontane), fu sepolto sulla via Ostiense. Sulle loro tombe si sviluppò progressivamente il culto ad limina Apostolorum, principale meta del pellegrinaggio romeo, che poi andò indirizzandosi anche ai luoghi di culto del suburbio, le basiliche cimiteriali e le catacombe, e infine alle chiese entro le mura, colme di reliquie e di icone. La popolazione fu cristianizzata tra il II e il V secolo (i primi tituli, cioè le chiese fondate entro abitazioni private e divenute chiese battesimali, risalgono al III e al IV secolo). L’impulso fondamentale all’istituzionalizzazione della Chiesa romana fu dato dall’imperatore Costantino, che dopo la battaglia di Ponte Milvio donò al vescovo di Roma vaste proprietà del fisco imperiale, soprattutto il Laterano (dove fu edificata la cattedrale del SS. Salvatore, in seguito intitolata a San Giovanni) e il Vaticano (dove fu edificata la basilica cimiteriale di San Pietro), e che prossimo alla morte ricevette il battesimo. Alla fine del V secolo, l’impianto della struttura ecclesiastica era ormai definito, con la cattedrale, che aveva accanto gli edifici di amministrazione (detti episcopio, poi patriarchio, indi palazzo Lateranense), con le due basiliche dedicate agli apostoli Pietro e Paolo e le altre due basiliche di S. Lorenzo fuori le Mura e di S. Maria Maggiore. A queste si affiancavano i tituli, cioè le chiese battesimali rette da un presbitero cardinale, e gli edifici sacri costruiti sopra le catacombe. Nel corso dell’alto medioevo, ai già numerosi luoghi sacri si aggiunsero le diaconie, originariamente edifici destinati all’accoglienza, nonché un enorme numero di monasteri, oratori, cappelle, scholae e xenodochia per i pellegrini. Oltre che dalle evidenze architettoniche, dalle emergenze archeologiche e dalle guide per i pellegrini, diffuse durante tutto il medioevo e l’età moderna, traiamo queste informazioni soprattutto dal Liber pontificalis, il testo contenente le biografie dei pontefici che fu redatto continuativamente dal VI alla fine del IX secolo e fu poi ripreso nel basso medioevo. Numerose altre chiese, situate soprattutto nell’ansa del Tevere, che era la più abitata, furono edificate dal X al XIII secolo, tanto che al principio del Trecento – ci informa una fonte denominata Catalogo di Torino – le chiese romane erano oltre quattrocento (ma in totale, il numero di chiese attestate a Roma tra antichità e contemporaneità supera di molto le mille unità).

La lunga storia della Roma medievale e moderna può essere compendiata osservando il mutare delle sue istituzioni ecclesiastiche e laiche. Durante l’alto medioevo vi fu un articolato sistema amministrativo che prevedeva l’esistenza di sette regioni ecclesiastiche, rette da altrettanti diaconi, e di circa ventotto titoli, equivalenti alle parrocchie. Il pontefice era coadiuvato dai rettori di questi istituti (diaconi e presbiteri cardinali), nonché dai vescovi delle diocesi vicine a Roma (vescovi suburbicari): costoro avrebbero costituito, nel corso del tempo, il Collegio cardinalizio. Tra XI e XII secolo si attuò una sorta di specializzazione in seno al clero romano: una parte di esso, collegato all’amministrazione centrale, si trasformò nella Curia romana (il termine è in uso dalla fine del secolo XI), presieduta dal papa e dai cardinali e comprendente diverse centinaia di ecclesiastici che, distribuiti nei principali uffici della Camera, Cappella, Penitenzieria e Cancelleria, operavano soprattutto nei due centri principali del Laterano e del Vaticano. La Curia romana è dunque quell’organismo complesso e dalla vocazione universalistica che diresse la Cristianità occidentale e che ancora governa la Chiesa cattolica. Mentre si sviluppava la Curia, andò formandosi anche un clero romano distinto da essa e preposto all’amministrazione delle chiese e della cura d’anime della popolazione: il Clerus Urbis, incardinato nella diocesi romana. Durante il basso medioevo, le antiche ripartizioni dell’amministrazione ecclesiastica urbana cedettero il campo all’istituzione delle parrocchie e dei tredici (poi quattordici) rioni. Con l’editto Savelli del 1569, la geografia ecclesiastica fu riformata, le parrocchie furono ridotte a ventiquattro e tale configurazione si mantenne poi sostanzialmente anche in seguito. Il prelato delegato dal pontefice all’amministrazione e alla cura della città fu il cardinale vicario, coadiuvato, in età moderna, da uffici molto articolati. Ancora oggi, presso l’Archivio storico del Vicariato si conservano gli “stati delle anime”, registri della popolazione che partono dalla fine del Cinquecento e che costituiscono una delle principali fonti per indagare la storia della città. Sul versante delle istituzioni laiche occorre osservare come, passato il periodo del diretto controllo bizantino e tranne in alcuni periodi eccezionali come nel corso del X secolo (principato di Alberico), durante l’alto medioevo non si fossero sviluppate forme di governo esclusivamente secolari. In realtà, nel lungo periodo compreso tra la fine del VI e la fine dell’XI secolo – che vide l’imporsi del pontefice sui territori già bizantini del ducato di Roma (corrispondenti all’incirca al Lazio contemporaneo), la popolazione laica e quella ecclesiastica, pur tra aspri conflitti, vissero un forte senso di condivisa identità civica. Il comune di Roma, le cui origini potrebbero rimontare alla fine del secolo XI ma che si costituì ufficialmente con la Renovatio Senatus del 1143, svolse in seguito una funzione di governo autonoma e spesso antagonista rispetto al papato, edificando tra l’altro un nuovo centro – anche simbolico – di potere: il palazzo del Campidoglio. Differentemente però dalla storia di quasi tutte le città comunali italiane, dove il contrasto tra comune e vescovo avrebbe condotto all’esautorazione politica del secondo, a Roma accadde l’inverso. Si data infatti al 1398 (dopo il ritorno del pontefice da Avignone) la fine del comune di Roma come istituzione libera e la sua definitiva sottomissione al papa, che di lì a poco, nel corso del secolo XV, sarebbe divenuto un sovrano territoriale a tutti gli effetti, investito del governo di buona parte dell’Italia centrale (Marche, Romagna, Umbria, Lazio). Ciononostante, la presenza della Curia e delle magistrature comunali, e dunque delle loro rispettive aristocrazie e centri di potere – una presenza resa ancor più complessa dai numerosi forestieri e stranieri residenti – sarebbe rimasta per secoli una tra le chiavi per comprendere la dialettica politica della città.

Il concetto fondamentale che aiuta a meglio definire la natura di Roma durante tutta la sua storia è quello di spazio sacro. Roma fu innanzitutto una città sacra, ovvero una città-santuario, sia per il suo ruolo di capitale dell’Impero (antico e medievale) che per quello di centro e capo della Cristianità. Celebre è infatti il motto «Roma caput mundi regit orbis frena rotundi» (Roma capo del mondo regge le redini del mondo rotondo). Vera e propria “città rituale”, Roma deve la sua forma, i suoi apparati scenografici e gran parte dei monumenti medievali e moderni alla volontà di trasporre i valori simbolici e religiosi nel piano della fisicità reale (cioè la topografia, l’architettura e le opere d’arte). Il simbolo viene così espresso attraverso i cicli liturgici e i solenni rituali celebrati nelle sue strade, piazze e chiese. Il microcosmo, l’Urbe, rimanda al macrocosmo, la storia della salvezza: così la liturgia stazionale – antichissima e ripresa in tempi recenti – trasferisce l’anno liturgico nello spazio urbano; S. Maria Maggiore (in cui si conserva la reliquia della Mangiatoia di Betlemme) è la grande chiesa del Natale; il Colosseo, dove morirono i martiri, è il luogo della penitenza quaresimale, e S. Giovanni – nel cui battistero secondo tradizione fu guarito dalla lebbra Costantino – e che insieme con S. Croce in Gerusalemme conserva le reliquie della Passione, è la chiesa della Resurrezione. Con lo stesso metro, cioè attraverso le nozioni di ritualità e di sacralità espresse in un luogo reale, si riesce a meglio comprendere anche il significato dei giubilei, iniziati nel 1300, delle solenni cerimonie pontificie del Possesso o del Corpus Domini, come anche le grandi cavalcate, le incoronazioni dei sovrani, i trionfi festosi, le rievocazioni della Roma antica nonché la scelta dell’Urbe come luogo deputato alla celebrazione dei concili ecumenici, il suo grandioso rifacimento in età barocca, il suo essere la meta prediletta del Grand Tour e infine la sua essenza profonda di vero e proprio scrigno di opere d’arte.

Quanto riferito a proposito di Roma si ripropone nell’idealizzazione della romanità (romanitas), che naturalmente non può disgiungere il piano reale da quello simbolico. I cittadini romani, sui quali esiste una vastissima letteratura in cui è spesso contrapposta l’idealità alla realtà (per esempio nel motto Roma fuit: Roma non esiste più, e ciò che resta ne è solo un lontano fantasma), hanno sempre avuto orgogliosa consapevolezza dell’alto valore della loro appartenenza. Romanità vale infatti per cittadinanza universale, per civiltà del diritto, dello Stato, della cultura e dell’arte. In questo senso, l’asse interpretativo fondante, che informa di sé gran parte della storia romana medievale e moderna, è quello del continuo recupero degli ideali antichi di purezza e perfezione, anche quando poi gli esiti non portarono a una restaurazione, bensì a una innovazione. Questo è accaduto con la renovatio Imperii (al tempo di Carlomagno, nel IX secolo, di Ottone III alla fine del X, ma anche al tempo di Cola di Rienzo, nel pieno Trecento), con la renovatio Senatus (l’istituzione del comune, a imitazione della Repubblica romana), con le diverse ri-forme della Chiesa (instar primitivae Ecclesiae forma), e con i plurimi ri-nascimenti della sapienza, dell’architettura e dell’arte antiche, il più imponente dei quali (il Rinascimento propriamente detto) si situa tra il XV e i primi decenni del XVI secolo. Roma infatti è senza dubbio, insieme a Firenze, culla e patria del Rinascimento, che fu in gran parte promosso dai papi. Dal punto di vista propriamente cristiano, infine, la “romanità” si colora di accezioni maestose per numerose ragioni complementari: per il “primato” di Pietro, principe degli Apostoli; per il fatto che Paolo dichiarò solennemente di essere cittadino romano (At 16,37 e 22,25-29); per l’equivalenza tra “Santa Romana Chiesa” e “Chiesa cattolica” e poiché la popolazione romana è direttamente e più volte ricordata nelle Sacre Scritture, (1 e 2 Maccabei; Atti; Lettera di Paolo ai Romani).

Fonti e Bibl. essenziale

I volumi della collana “Storia di Roma” dell’Istituto nazionale di studi romani, Cappelli, Bologna, dal 1938 al 1990; M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, nuova ediz. a cura di C. Cecchelli, Ruffolo, Roma 1942; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, Desclée, Roma 1942-1950; C. Sbrana, R. Traina, E. Sonnino, Gli stati delle anime a Roma dalle origini al secolo XVII, La Goliardica, Roma 1977; R. Krautheimer, Roma, profilo di una città, 312-1308, Edizioni dell’Elefante, Roma 1981; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel medioevo, nuova edizione integrale a cura di L. Trompeo, rist. anast. Casini, s.l. 1988; E. Sonnino (ed.), Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Il Calamo, Roma 1998; A. Giardina – A. Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000; A. Pinelli (ed.), Roma nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 2001; A. Vauchez (ed.), Roma medievale, Laterza, Roma-Bari 2001; T. di Carpegna Falconieri, Il clero di Roma nel medioevo. Istituzioni e politica cittadina (secoli VIII-XIII), Viella, Roma 2002; G. Ciucci (ed.), Roma moderna, Laterza, Roma-Bari 2002.

Immagine: La Ecclesia Romana. Frammento del perduto mosaico absidale dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano. Roma, Museo Barracco (cf. A. Paravicini Bagliani, Le chiavi e la tiara. Immagini e simboli del papato medievale, Roma, Viella, 1998, tav. 23).


LEMMARIO




Romanticismo cattolico - vol. I


Autore: Giampaolo Venturi

Ampiezza di diffusione e varietà di componenti del Romanticismo in Europa hanno dato luogo a molteplici, talora contrastanti, interpretazioni, non tanto sulle caratteristiche generali, quanto sull’estensione, limiti cronologici e autori. E’ indubbio che le novità tedesche sono giunte in Italia soprattutto attraverso le sollecitazioni francesi, sia dirette (Mme de Stael), sia di pubblicazioni (Chateaubriand). Il R. italiano, per altro, presenta caratteristiche particolari, sia per il legame stabilitosi con le vicende risorgimentali (dal Conciliatore ai saggi e romanzi legati a tale sentire: da S. Pellico a C. Balbo ad A. Manzoni), sia per la particolare storia, cultura, religiosità (compresa la pressoché generale, per quanto discussa, presenza del Cattolicesimo). La riscoperta e valorizzazione del sentimento, della storia e del Cristianesimo (cattolico; uniti nel sentire medievale cristiano, anteriore alle divisioni del XVI secolo) trovano fertile terreno, e più facilmente possono innestarsi nella cultura italiana, in tutte le sue forme. C’è un nesso intimo, in generale, fra la nuova scuola e la Chiesa italiana del tempo; mentre l’Illuminismo, anche là dove aveva coinvolto religiosi e laici, era rimasto estraneo alla Chiesa italiana nell’insieme (cfr. voce), specie alla generalità dei fedeli; dove il sistema rivoluzionario, anche nella accezione napoleonica e al suo culmine, nonostante il Concordato, non aveva convinto (azione giurisdizionalista, persecuzioni); la riscoperta della religione e delle sue realizzazioni rendevano interessante il R.; tanto più negli anni di consonanza fra ideali patriottici (indipendentistici, unitari) e progetti neoguelfi (Gioberti, Rosmini, Manzoni, Pellico…). La fine della concordia (dal 1848) non significava rifiuto del R. come tale, se mai divisione fra scelte diverse (o solo se – caso Bresciani – identificato col liberalismo anticlericale). Il fatto che la maggior parte degli scrittori e uomini d’azione fossero ecclesiastici o provenissero per formazione da collegi di religiosi, ha fatto affermare che l’intera vita intellettuale italiana del tempo era almeno di ispirazione cristiana; e spiega altresì l’ampio, a tutt’oggi, dibattito, non solo sulla attribuzione di questo o quell’autore al R., ma al sentire cristiano (per tutti: Leopardi). Ma non si può porre una identità fra romantici e cattolici; sia come adesione alla scuola, sia per le scelte artistiche (il romanzo); non solo per le tensioni risorgimentali, ma perché nel R. il Cristianesimo è percepito talvolta più in termini di commozione, entusiasmo, affettività, che su solide fondamenta di consapevolezza (razionali, dogmatiche; ciò che è indubbio, es., in Manzoni, specie nella frequentazione di Rosmini, o in Pellico; ma si v. anche, con i debiti distinguo, Tommaseo, Cantù, altri). Nella sua lunga parabola, che attraversa, nella ipotesi più ampia e generale, l’intero secolo XIX, sia pure con variazioni di chiarezza e intensità, il R. italiano interessa figure molto diverse, ascritte a questo movimento o ad altro, la cui “cattolicità” è talvola vaga (il caso Pascoli: un’intima religione, per origine, cultura, sentire generali, per certe letture ed espressioni, per convinzione di amici, da essi indicata come cristiana, se non propriamente cattolica; cfr., tra classicismo e R., Carducci). Ma il R. non è solo fenomeno letterario, limitato a pochi autori, o artistico (cfr. pre – raffaeliti e nazareni; un discorso a sé andrebbe fatto per la musica sacra); c’è una riscoperta della profonda interiorità dell’arte cristiana, della infinità della sofferenza, della architettura medievale, particolarmente il gotico, e applicazione contemporanea, come in Viollet – le – Duc e imitatori in Italia, da A. Rubbiani in poi. In senso più ampio, è modo di sentire, interpretare, vivere la fede e il mondo che caratterizza il secolo; in tale accezione, la sua presenza è ben più estesa in tutti i campi ecclesiali ed ecclesiastici: dalla predicazione alla spiritualità alla devozione (con tutti gli elementi positivi e i limiti e retoricità del movimento in generale), all’impegno missionario; che assume anch’esso, facilmente, tonalità proprie del R.: straordinarietà, eroismo, quasi parallelo del sentire ed esprimere, in Italia, risorgimentali. Il sentire del tempo (si cfr., a migliore comprensione, il panorama, specie filosofico, tedesco, da un lato; i romanzi di vario genere, dall’altro) aveva già cercato una corrispondenza nelle imprese napoleoniche, e l’aveva trasposto nella azione nazionale; trovava, in ambito ecclesiale ed ecclesiastico, una più piena rispondenza nella storia, nelle figure, avvenimenti, obiettivi additati dalla Chiesa, e nello stesso dibattito interno al MC: l’attenzione rinnovata a Dante e S. Caterina da Siena, più ancora che a S. Francesco. Così, nella azione nazionale, come nella extraeuropea, nella conquista, come nella riconquista; in tal senso, tutta l’azione “intransigente”, come quella “missionaria”, sono fuoco, entusiasmo, sentire romantico: avventura, eroismo, sete di infinito, Paesi lontani. Anche la spiritualità e devozione (cfr. letteratura relativa) assumono le caratteristiche del tempo (es., il S. Cuore). Come tale, e come mezzo espressivo particolare (romanzo) il R. continuerà oltre la fine del secolo.

Fonti e Bibl. essenziale

Voci “Romanticismo” e “romanzo cattolico”, in Dizionario Ecclesiastico (dir. A. Mercati – A. Pelzer), UTET, Torino, ed. 1958, vol. III, 590-591 e 591-592; Grande Antologia Filosofica (dir. da M.F. Sciacca), voll. XX, Il pensiero moderno – prima metà del secolo XIX, Marzorati, Milano, 1973 (aggiornamenti bibliografici, vol. XXXIV, 1985); Storia della Chiesa (iniziata da A. Fliche – V. Martin), vol. XX/2, (“Crisi rivoluzionaria e liberale, 1815 – 1846), ed. fr. a cura di J. Leflon, ed. it., sulla 2^ ed. fr., a cura di C. Naselli, SAIE, Torino, 1975; N. Abbagnano (e altri), voce “Romanticismo”, in Grande Dizionario Enciclopedico UTET, vol. XVII, Torino, 1990, 746-754; Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, n. ed. it., a c. di L. Mezzadri, vol. VII/1, Tra rivoluzione e restaurazione, 1775 – 1830, 2^ ed. it., Jaca Book, Milano, 1993 (resp. E. Guerriero), e VII/2, “Liberalismo e integralismo tra stati nazionali e diffusione missionaria”, 1830 – 1870”, a c. di Idem, ed. it., 1995; Storia del Cristianesimo – Religione, politica e cultura, dir. J.M. Mayeur, C.L. Petri, A. Vauchez, M. Venard, ed. it. a cura di G. Alberigo, vol. 11, Liberalismo, industrializzazione, espansione europea (1830 – 1914), Borla / Città Nuova, Roma, 2003.


LEMMARIO




Rosminianesimo - vol. I


Autore: Fulvio De Giorgi

Rosmini. Il ‘rosminianesmo’ in senso generale fa riferimento alla figura e all’opera di Antonio Rosmini (1797-1855). Tale opera riguarda sia i suoi scritti filosofici (relativi alla gnoseologia, all’ontologia, alla filosofia morale, alla filosofia della politica, alla filosofia del diritto), teologici (relativi all’antropologia ‘soprannaturale’, all’ecclesiologia, alla teodicea, alla teosofia), pedagogici (sull’educazione cristiana e la catechesi, sull’unità e sulla metodica dell’educazione), ascetici e spirituali sia il suo impegno di educatore, di fondatore di un Istituto di perfezione (Istituto della Carità) e perfino di politico, nel corso delle vicende del 1848 e del periodo immediatamente successivo. La cifra sintetica di tale multiforme opera è data dalla volontà di imprimere un indirizzo nuovo al pensiero cattolico – così da porlo in dialogo aperto e fecondo con la modernità – e quindi alla spiritualità e alla vita pastorale. Il fulcro è dato dall’idea dell’essere o, meglio, dalla distinzione tra essere reale, essere morale e essere ideale.

Rosminiani/e. In senso proprio con questo termine si indicano i religiosi del già ricordato Istituto della Carità e le Suore della Provvidenza. Tra le figure di spicco, nell’Ottocento, si ricordano Francesco Paoli, segretario e primo biografo di Rosmini, e Giovanni Battista Pagani, superiore generale e autore di una Vita che poi – ampliata da Rossi – è stata ed è ancora il testo di riferimento per la ricostruzione delle vicende del prete di Rovereto. Nel Novecento, tra i maggiori rosminiani si ricordano Giuseppe Bozzetti, significativo autore ascetico, il poeta Clemente Rebora, Giovanni Pusineri, il vescovo Clemente Riva e Remo Bessero Belti, fine scrittore di spiritualità. Per la comprensione del carisma specifico dell’Istituto è importante la distinzione di una triplice carità, presente nelle Costituzioni: carità corporale, carità intellettuale e carità spirituale.

Filo-rosminianiani. Una significativa area di simpatia per Rosmini e per il rosminianesimo si ebbe, nel corso dell’Ottocento, ma anche nel Novecento, nel clero secolare e in molti ordini e congregazioni religiose. Durante il Risorgimento gran parte del clero ‘nazionale’ (a Milano e, in generale, in Lombardia, in Piemonte e in Veneto) fu filo-rosminiano. Così pure dopo l’Unità: bastino i nomi dell’abate Stoppani e del vescovo di Torino Gastaldi. Tra i religiosi si possono ricordare i barnabiti e gli scolopi, il mazziano Francesco Angeleri, Sebastiano Casara secondo fondatore dell’Istituto Cavanis, nonché i cappuccini Luigi Puecher Passavalli, Claudio Poggi e, nel Novecento, Paolo Piombini. Più in generale la filosofia rosminiana fu vista complessivamente con favore nel vasto mondo francescano, che ne scorgeva le affinità con l’indirizzo serafico bonaventuriano.

Rosministi. I seguaci, anche laici, della filosofia di Rosmini e dei suoi indirizzi culturali possono, più propriamente, essere chiamati ‘rosministi’. Tra questi vi furono, pur con una loro autonomia, alcuni illustri amici dello stesso Rosmini come Alessandro Manzoni (nel dialogo Dell’Invenzione) e Niccolò Tommaseo (in particolare negli scritti pedagogici). Importante fu pure l’opera di alcune riviste, come “Ateneo Religioso” (di Biginelli), “La Sapienza” (di Vincenzo Papa), “Il Rosmini” (di Stoppani), “Il Nuovo Rosmini” (di Michelangelo Billia) e, soprattutto, “Rivista Rosminiana” (che iniziò le pubblicazioni nel 1906 e che continua tuttora). Un puntuale esegeta degli scritti rosminiani, per dimostrarne la perfetta ortodossia, fu Giuseppe Morando. Ma, nel corso del Novecento, i filosofi cattolici italiani che con più forza speculativa ripresero il rosminianesimo o ne furono significativamente influenzati furono Giuseppe Capograssi, Michele Federico Sciacca e Pietro Prini.

Scuola italiana di spiritualità. Il rosminianesimo indica pure un indirizzo di spiritualità: anzi tale indirizzo potrebbe, con molte ragioni, definirsi la ‘scuola italiana’. In essa si ricapitola un lungo cammino – tipico di molte figure spirituali italiane – teso alla “riforma cattolica”: cioè una riforma della Chiesa, ma dall’interno, senza disobbedienze alla gerarchia e senza posizioni eterodosse. Nel corso dell’Ottocento tale indirizzo trova i suoi maggiori esponenti in Rosmini e nel laico Manzoni (ma poi anche in Tommaseo, in Lambruschini, in Gioberti e in molti altri) e ha, al suo centro, la dinamica della Carità. Tra fine Ottocento e primo Novecento ha i maggiori rappresentanti nel cardinale Capecelatro, nel vescovo Bonomelli, nel religioso Gazzola e nel laico Fogazzaro. A tali lezioni si ricollegano anche don Mazzolari e p. Bevilacqua. Un’eco nascosta, ma non invisibile, si ha pure in Roncalli e in Montini.

Questione rosminiana. Con tale termine si intende la controversia sull’ortodossia di Rosmini e del rosminianesimo, che fu aperta dagli attacchi di autori gesuiti e dalla messa all’Indice, nel 1849, delle due operette rosminiane, pubblicate l’anno prima, La Costituzione secondo la giustizia sociale e Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Rosmini si sottomise prontamente. L’insieme degli scritti di Rosmini fu allora preso in esame, ma nel 1854 vi fu la dichiarazione (il cosiddetto Dimittantur) di nessun errore dottrinale contenuto in essi. Dopo la morte del Roveretano e la pubblicazione postuma di altre opere rimaste incompiute, le polemiche si riaccesero. Si giunse così, nel 1887, ad un decreto del Sant’Uffizio (cosiddetto Post-Obitum) che condannava 40 proposizioni rosminiane. Da allora e per lungo tempo il rosminianesimo fu guardato con sospetto e fu emarginato. Solo il Concilio Vaticano II, del cui magistero Rosmini apparve un precursore, avviò a definitiva soluzione la questione. Le Cinque Piaghe furono riabilitate. Con interventi nel 1994 e, soprattutto, nel 2001 Congregazione per la Dottrina della Fede sciolse i dubbi di eterodossia. Nel 1998 nella Fides et Ratio, Giovanni Paolo II citava, tra gli altri, Rosmini. Nel 2007 Benedetto XVI decretava la sua beatificazione.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Bergamaschi, Bibliografia rosminiana, 9 voll., Milano, Marzorati; poi Genova, La quercia; poi Stresa, Sodalitas, 1967-1999; F. Traniello, La questione rosminiana nella storia della cultura cattolica in Italia, in “Aevum”, 37 (1963), 1-2, 63-103; Id., Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna, Il Mulino, 1966 (nuova edizione Brescia, Morcelliana, 1997); Id., Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano, Marzorati, 1970; F. De Giorgi, La questione rosminiana nella storia della cultura cattolica, in B. Gariglio – M. Margotti – P.G. Zunino (a cura di), Le due società. Scritti in onore di Francesco Traniello, Bologna, Il Mulino, 2009, 229-252; P. Marangon, Le eredità/1: i rosminiani, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società 1861-2011, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 1253-1264.


LEMMARIO




Sacro romano impero - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Con questa espressione viene designata per lunga tradizione l’istituzione sovrana che governò su differenti parti d’Europa dall’anno 800 (incoronazione di Carlomagno) all’anno 1806 (deposizione della corona imperiale da parte di Francesco II d’Asburgo dietro pressione napoleonica). Il termine non è del tutto esatto, in quanto il Sacro Romano Impero propriamente detto è basso medievale e moderno, ma il suo uso è generalmente accettato poiché condensa il concetto di fondo dell’esistenza di un Impero romano rifondato in Occidente dopo la fine di quello antico (476). I milleduecento anni della sua storia si suddividono in sei fasi fondamentali: Impero carolingio (800-887); Impero ottoniano o della dinastia sassone (962-1024); Impero della dinastia salica (1024-1125); Impero della dinastia sveva (1139-1250); Impero basso medievale (1273-1428); Impero della dinastia asburgica (1438-1806).

La conquista franca del regno longobardo (774) e il rivolgimento degli indirizzi politici del papato, che smise di guardare all’ oriente bizantino e si rivolse all’ occidente franco, sono le premesse della prima Renovatio dell’Impero, avvenuta con l’incoronazione di Carlomagno la notte di Natale dell’800. Invocando come giustificazione l’assenza di un sovrano sul trono imperiale a Costantinopoli (era infatti imperatrice una donna, Irene), con l’incoronazione di Carlo si volle sancire il ritorno dell’Impero in Occidente, dopo che, nel 476, Odoacre aveva restituito le insegne imperiali a Bisanzio. L’Impero carolingio, che perdurò sino all’887 (deposizione di Carlo III il Grosso) fu proposto come il rinnovato Impero romano, sebbene la sua conformazione territoriale non corrispondesse all’istituzione antica: mentre infatti l’antico impero aveva il baricentro nel Mediterraneo, quello carolingio corrispondeva sostanzialmente all’Europa centro-occidentale. Al tempo della sua massima espansione (regni di Carlomagno e di Ludovico il Pio) esso comprendeva una parte considerevole dell’Europa continentale, corrispondente alle attuali Spagna del Nord, Francia, Italia centro-settentrionale, Svizzera, parte della Germania, Austria, Slovenia. Con il trattato di Verdun (843) l’Impero fu diviso in tre parti. Quella più occidentale si sarebbe distaccata definitivamente dando origine al regno di Francia e ai regni cristiani di Spagna, mentre le parti centrale e orientale, ricompattate (e aumentate di superficie verso oriente nei secoli successivi) avrebbero continuato a costituire l’Impero. In particolare, il regno italico, situato nella parte centro-settentrionale della penisola, corrispondeva all’antico regno longobardo, con l’aggiunta del ducato di Spoleto e delle Marche. L’Italia meridionale rimase invece parte araba, parte bizantina e parte longobarda; mentre i territori già bizantini corrispondenti all’Esarcato cominciarono a essere rivendicati dall’arcivescovo di Ravenna e dal pontefice romano. Nei secoli successivi queste regioni, con l’aggiunta di parte del ducato di Spoleto e delle Marche, avrebbero costituito lo Stato della Chiesa. Soprattutto per l’azione sinergica dell’imperatore e del pontefice, il periodo carolingio segnò una fase fondamentale di costruzione della societas christiana, che fu organizzata dal punto di vista istituzionale, ponendosi allora le basi per una koinè culturale che, fatte salve le numerose differenze locali, si sarebbe mantenuta per secoli. L’Impero carolingio fu peraltro una costruzione politica non duratura, che implose alla fine del secolo IX.

Al suo disfacimento seguì un periodo turbolento (888-962) durante il quale i singoli regni e ducati di cui l’Impero si componeva assunsero fisionomie sempre più autonome. Il regno italico costituì un’entità separata, in cui gli appartenenti a pochissime grandi famiglie si contesero il trono e in i cui sovrani assunsero – è il caso di Guido e Lamberto di Spoleto – anche il titolo imperiale, pur non governando, nei fatti, al di fuori della penisola. Il periodo ottoniano è quello compreso tra gli anni 962 (incoronazione di Ottone I) e il 1024 (morte di Enrico II). Con il matrimonio tra Ottone I di Sassonia e Adelaide di Borgogna (951) il riconquistato regno italico diventò parte fondamentale della sfera di azione dei sovrani germanici, che ne assunsero il governo diretto. Il nuovo Impero, rifondato il 2 febbraio del 962 con l’incoronazione di Ottone seguita alla guerra vittoriosa contro Berengario II, comprendeva gran parte della Germania e dell’Italia centro-settentrionale e, dal 1033, anche il regno di Borgogna. Poiché non includeva più il regno dei franchi occidentali, spesso si è soliti considerare l’Impero ottoniano, anziché quello carolingio, come la prima autentica espressione del Sacro Romano Impero (benché, come si è detto, tale termine in quel’epoca non esistesse ancora). È in particolare agli anni di regno di Ottone III (996-1002) che si deve la grande costruzione ideologica della Renovatio imperii Romanorum in chiave costantiniana e avente come capitale simbolica la città di Roma. Da allora, il vincolo con l’Urbe e la cristomimesi dell’imperatore diventarono sempre più marcate, trovando una fase di climax durante il regno di Enrico III, che imponendo nel 1046 un proprio candidato sul trono pontificio avrebbe dato avvio alla grande stagione della Riforma della Chiesa. Solo se il re dei romani (cioè l’imperatore designato) veniva incoronato a Roma, egli diveniva a tutti gli effetti imperatore: un vincolo e un obbligo che giustifica, sia in chiave politica che simbolica, una parte preponderante dell’azione di tutti gli imperatori fino al 1452, quando Federico III d’Asburgo ricevette per l’ultima volta la corona a Roma dal pontefice. Suo nipote Carlo V, le cui truppe avrebbero messo per mesi a sacco la città di Roma nel 1527, fu incoronato invece a Bologna nel 1530, tuttavia seguendo ancora l’antico rituale.

L’incontro di volontà politica e ideologica tra Impero e Papato si ruppe nel periodo detto della Lotta per le Investiture (1076-1122), quando le due massime istituzioni della Cristianità occidentale si combatterono l’un l’altra per l’egemonia. Benché l’Impero all’apparenza non perdesse allora che poche delle proprie prerogative (il Concordato di Worms del 1122 è infatti un compromesso), in realtà era ormai in atto un processo di lunga durata che avrebbe indebolito l’istituzione imperiale, desacralizzandola. Al tempo di Federico I, detto il Barbarossa (1155-1185) fu coniata l’espressione sacrum imperium, poi trasformatasi nella dizione corrente di Sacro Romano Impero. Riprese allora lo scontro con il Papato, sovrapponendosi alla base tradizionale della lotta due novità fondamentali: da una parte la volontà imperiale di ricondurre nella forma del tradizionale controllo sovrano le nuove realtà istituzionali che proliferavano in Italia del Nord, cioè i comuni; dall’altra l’assunzione di fondamenti ideologici che si rifacevano direttamente alla romanità classica e che portarono alla riscoperta e al reimpiego del diritto romano. Dopo il 1183 (pace di Costanza) e fino ai primi decenni di regno di Federico II, si riebbe una fase di sostanziale equilibrio nei rapporti tra Papato e Impero, sfociata però in una guerra aperta.

Dalla morte di Federico II (1250), cui seguì un interregno senza imperatori durato oltre venti anni, l’Italia si trovò sempre più svincolata dal controllo diretto dell’imperatore. Nonostante gli iterati tentativi di ricostruire l’assetto italiano-tedesco e il ritorno a una monarchia di aspirazioni universali (soprattutto nel corso dei primi decenni del secolo XIV con il regno di Enrico VII – si pensi alla Monarchia di Dante – e con il regno di Ludovico il Bavaro) e nonostante la lotta accanita combattuta fra Due e Trecento dalla fazione ghibellina, cioè imperiale, contrapposta a quella guelfa, cioè pontificia e angioina (una lotta che però nascondeva soprattutto contrapposizioni e disequilibri locali) in realtà l’Impero assunse da allora una fisionomia sempre più marcatamente germanica, resa formale dalla Bolla d’Oro di Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia (1356), con la quale vennero stabiliti i grandi principi elettori preposti alla scelta dell’imperatore, che erano tutti tedeschi e che de facto regolavano l’elezione imperiale da oltre cento anni. Dal XV secolo si cominciò a usare l’espressione «Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca» (termine ufficializzato nel 1512), che perdurò durante tutta l’età moderna.

La rimozione della storia della presenza dell’Impero in Italia durante l’età moderna è stata pressoché totale fino a tempi recenti, causata in gran parte dalla connotazione ideologica anti-tedesca della nostra storiografia risorgimentale (e il suo ruolo nella storia ecclesiastica attende ancora uno sguardo di sintesi). Ciononostante, il progressivo attenuarsi della capacità di azione dell’imperatore in Italia, non significò affatto che l’antico regno d’Italia non continuasse a essere considerato parte integrante dell’Impero durante tutto l’Ancien Régime. Pur contendendo il territorio italiano con altre potenze (sopra tutte la Francia e la Spagna), i territori facenti parte dell’antico regno italico rimasero, almeno nominalmente (e non di rado ben più che nominalmente) sotto l’alto dominio imperiale. In alcuni periodi, come la prima metà del Cinquecento, la fine del Seicento e il periodo 1745-1799 (quando è strettissimo il vincolo dinastico tra Impero e granducato di Toscana), l’autorità imperiale nella penisola fu molto accentuata. In termini generali, erano considerati come appartenenti all’Impero gli Stati sabaudi, il Monferrato, la Repubblica di Genova, gli Stati toscani, gli Stati di Milano, Mantova, Parma, Piacenza, Modena e alcuni altri Stati padani come Guastalla e Reggio Emilia. L’imperatore rivendicava l’alta sovranità sopra tutti questi territori e i principi vi dominavano in quanto suoi vicari, mentre il duca di Savoia era vicario dell’imperatore per l’Italia intera. Accanto a questi feudi imperiali che si è soliti definire maggiori, esistevano anche numerosi altri feudi imperiali che si è soliti definire minori, i quali avevano la caratteristica di essere quasi tutti collocati in zone di confine tra i feudi imperiali maggiori, oppure inseriti all’interno di quelli, o, ancora, posti al confine con lo Stato pontificio.

Durante la prima età moderna, il peso dell’imperatore in Italia ebbe rilievo anche sotto il profilo della storia religiosa ed ecclesiastica, in quanto la linea perseguita fu sempre la difesa del cattolicesimo. Si verificarono però allora fortissimi contrasti tra la politica imperiale e quella papale, sia nei termini di schieramenti politico-militari (sacco di Roma del 1527 e successiva pacificazione del 1530), sia intorno al Concilio di Trento (0000), che si celebrò in più fasi in un territorio che si trovava compreso entro i confini dell’Impero, ma che era altresì di lingua italiana e retto da un principe vescovo. In generale, tuttavia, mentre il dominio nei territori germanici protestanti dovette portare a soluzioni politiche di compromesso con i principi protestanti, l’azione dell’imperatore, del papa e poi soprattutto quella del re di Spagna possono essere considerate un elemento fondamentale alla base dell’insuccesso della riforma protestante e, viceversa, del successo della riforma cattolica nel corso del XVI secolo in Italia. Sebbene non fosse più advocatus della Chiesa romana come era stato durante il medioevo e sebbene non potesse scegliere il pontefice (come era accaduto soprattutto tra la seconda metà del X e la prima metà dell’XI secolo), l’imperatore continuava ad esercitare prerogative nella designazione dei cardinali e manteneva un diritto di veto nell’elezione pontificia. Nel corso del Settecento furono attuati ampli processi di secolarizzazione negli Stati italiani in qualche modo aggregati alla monarchia asburgica (Toscana, Lombardia), sebbene tale processo vada colto come conseguenza delle politiche ecclesiastiche delle rispettive dinastie, indipendentemente dalla formale appartenenza all’Impero.

Fonti e Bibl. essenziale

P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio. Studien und Texte zur Geschichte der römischen Erneurungsgedankens vom Ende des karolingischen Reiches bis zum Investiturstreit, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1929; E.H. Kantorowicz, Federico II di Svevia, Garzanti, Milano 1939; R. Folz, L’idée d’empire en Occident du Ve au XIVe siècle, Aubier, Paris 1953; Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 27, 19-25 aprile 1979, CISAM, Spoleto 1981; P. Cammarosano, Nobili e re: l’Italia politica nell’alto medioevo, Laterza, Roma-Bari 1998; F. Heer, Il Sacro Romano Impero: mille anni di storia d’Europa, Newton Compton, Roma 2001; C. Donati, H. Flachenecker (edd.) Le secolarizzazioni nel Sacro Romano Impero e negli antichi stati italiani: premesse, confronti, conseguenze, Bologna, il Mulino; Berlin, Duncker & Humblot, 2005; M. Schnettger, M. Verga (edd.), L’Impero e l’Italia nella prima età moderna, Atti del convegno Trento, 19-21 giugno 2003, il Mulino, Bologna 2006; K. Brandi, Carlo V, Einaudi, Torino 2008; M. Bellabarba, J.P. Niederkorn (edd.), Le corti come luogo di comunicazione: gli Asburgo e l’Italia (secoli XVI-XIX), Atti del convegno Trento 8-10 novermbre 2007, il Mulino, Bologna, 2010; C. Cremonini, R. Musso (edd.), I Feudi Imperiali in Italia tra XV e XVIII secolo, Atti del Convegno dell’Istituto internazionale di studi liguri, Albenga-Finale Ligure-Loano, 27-29 maggio 2004, Bulzoni, Roma 2010; H. Keller, Gli Ottoni. Una dinastia imperiale fra Europa e Italia (secc. X e XI), Roma, Carocci, 2012.


LEMMARIO